OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 1/2003

IRAQ: LA SCOMODA VERITà di Aldo Torchiaro

11 settembre 2001 e guerra al terrorismo: le verità nascoste di Massimo Virgilio

atlante geopolitico-letterario di Livio Zaccagnini

Futuro dell’Europa di Giovanni Castellani Pastoris

CAMERUN, NON SOLO GAMBERI di Maria Vittoria Sbordoni

IRAQ: LA SCOMODA VERITÀ

Una imbarazzante storia della rete dei rapporti con Baghdad

di Aldo Torchiaro

attualità

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Nella prima metà dello scorso mese di agosto, quando i media hanno iniziato a paventare l'imminenza di un attacco Usa all'Iraq fra voci di assenso (poche), di critica (molte) e di netto dissenso (in buon numero), qualcuno ha rimesso in circolazione le vicende che videro il governo Usa, la Cia e l'industria della Difesa americana rifornire senza risparmio Saddam Hussein di armamenti, materiali strategici e finanziamenti, assumendo al contempo un'incredibile atteggiamento tollerante nei suoi confronti.

Una manovra chiaramente tesa a danneggiare l'Amministrazione Bush che però potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio perché di certe scelte politiche e strategiche, non sarebbero solo gli Stati Uniti a dover arrossire, ma si troverebbero in eccellente compagnia. Per esempio di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Svizzera.

Nel 1989-90 infatti, proprio gli aiuti concordemente forniti all'Iraq da questi Paesi nel decennio precedente avevano consentito a Saddam Hussein di approntare, proporzionalmente, quella che alla vigilia dell’operazione Desert Storm era considerata la più forte struttura militare del mondo.

In quell'anno, infatti, mentre l'allora Unione Sovietica con una popolazione di circa 290 milioni di abitanti aveva alle armi 4.250.000 suoi cittadini, gli Stati Uniti 2.125.000 per 248 milioni di abitanti e la Cina Popolare, 3.200.000 a fronte di ben 1 miliardo e 112 milioni di cinesi, l'Iraq, con una popolazione numericamente trascurabile al confronto, appena 18 milioni di unità, ne aveva in divisa ben 1 milione più 450.000 nella Milizia, appoggiati da 4.800 carri da battaglia, 2.000 blindati trasporto truppe, un'artiglieria di 4.000 bocche da fuoco e così via.

Una massa di uomini imponente, ben armata ma anche abituata al combattimento, perché tra il 1980 e il 1988 l'Esercito iracheno aveva combattuto una lunghissima e sanguinosa guerra, terminata senza veri vincitori né vinti, con il confinante Iran.

Eppure, nonostante il conflitto in atto che logorava giorno per giorno lo strumento militare, Baghdad aveva sostenuto con successo una poderosa campagna di potenziamento dei suoi armamenti proprio grazie agli aiuti dei Paesi occidentali.

Questi infatti, per ostacolare il radicalismo sciita che aveva sommerso l'Iran travolgendo lo Scià di Persia Reza Pahlevi, storico e corrotto alleato degli Stati Uniti nell'area, instaurando la Repubblica Islamica e divenendo il nemico numero uno del "Grande Satana" di Washington e della "cricca sionista" di Tel Aviv, su input Usa avevano deciso di appoggiare indiscriminatamente il suo peggiore nemico: Saddam Hussein.

Le Forze Armate iraniane erano qualitativamente superiori a quelle irachene grazie agli aiuti americani accumulati dallo Scià; potevano contare su una buona Aeronautica, e una moderna Marina controllava in assoluto le vie d'acqua del Golfo Persico mentre l'Iraq ne era praticamente sprovvisto. Occorreva correre subito ai ripari, ma la rapidità dell'azione andò a discapito della accuratezza delle valutazioni che saranno, come poi si vedrà, disastrose.

Subito dopo l'inizio del conflitto e prima della fine del 1980, la Francia dichiarava di voler dare immediato seguito al previsto programma di fornitura di velivoli da combattimento all'Iraq per 1,6 miliardi USD (valuta del 1980), e per non perdere tempo inviava subito 5 Super Etendard della Marine Nationale.

Ma la decisione più grave veniva presa da Francia e Italia che confermavano il loro appoggio al programma in atto per la costruzione di un reattore nucleare destinato alla ricerca a " scopi del tutto pacifici" ed "eventualmente alla produzione di energia elettrica" denominato Osirak.

Questo era un apparato di progettazione francese da 40 megawatt che utilizzava uranio 235 arricchito al 93% cui era stato dato il nome del dio Osiris; destinato a Baghdad diveniva Osirak, mentre gli iracheni lo chiamavano Tammuz dal mese nel quale il Partito Ba'ath salì al potere con il colpo di Stato del 1968. Qualcuno obiettava che poteva forse essere rischioso dare il via ad un programma nucleare in quell'area e in quel particolare momento, ma il quotidiano parigino Le Monde commentava, un poco pontificando, che "Il nostro Governo non può correre il rischio di irritare questo Paese produttore di petrolio.".

Alla fine del maggio 1981 il reattore era quasi ultimato e gli scienziati francesi ammettevano che, in teoria, avrebbe potuto essere impiegato anche per la realizzazione di armamenti; negli stessi giorni il Presidente François Mitterrand  dichiarava di essere pronto a fornire all'Iraq il combustibile nucleare necessario.

Fortunatamente qualcuno aveva mantenuto una visione obiettiva della vicenda: i servizi segreti di Israele, che poteva essere il primo bersaglio di eventuali atomiche irachene, avevano la conferma che Osirak era in grado di essere utilizzato per la costruzione di ordigni nucleari e il 7 giugno cacciabombardieri di Tel Aviv con una incursione "chirurgica" distruggevano l'impianto, suscitando reazioni avverse da chi, nel mondo, non correva il rischio della guerra nucleare.

Per ironia delle sorte le proteste più dure dovevano essere quelle dell'Arabia Saudita che si offriva subito di finanziare la ricostruzione dell'impianto (che per fortuna non avverrà) e degli Stati Uniti il cui vice Presidente, George Bush, padre dell'attuale Presidente George W. Bush jr, deplorava vivacemente "il brutale attacco scatenato da Israele".

Quello che il mondo non sapeva, o meglio che molti fingevano di non sapere, era che già all'inizio del 1980 l'Institut Mérieux, una società francese produttrice di vaccini con sede a Lione e facente parte del colosso farmaceutico Rhone-Poulenc (non proprio una fabbrichetta gestita da sprovveduti) aveva curato la realizzazione ad Al Manal di un complesso destinato "alla produzione di  vaccino contro l'afta epizootica", una malattia virale del bestiame.

La spesa era stata elevatissima perché gli edifici non erano stati costruiti secondo le norme edili standard, ma avevano le strutture costituite da gettate di cemento armato insolitamente troppo spesse e rinforzate con sbarre  e piastre d'acciaio, mentre le zone interne, destinate alla produzione dei "vaccini", erano state a loro volta corazzate con vere e proprie corazzature.

La maggior parte dei macchinari non era stata fornita dal Mérieux, ma proveniva da aziende europee del settore farmaceutico di Francia, Germania, Spagna e Svizzera. Così ufficialmente nessuno aveva venduto, ad esempio, una linea di produzione per l'antrace o per il gas sarin, ma singole apparecchiature che però, una volta assemblate, non avrebbero prodotto certo vaccini. Ma stranamente nessuno, neanche i tecnici francesi che supervisionavano la costruzione di una fabbrica di vaccini corazzata come un bunker antinucleare, ebbe mai alcun sospetto.

Come non ebbe alcun sospetto la direzione dell'American Type Culture Collection, un'organizzazione senza fini di lucro che vende materiale biologico a laboratori scientifici e industrie, che per 35 dollari fornì per posta ad uno sconosciuto laboratorio iracheno un ceppo di botulino, base per la produzione dell'antrace.

Un anno dopo, nel 1981, un noto gruppo farmaceutico tedesco sovrintendeva a Salman Pak e Fudaliyah alla costruzione di uno stabilimento per la produzione di pesticidi e di uno per la produzione di altre sostanze "destinate all'agricoltura" che sarebbero stati pronti nel mese di autunno, ma per produrre armi chimiche.

Questi ed altri impianti fornivano così iprite, gas nervini e gli altri aggressivi che l'Iraq iniziò ad impiegare in operazioni belliche nel 1984 e che nel marzo 1988, poco prima della fine della guerra, verranno usati per reprimere i moti indipendentisti curdi colpendo la città di Halabja, nell'Iraq settentrionale, gasando e uccidendo non meno di 5.000 persone e costringendone circa 80.000 a fuggire per trovare riparo in Turchia.

E nel 1985, quando da un anno si sapeva che Baghdad faceva ricorso alle armi chimiche, il personale specializzato del Mérieux che ad Al Manal istruiva il personale iracheno non interruppe il suo lavoro. Anche se ben sapeva che la catena per la produzione di un virus è la stessa sia per realizzarne uno da utilizzare in un vaccino che uno destinato ad un'arma di distruzione di massa. Basta cambiare le basi di partenza.

Nel 1982 Saddam Hussein dichiarava che avrebbe abbandonato il suo appoggio al terrorismo e a riprova di ciò espelleva da Baghdad Abu Abbas (che l'anno seguente gestirà il sequestro del transatlantico da crociera Achille Lauro). Il Dipartimento di Stato americano rispondeva al "gesto di buona volontà" cancellando l'Iraq dalla lista dei Paesi sponsor del terrorismo, con la qual cosa adesso Baghdad poteva avere accesso all'acquisto di tecnologie di ultima generazione e otteneva  anche di usufruire di cospicui prestiti dalla Washington's Commodity Credit Corporation.

All'inizio dello stesso anno per avere un mezzo di contrasto da opporre alla Marina iraniana, il raìs ordinava a prezzi estremamente agevolati all'italiana Fincantieri 4 fregate e 6 corvette, tutte missilistiche, e una unità logistica. I lavori iniziavano nel 1982 e le unità venivano varate tra il 1982 (la logistica) il 1985 (le corvette) e il 1987 (le fregate).

L'Accademia Navale di Livorno e le Scuole Sottufficiali di Taranto e La Maddalena provvedevano  ad addestrare i quadri della futura Marina irachena, come del resto facevano da anni anche per la Marina iraniana, in una difficile ma controllata convivenza tra classi di allievi-nemici.

Ma l'addestramento degli equipaggi delle unità commissionate, previsto da un accordo con la Marina Militare, che avveniva a La Spezia, andava per le lunghe. Così  le unità, oramai navi da guerra irachene con tanto di bandiera militare, all'entrata in vigore dell'embargo del 1990 sulle esportazioni di armamenti e materiali militari all'Iraq venivano sequestrate e non verranno mai consegnate. La nave logistica, meno impegnativa, aveva lasciato l'Italia nel 1986, ma era stata internata ad Alessandria d'Egitto, dove si trova tuttora, prima di passare il Canale di Suez.

Questa fu l'unica o una delle poche operazioni di acquisizione armamenti fallita, ma solamente per una serie di casualità, e non certo per volontà di politici, militari o, ancor meno, industriali.

Nel 1983 "uomini d'affari" iracheni iniziavano ad acquistare, su consulenze di esperti finanziari francesi e svizzeri, tecnologie militari, rilevati in tale incarico, circa un anno dopo, dal Ministero per l'Industria e le Tecnologie Militari di Baghdad senza che nessuno lo trovasse strano.

Nel febbraio del 1984 gli Stati Uniti confermavano l'impiego da parte dell'Iraq dell'iprite contro gli iraniani. A novembre, dopo la seconda elezione alla presidenza di Ronald Reagan, venivano riprese le relazioni diplomatiche con Baghdad, interrotte anni prima. Durante questo anno Saddam Hussein spendeva ben 14 miliardi USD per l'acquisto all'estero di materiali bellici da impiegare nel conflitto. L'iniziale svantaggio militare nei confronti dell'Iran stava rapidamente decrescendo.

Nel 1985, su richiesta e dietro finanziamenti da parte del raìs, l'ex ambasciatore Usa in Oman Marshall W. Wiley fondava l'US-Iraq Business Forum nel quale confluivano circa 70 grandi aziende americane fra la quali Westinghouse e Caterpillar.

A novembre avveniva il sequestro dell'Achille Lauro organizzato e gestito dal "ripudiato" Abu Abbas che però viaggiava ancora con passaporto iracheno e che alla fine della vicenda avrebbe trovato rifugio a Baghdad; ma nonostante l'assassinio di Leon Klinghoffer e lo sdegno internazionale Washington decideva di non rimettere l'Iraq nella lista dei Paesi terroristi.

La vicenda degli aiuti aveva risvolti quasi comici quando il Governo di Londra nel 1986 decideva di cedere all'Esercito iracheno la sua intera disponibilità di uniformi desertiche. La cosa, infatti, non farà piacere ai soldati britannici che quattro anni dopo dovranno fronteggiare, infagottati in pesanti mimetiche dato che il vestiario desertico non era stato ancora sostituito, i militari iracheni confortevolmente dotati delle combinazioni britanniche.

Nel marzo del 1988 avveniva la già citata strage di curdi ad Halabja, e in America i senatori Clairborne Pell e Jesse Helms chiedevano l'applicazione di pesanti sanzioni a Baghdad, ma l'Amministrazione Reagan faceva notare che l'iniziativa era quanto meno "prematura" bloccandola.

Il 17 luglio aveva termine il lungo e sanguinoso conflitto tra Iran e Iraq che aveva visto un incredibile dispendio di uomini e mezzi, e contemporaneamente un sempre maggiore rafforzamento della struttura militare irachena. La fine della guerra non modificava in tutti i casi la corsa agli armamenti di Baghdad che, come abbiamo visto, aveva già dato ottimi frutti.

Ne è la prova il fatto che tra il febbraio del 1988 e il luglio 1989 la filiale dell'italiana Banca Nazionale del Lavoro di Atlanta, nella Georgia, accordava all'Iraq 3 miliardi di USD in prestiti segreti e non autorizzati, cifra che veniva ripartita in parte in acquisti presso aziende americane, britanniche e tedesche, il rimanente depositato presso la Banca Centrale dell'Iraq.

Baghdad, che nei due anni precedenti aveva ottenuto due prestiti da 1 miliardo USD dalla Commodity Credit Corporation, ne otteneva un altro da 750 milioni e prima della fine dell'anno ne avrà un altro ancora da 500 milioni. Ma il Congresso degli Stati Uniti, tenendo a mente quanto era avvenuto a Halabja e di come era stato insabbiato il suo appello per le sanzioni, rigettava la richiesta di Baghdad per avere altri prestiti da parte dell'Export-Import Bank.

Inutilmente perché nel gennaio dell'anno seguente, il 1990, il neo eletto Presidente George Bush, "in nome dell'interesse nazionale americano" rimuoveva il veto e consentiva l'accesso ai fondi. Esattamente ad un anno di distanza dall'inizio di Desert Storm.

A questo punto, però, nonostante la stessa Amministrazione Bush che un anno dopo sarebbe stata inflessibile contro Saddam Hussein (e tuttora continua ad esserlo in "linea ereditaria") mantenesse una inspiegabile tolleranza nei confronti degli atteggiamenti sempre più insostenibili di Saddam Hussein, si era verificato un deterioramento nella situazione dei rapporti tra Baghdad e l'Occidente.

Non che questo portasse ad un blocco degli aiuti o delle vendite, tutt'altro. Ma episodi come l'arresto di contrabbandieri di materiale strategico che nel mese di marzo tentavano di importare da Londra componenti per i detonatori di ordigni nucleari (fabbricati da una ditta di San Diego, in California), la crescente arroganza delle dichiarazioni e degli atteggiamenti di Saddam Hussein, le sempre più numerose esercitazioni e i rischieramenti dell'Esercito iracheno nei pressi del confine kuwaitiano non erano ancora sufficienti a determinare una inversione di tendenza nella linea politica di Washington. Ma anche di molti altri Paesi.

In pratica fino a poco prima  dall'attacco della coalizione occidentale all'Iraq, l'atteggiamento dei Paesi ex amici di Saddam Hussein doveva rimanere quanto mai incerto e ambiguo, e i vari Governi che avevano appoggiato l'Iraq in maniera, come abbiamo visto, che giungeva a travalicare la ragion di Stato impiegheranno ancora molti mesi prima di ammettere i loro torti

L'Italia era fuori causa per via delle navi costruite per l'Iraq che, nonostante avesse pagato un anticipo più che lauto (le conseguenze sulla credibilità della nostra industria bellica derivate da questa vicenda saranno devastanti, con profonde ripercussioni sull'economia nazionale), erano state sequestrate e mai consegnate, ma la Francia, mentre era già in svolgimento Desert Shield ossia la fase preparatoria di Desert Storm, rifiutava ancora di fornire informazioni al Pentagono sugli apparati ECM forniti all'Iraq per il contrasto e il disturbo dei velivoli early warning  AWACS.

E sempre negli stessi giorni il Dipartimento di Stato e il Ministero del Commercio Usa facevano di tutto per far ottenere (fortunatamente con esito negativo) il permesso affinché l'IBM potesse fornire ad una azienda brasiliana, che era nota per avere legami ferrei con Baghdad al quale aveva già fornito una lunga serie di eccellenti materiali, tecnologia digitale di ultimissima generazione.

Non era migliore il comportamento della Germania che solo a undici giorni da Desert Storm bloccava un invio di materiali destinati al programma missilistico iracheno. La spedizione, da parte della H+H Metalform Gmbh risultava essere composta, secondo il manifesto di carico che avrebbe dovuto seguire casse e imballaggi, da "parti di macchinari per l'industria casearia". E tanti altri casi analoghi, molti dei quali non saranno mai resi noti, si dovevano verificare in quei giorni.

In realtà tutto questo era stato dovuto ad una congiuntura piuttosto rara e per questo ancor più pericolosa, ossia al crearsi spontaneo di una perfetta simbiosi tra le decisioni di alcune classi politiche che avevano preso dei colossali abbagli, senza accorgersene in un primo tempo e senza volerlo ammettere in seguito, e le logiche linee di condotta di tante industrie belliche alle quali i politici avevano dato mano libera e che per questo, giustamente, ritenevano di avere carta bianca nella loro corsa al guadagno.

Allo stesso tempo i servizi segreti dei Paesi occidentali avevano dimostrato o una totale incapacità di operare corrette valutazioni o una totale incapacità di far valere i propri diritti quando avevano espresso le loro riserve davanti ai rispettivi Governi.

E oggi, a oltre dieci anni dagli eventi che ho citato, stiamo ancora pagando durissime conseguenze di questo anomalo ma fatale coacervo di circostanze.

11 settembre 2001 e guerra al terrorismo: le verità nascoste

di Massimo Virgilio

recensioni

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Antiamericanismo. È questa l’accusa che più frequentemente viene mossa dalla maggior parte degli organi d’informazione di massa e degli intellettuali dei paesi occidentali nei confronti di chiunque osi cercare di capire quali siano le motivazioni profonde che hanno portato ai tragici episodi dell’11 settembre 2001.

“L’antiamericanismo – ha scritto su “Le Point” l’intellettuale liberale francese Jean-François Revel (autore del volume “L’obsession antiaméricaine”) in questi ultimi anni è cresciuto a dismisura perché serve a giustificare tutti i fallimenti che si producono nel mondo. Questo è vero tanto per i paesi sviluppati che per quelli in via di sviluppo”. Secondo Revel la sola cosa che conta per coloro che professano l’antiamericanismo “è perpetuare la vecchia e logora ideologia marxista-leninista. In altri termini, la responsabilità è del capitalismo e in primo luogo, evidentemente, del capitalismo americano”.

Dunque, la versione ufficiale può essere una soltanto, quella enunciata dall’attuale presidente degli Stati Uniti d’America, George W. Bush jr., subito dopo gli attentati contro le Torri Gemelle e il Pentagono: si tratta della lotta del Bene contro il Male, della Civiltà contro la Barbarie, dell’Occidente cristiano contro l’Islam guerrafondaio, delle persone perbene contro sanguinari e spietati terroristi. E in questa lotta senza quartiere “chi non è con noi, è contro di noi”. Non ci sono vie di mezzo. Non c’è nulla da comprendere. Il tempo dello studio, dell’approfondimento, della ricerca della verità è finito: è scoccata l’ora della guerra. E in guerra, com’è noto, chi non indossa la divisa del proprio schieramento o è un disertore o è un traditore. E come tale deve essere trattato.

Di fronte a tali minacce pochi studiosi hanno avuto il coraggio di esprimere il proprio autentico pensiero. Intimoriti dal rischio di essere tagliati fuori dai canali della cultura ufficiale e di essere tacciati di connivenza con il “nemico terrorista”, i più hanno finito per adeguarsi alla versione dei fatti presentata dagli Usa o hanno preferito tacere.

I più, ma non tutti. Sostenuto da un ristretto numero di coraggiosi operatori culturali, un manipolo di intellettuali, provenienti dalle più disparate esperienze di ricerca e di militanza politica e dai più svariati paesi della terra, ha deciso di non abdicare ai fondamentali diritti alla verità e alla critica. 

Per costoro, al contrario di quello che dichiara la propaganda filoamericana, nel mondo reale il Bene non si trova mai tutto da una parte e il Male tutto da un’altra. Le cose sono ben più complesse di quello che sembrano. Ed è questa complessità che deve essere scandagliata con ogni mezzo, così da riuscire a coglierne il senso profondo.

In Italia questo compito è stato brillantemente affrontato, fra gli altri, da Franco Cardini, professore di Storia Medievale all’Università di Firenze, che ha curato il volume “La paura e l’arroganza” (Editori Laterza, 208 pagine, 12 euro), raccogliendo, ad oltre un anno di distanza da quel drammatico 11 settembre 2001, una serie di analisi e di riflessioni su quei fatti assolutamente “non univoche” ma tutte comunque “accomunate dal desiderio di passare al di là dello specchio dei luoghi comuni”.

Per Cardini i nostri tempi sono estremamente complicati. Dunque, per essere compresi, necessitano di “un’attenzione vigile” e costante. Le cose cambiano continuamente e repentinamente, impedendo il cristallizzarsi di certezze. “D’altronde, se è vero che non possiamo comprendere (non del tutto, almeno), è non meno vero che dobbiamo sforzarci di farlo. Non ne abbiamo né gli strumenti, né forse la capacità: ma ne avvertiamo, quelli sì, il bisogno e l’obbligo morale”. 

Allora spazio alla verità, quella che il governo di Washington e i suoi alleati cercano di nascondere dietro una “sistematica campagna di disinformazione: fondata sul diradarsi progressivo delle notizie relative al fronte di guerra e ai bombardamenti da una parte, sulla promulgazione di una normativa sempre più limitante della libertà d’informazione e di espressione dall’altra”.

E la verità è che “ora che gli oltre quattro miliardi di non privilegiati” che vivono nella più assoluta miseria “sanno quanto è profondo il divario del loro livello di vita rispetto al nostro, non c’è da illudersi che possano accettare di buon grado questa realtà, che fra l’altro è in patente contraddizione con i principi universali dei Diritti dell’Uomo dei quali noi occidentali ci siamo fatti araldi proprio nei loro confronti”.

Il terrorismo dunque non nasce dal solo fanatismo, ma rappresenta “una risposta a uno stato di cose percepito come profondamente ingiusto”.

E la storia dimostra che l’uso della forza militare in funzione antiterroristica “in stato di assoluta superiorità”, più che arrecare danni seri e permanenti ai sostenitori del terrore, alimenta invece “le simpatie per le troppe vittime, molte delle quali innocenti”.

Bisogna essere chiari: lo stato di conflitto permanente diffusosi su tutto il pianeta dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 non è determinato dalla mobilitazione dei paladini del Bene contro i seguaci del Male. Si tratta piuttosto di una guerra voluta e portata avanti dal “gendarme statunitense” allo scopo di creare nel mondo uno stato di cose che sia quanto più possibile “funzionale agli interessi delle multinazionali – gestite o controllate dai nordamericani, o ad esse complementari”.

Un esempio eclatante delle ambigue connessioni esistenti, soprattutto in Usa, fra politica, affari e guerra lo fornisce il giornalista Dan Briody descrivendo il gruppo finanziario americano Carlyle in un articolo apparso sulla rivista “Red Herring” e tradotto da “Internazionale”: “Tra gli associati della Carlyle ci sono l’ex presidente degli Stati Uniti George Bush senior, l’ex primo ministro britannico John Major e l’ex presidente delle Filippine Fidel Ramos. La Carlyle ha tra i suoi clienti persone come Gorge Soros, il principe saudita al Waleed bin Talal e la famiglia di Osama bin Laden. Il gruppo Carlyle manovra una rete globale, estesa e interconnessa di professionisti degli affari e degli investimenti, come la definiscono in modo inquietante i suoi stessi comunicati stampa. Una rete che opera nel cosiddetto triangolo di ferro: industria, governo ed esercito. La Carlyle è apertamente coinvolta in diversi conflitti di interesse e in sorprendenti paradossi. E’ difficile ignorare, per esempio, che fino all’ottobre del 2001 i familiari di Osama bin Laden sono stati pronti a raccogliere i profitti generati dalla guerra contro il terrorismo (poi hanno preferito uscire dalla società). Oppure che il presidente statunitense George W. Bush può prendere decisioni che hanno effetti diretti sul conto bancario di suo padre”. 

Secondo Noam Chomsky “se si vuole spiegare la simpatia diffusa di cui godono le reti di bin Laden, anche fra le classi dominanti dei paesi del Sud del mondo, occorre considerare innanzi tutto la collera che suscita l’appoggio degli Stati Uniti a regimi autoritari o dittatoriali di ogni sorta; occorre ricordarsi della politica americana che ha distrutto la società irachena consolidando nel contempo il regime di Saddam Hussein; occorre non dimenticare l’appoggio costante di Washington all’occupazione israeliana dei territori palestinesi dal 1967 a oggi”.

Il predominio Usa, affermato e mantenuto a livello globale attraverso l’uso della violenza, è dunque interpretato da una parte della popolazione mondiale come una minaccia alla propria autonomia e alla propria sopravvivenza. E gli elementi più estremisti di questa parte della popolazione mondiale hanno deciso di rispondere a tale intollerabile situazione “con l’unico mezzo a disposizione, il terrore, mettendo in gioco la vita degli altri e la propria”.

E Marco Tarchi, docente di Scienza politica e Comunicazione politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze, rincara la dose: “Il clima psicologico dell’emergenza è il terreno ideale per sperimentare le nuove capacità di espansione del progetto di occidentalizzazione del mondo, che dell’egemonia ideologica liberale è il veicolo; si spiega così perché dal 1989 in poi si siano moltiplicate le avventure belliche giustificate in nome dei valori occidentali e condotte con grandi sforzi di contenimento delle opinioni dissenzienti”.

Questa è la verità. E ad essa fanno riferimento, seppure con toni e accenti diversi, tutti gli autori che hanno partecipato alla stesura del libro, da Noam Chomsky a Marco Tarchi, da Alain de Benoist a Eric John Hobsbawn, da Michel Chossudovsky a Massimo Fini e a tutti gli altri. Il volume curato da Franco Cardini, infatti, raccoglie voci diverse e a volte in contrasto fra loro, ma comunque tutte accomunate dalla volontà di esprimere dubbi riguardo la vulgata ufficiale circa i fatti, le premesse e le conseguenze dell’11 settembre 2001.

“Ci è sembrato che le guerre scatenate per il predominio su certe aree asiatiche o per il controllo delle loro risorse si debbano chiamare con il loro nome: non ammantarle dietro buone, giuste o addirittura sante Cause. Ci è parso che il far vendetta e chiamarla giustizia, il far deserto e chiamarlo pace, il far duramente i propri interessi e chiamarlo libertà siano altrettante mistificazioni dalle quali dobbiamo liberarci se vogliamo capire il mondo quale esso è; e se vogliamo cercar di comprendere quale e quanto grande sia, nei molti aspetti che in esso risultano ingiusti e intollerabili, la nostra parte di responsabilità. Per capire le cose; e, se è possibile, per migliorarle”.

Contro il terrorismo non bastano certo le armi. Queste al massimo ne possono limitare gli effetti, lasciandone però intatte le cause. Per combattere queste ultime è necessario ricorrere alla politica. Solo essa, infatti, può portare se non all’eliminazione almeno alla riduzione dell’enorme fossato che separa i paesi ricchi da quelli poveri, “ridistribuendo le risorse e lasciando che le cosiddette aree del Terzo e del Quarto mondo, popolate da milioni di diseredati, spesso costretti a emigrare per sopravvivere, possano trovare una loro via di sviluppo in collaborazione – che è cosa differente dallo sfruttamento – con i paesi tecnologicamente più progrediti”.

E nell’attuazione di questa politica i curatori del libro assegnano una responsabilità e un ruolo di primissimo piano all’Europa. Nella situazione geopolitica attuale, infatti, è proprio l’Europa l’unica in grado di ristabilire un certo equilibrio internazionale, sostenendo la causa delle popolazioni più deboli e sofferenti e prendendo le distanze dagli interessi americani. Anche perché, come ha profeticamente sottolineato qualche tempo fa Sergio Romano, “in prospettiva la condotta americana potrebbe essere una potenziale fonte di guai e conflitti”.

Un libro impedibile, questo “La paura e l’arroganza”. Particolarmente adatto a chi ama la libertà di critica. A chi diffida delle versioni ufficiali. A chi vuole resistere alla stretta mortale del dilagante pensiero unico.

Tutti costoro, si chiede su “Le Point” il sociologo svizzero Jean Ziegler, sono forse da annoverare fra gli ossessionati dall’antiamericanismo, fra i “nemici dogmatici del libero scambio e dei suoi benefici?”. La risposta è categorica: no! Costoro “sono semplicemente dei democratici, partigiani di una maggiore giustizia sociale, di una maggiore solidarietà e ragionevolezza nei rapporti tra i popoli del sud e del nord”.

atlante geopolitico-letterario

di Livio Zaccagnini

ATLANTE

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Abbiamo realizzato delle cartine su mondi paralleli o ucronici che presenti nella letteratura mondiale. E' un progetto in cantiere da molto tempo, realizzato grazie alle segnalazioni degli Amici del Limes Club Roma. Ecco qui 2 prime cartine tratte dai romanzi 1984 di George Orwell e Io, robot di Isaac Asimov.

 

1984 di George Orwell

Vengono indicati, oltre ai territori dei tre super-stati, anche le ideologie dominanti.

Io, robot di Isaac Asimov

Vengono indicati, oltre ai territori delle quattro regioni in cui è divisa la terra, anche il numero delle rispettive popolazioni e le capitali regionali. La capitale mondiale, sede del coordinatore mondiale, è New York.

Futuro dell’Europa:
il progetto franco tedesco e una possibile replica italiana

di Giovanni Castellani Pastoris

attualità

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Mi ero rapidamente letto quanto pubblicato dai giornali sulla proposta franco-tedesca in materia di futura architettura istituzionale dell’Europa ed avevo, forse troppo affrettatamente, concluso che si trattava del solito pasticciato compromesso fra le due differenti “teologie” che hanno tradizionalmente contraddistinto Parigi e Bonn in materia d’Europa, concordato per rinvigorire l’asse franco-tedesco nel suo ruolo di motore dell’Unione. Poi mi è capitato fra le mani il documento originale (cinque pagine e mezza intitolate, nella versione francese, “Contribution franco-allemande à la Convention européenne sur l’architecture institutionelle de l’Union”). Altro che compromesso fra le due “teologie”. Con il trasferimento da Bonn a Berlino molto è evidentemente cambiato nel pensiero germanico anche in campo europeo.

Al di là delle formulazioni, talvolta ambigue e spesso, queste sì, pasticciate, emerge infatti chiaramente, per chi sappia e voglia leggere i contenuti, la scelta per un Direttorio dei Grandi (in pratica marginalizzando i paesi minori) e la sub-ordinazione della Commissione.

La nomina di un Presidente del Consiglio Europeo (massima Istituzione dell’Unione), a tempo pieno, scelto a maggioranza qualificata, meccanismo in cui uno dei Paesi membri maggiori è sempre, o quasi, in grado di assicurarsi una minoranza di blocco, diversamente da quanto accade per i Paesi medi o piccoli; l’elezione del Presidente della Commissione da parte del Parlamento Europeo, dove i gruppi nazionali dei Grandi hanno il pieno controllo e lo esercitano; la subordinazione politica della Commissione al Consiglio ed al Parlamento; la sostanziale esautorazione da qualsiasi possibilità di conduzione dei Consigli dei Ministri principali (Affari Generali, Relazioni Esterne, Affari Economici e Finanziari, Eurogruppo e Giustizia ed Affari Interni) dei paesi minori, che possono solo sperare a un turno ogni morte di Papa alla presidenza dei Consigli “tecnici” sono, mi pare, senza ombra di dubbio “self explaining”. E le reazioni, nel corso del dibattito sulle questioni istituzionali nella quattordicesima sessione della Convenzione il 20-21 gennaio, dei rappresentanti di Benelux, Portogallo, Grecia, Irlanda, Finlandia, Austria, oltre che della quasi totalità dei Paesi in via di adesione, confermano che sono anche state ben comprese.

Che l’assunzione di leadership e di responsabilità principali da parte delle Potenze maggiori sia cosa normale è un fatto e non deve stupire. Così non stupisce la sostanziale adesione dei Britannici. Un poco meno per quella spagnola, ma i risultati conseguiti fino ad ora con grande abilità manovriera e coesione del “fronte interno” la possono spiegare.

Anche da parte nostra si è dato un primo riscontro positivo al progetto franco-tedesco, seppure con cautela e qualche riserva. Del resto l’Italia in base ai trattati fa parte dei “grandi” dell’Unione (anche se non ha sempre saputo usufruire di questa posizione di privilegio per svariate e ben note ragioni). Ma dei “grandi” non si fa parte solo perché è previsto per trattato. Non è sufficiente. Vi si appartiene per ciò che si è, per ciò che si fa e per ciò che si è in grado di proporre. Occorre volerlo, crederci e che gli altri ci credano.

In realtà la nostra principale preoccupazione, se non priorità, sembra essere di evitare intoppi che possano pregiudicare la conclusione del trattato in tempo per firmarlo a Roma, con la conseguenza che il contenuto diventa secondario e gli altri ne sono ben consci. Invece occorre essere propositivi, propositivi come Paese, e non limitarsi a lasciare agli interventi dei nostri rappresentanti in seno alla Convenzione, per quanto qualificati per rango e per capacità, l’illustrazione del nostro pensiero. Una Assemblea di cento e più componenti, come la Convenzione, è un bell’esempio di procedura democratica, ma non una cucina dove si confezionano le portate. I cuochi sono sempre meno numerosi di chi è chiamato a consumare. E questo faranno i membri della Convenzione: masticheranno, trangugeranno e, si spera, digeriranno quanto preparato da chi sta ai fornelli.

Allora cerchiamo anche noi di preparare una proposta che venga incontro alle principali richieste emerse nella prima fase dei lavori della Convenzione, quella definita “di ascolto”, e corrisponda ai nostri gusti ed alle nostre necessità come paese e come nazione.

Occorre tenere fermi alcuni fatti. Che la Comunità o, come si chiama ora, l’Unione è sostanziata dagli Stati membri e che gli Stati membri, e non altro, sono la sostanza dell’Unione. Che sono gli assetti e gli equilibri istituzionali scelti dai fondatori che hanno permesso di arrivare dove siamo oggi malgrado le differenze e le rivalità tradizionali e persistenti fra stati e nazioni d’Europa (il triangolo istituzionale ed il diritto esclusivo di proposta della Commissione in primo luogo). Gli sviluppi richiesti dalla globalizzazione dei fatti sia politici che economici mondiali (personalità giuridica internazionale dell’Unione, effettività e tempestività del processo decisionale in particolare per i comportamenti da porre in atto a fronte dei fatti internazionali). Le esigenze derivanti dall’allargamento dell’Unione (semplificazione delle procedure). Le convergenze manifestatesi nella fase di “ascolto” dei lavori della Convenzione (fra cui quelle sulla presidenza stabile, su di un responsabile per la politica estera, sul carattere “misto” del sistema ed sul principio di sussidiarietà).

Possiamo così prospettarci un’Europa fondata sulle seguenti principali Istituzioni, con le seguenti responsabilità.

Consiglio Europeo: massima istituzione formata dai Capi di Stati o di Governo. Sotto la direzione del Chairman -scelto a rotazione periodica fra i suoi membri- che ne fissa gli O.d.G. sulla base delle indicazioni del Presidente dell’Unione e di quello della Commissione, definisce i grandi orientamenti politici e strategici dell’Unione in collegamento con la Commissione e le linee direttrici, anche operative, della politica estera, di sicurezza e difesa comuni.

Nomina, per consenso, il Presidente dell’Unione, il Ministro degli Esteri, il Presidente della Commissione e, su proposta di quest’ultimo, i Commissari.

Le altre decisioni vengono prese a maggioranza qualificata. In materia di decisioni operative concernenti difesa e sicurezza ogni stato membro ha il diritto di “opting out”.

Presidente dell’Unione: simboleggia il processo unitario dell’Unione. La rappresenta sulla scena internazionale, assistito dal Ministro degli Esteri, senza pregiudizio delle competenze della Commissione e del suo Presidente.

Assicura la coerenza del processo decisionale - sia legislativo che operativo - del Consiglio nelle sue diverse formazioni, sottoponendo gli eventuali problemi al Consiglio Affari Generali che presiede. Veglia al pieno rispetto del principio di sussidiarietà nelle delibere dei Consigli.

Illustra al Parlamento le linee direttrici delle varie politiche dell’Unione, gli atti legislativi su cui ha luogo la co-decisione, assistito, se del caso, dai presidenti dei Consigli “tecnici” e dai rappresentanti della Commissione, veglia all’esecuzione delle decisioni del Consiglio Europeo.

Prospetta al Chairman di turno del Consiglio Europeo le questioni che si considera vadano sottoposte alle deliberazioni dei Capi di Stato e di Governo.

E’ assistito da un Ufficio di Presidenza di cui fanno parte: il Ministro degli Esteri, le presidenze delle varie formazioni del Consiglio, la Commissione.

La Commissione: esercita il diritto esclusivo di proposta previsto dai trattati incluse quelle in materia di governo dell’economia e della finanza ed assicura l’applicazione dei provvedimenti legislativi e delle decisioni del Consiglio. Vigila sul rispetto dei trattati.

E’ formata dal Presidente e da un Commissario per paese membro, fatta eccezione per quello del Presidente. Il Presidente stabilisce e, se del caso, modifica le competenze dei singoli Commissari, fra i quali potrà nominare fino ad un massimo di due V. Presidenti.

Per le questioni attinenti alle relazioni esterne, alle sue deliberazioni partecipa il Ministro degli Esteri con voto consultivo.

Deve godere della fiducia del Parlamento Europeo.

Il Ministro degli Esteri: è responsabile della conduzione quotidiana della politica estera e di sicurezza comuni, sulla base delle istruzioni del Consiglio Affari Generali e delle deliberazioni del Consiglio incaricato delle Relazioni Esterne e della Difesa, che presiede.

Dispone di un diritto, non esclusivo, di proposta in materia di Politica Estera e di Sicurezza, che esercita previa consultazione della Commissione e fatte salve le prerogative di quest’ultima.

Per l’esercizio delle sue attività potrà disporre di una adeguata struttura burocratico-amministrativa che potrà agire in collaborazione con la Direzione Generale Relazioni Esterne della Commissione.

Il Consiglio dei Ministri: svolge attività legislativa, assieme al P.E., ed esercita responsabilità decisionali operative. Le decisioni vengono prese, come regola generale, a maggioranza qualificata, devono concentrarsi sull’essenziale e rispettare il principio di sussidiarietà.

Le decisioni di maggior rilievo in materia di PESC sono prese per consenso. Qualora uno o più Stati Membri non intendano partecipare a decisioni operative in materia di sicurezza e di difesa, si potrà far ricorso a Cooperazioni Rafforzate.

Nelle sue diverse formazioni ed ove non diversamente stabilito (Consiglio affari generali, Consiglio esteri e difesa, Eurogruppo), viene presieduto a rotazione dal competente rappresentante di uno stato membro, coadiuvato da quello che ha esercitato la presidenza precedente e quello che eserciterà quella successiva.

Parlamento Europeo: esercita congiuntamente al Consiglio il potere legislativo nel rispetto del principio di sussidiarietà; esprime o toglie la fiducia alla Commissione.

Parlamenti Nazionali: un meccanismo dovrà essere posto in essere per assicurare un costante dialogo con il P.E., eventualmente a livello di commissioni, onde manifestare la voce dei Popoli dell’Unione ed in particolare esercitare un pieno ed efficace controllo del rispetto del principio di sussidiarietà.

camerun, non solo gamberi

di Maria Vittoria Sbordoni

africa

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Maman Madeleine ci ha preparato mbongo tjobi e ndolé, piatti tipici a base di pesce e verdure ed è contenta di vederci mangiare a quattro palmenti le sue specialità. Siamo a Tergal, alla periferia di Douala, a casa di Roger, uno dei tecnici laboratoristi nei cinque dispensari della Diocesi sparsi nella sterminata periferia della città; grazie a una borsa di studio ha potuto specializzarsi a Padova. Questa è una delle tante iniziative di un medico di Verona consigliere tecnico del servizio sanitario diocesano, che da sette anni vive e lavora a Douala,  dove ci accoglie felice di mostrarci il suo progetto. 

Toccando con mano i devastanti effetti sulla popolazione più povera del mancato accesso ai farmaci essenziali, Alberto ha organizzato un circuito di rifornimento in Europa di farmaci con brevetto scaduto e a poco prezzo. I cinque dispensari che lui coordina svolgono gratuitamente le prestazioni mediche, ma i farmaci vengono venduti con un beneficio del venti per cento sul costo d’acquisto, che permette al sistema di autofinanziarsi. Oggi i cinque dispensari, con un volume annuo di 322.000 visite mediche, di 23.000 visite prenatali, di 5.900 parti e di 25.000 vaccinazioni, sono in grado di autofinanziarsi, pagano i salari a 155 giovani camerunesi tra infermieri, tecnici e ausiliari, e realizzano un capitale finale reinvestito nella formazione e nello sviluppo delle attività; il cinque per cento è destinato all’aiuto di malati indigenti.

Qui la diagnosi e la cura tengono conto della cultura e delle credenze popolari, nella ricerca di una relazione vera e concreta tra la medicina occidentale e quella tradizionale, che vede la malattia come una rottura dell’equilibrio tra corpo e spirito della persona e tra mondo sensibile e mondo degli antenati.

Lui è l’unico straniero, ma è ormai naturalizzato camerunese; dell’Italia conserva la passione per il Chievo che ha trasmesso a tutti i suoi collaboratori: non c’è stanza dei dispensari o delle loro abitazioni che non abbia la foto della squadra. La tifoseria italiana lo ricambia sostenendo alcune attività, come il day-hospital cardiologico, il progetto di controllo della tubercolosi e la costruzione di un padiglione medico dedicato a Jason Mayélé, giocatore congolese della squadra della Diga tragicamente scomparso in un incidente stradale l’anno scorso.

Il caldo è soffocante in questa vivace cittadina ai bordi del fiume Wouri, che qui inizia il suo estuario verso il Golfo di Guinea; è la più popolosa città del Camerun la cui capitale è Yaoundé. Douala appare come un insieme di villaggi e alcuni quartieri, Bell (oggi Bonanjo), Deido e Akwa  mantengono i nomi  dei primi stanziamenti che occupavano un tempo l’area.

Una sciatta architettura evidenzia elementi della colonizzazione  europea, con l’unica eccezione della pagoda nella piazza della Posta,  voluta agli inizi del secolo scorso dal re douala Rudolph Manga Bell, concessogli dai tedeschi prima di impiccarlo per le sue idee troppo sovversive.

Migliaia di persone vivono, o meglio sopravvivono, sulla strada, occupate a vendere o a comprare, o semplicemente a passare il tempo. 

Ogni incontro, anche casuale come i continui controlli della polizia ai posti di blocco presenti ovunque, è un’occasione per avviare il lieto rituale dei saluti: si inizia dandosi e scuotendo vigorosamente la mano reggendosi il braccio con l’altra, poi informandosi – anche tra perfetti sconosciuti – della salute propria e della famiglia, del lavoro. Spesso ci scappa qualche battuta e giù risate. Il tempo non conta, non ha una sua definizione oggettiva come da noi, misurabile in minuti, ore, date e scadenze, qui il tempo lo decidono le persone in base alle loro esigenze di vita.

Le fisionomie sono le più diverse: in Camerun convivono da secoli pacificamente – tranne il periodo di lotte per l’indipendenza a metà degli anni cinquanta e comunque su istigazione delle potenze coloniali - oltre duecentocinquanta etnie di cui le principali sono: Bamileké e Bamoun nell’ovest, Sawa nella regione del Litorale, Fulani, Kirdi, Haussa e Peul nel nord, Beti e Bassa nella zona di Yaounde, Maka (i pigmei) nelle province dell’Est e del Sud.

L’etnia Bamileké, originaria degli altopiani dell’ovest, ancora oggi forma una delle comunità più grandi di Douala, da dove controlla gran parte dell’economia del paese. Le loro terre – come accade in altre tribù - sono rappresentate da unità politiche governate dal re che ha il potere assoluto sui suoi sudditi, e regola la vita del villaggio principale e dei villaggi intorno attraverso una corte di notabili.

Ancora oggi i re mantengono l’autorità civile sulle rispettive tribù, delegata loro dallo Stato, ad eccezione di quella penale.

Alla base della loro autorità c’è il culto degli antenati, sono loro gli intermediari della relazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che ne trasmettono la volontà e le decisioni e che mantengono con loro buoni rapporti, condizione indispensabile di benessere per tutti. La fiducia negli spiriti degli antenati, nella loro capacità di proteggere, vigilare e incoraggiare, si mantiene viva ed è fonte di conforto: è importante averli vicini e per questo i morti vengono sepolti nel giardino di casa. Se ci si sposta – come accade e come per secoli è accaduto per i popoli africani – i crani dissepolti seguono la famiglia.

Diverse le vicende nel nord, dove la prima civiltà conosciuta è quella del regno Kanem-Bornu. Il nord è l’area del paese rimasta più a lungo isolata, mantenendosi parte dei regni islamici semi-feudali dei Fulani situati in Nigeria.

La penetrazione islamica ebbe qui il suo punto di massima espansione verso il sud del continente, sotto l’impero Bamoun e il sultano Njoya, cui si deve l’invenzione di una forma di scrittura e di alcuni utensili agricoli. Le popolazioni insediatesi nell’area provenivano dalle valli del Nilo, e mantennero la struttura del sultanato d’ispirazione araba, i cosiddetti lamidati, in cui il re, lamidò, aveva il potere assoluto, che esercitava nei villaggi attraverso i visir, dogarì.

Sui contatti con altri popoli le informazioni sono le più diverse. Si dice che nel V secolo a.C. il generale cartaginese Annone, durante un viaggio lungo la costa atlantica africana, sorpreso dalla violenta eruzione del vulcano, avesse chiamato l’attuale monte Camerun il “carro degli dei”.

Ma furono gli europei a dargli il nome: la tradizione vuole che i navigatori portoghesi, giunti nel XV secolo alla foce del fiume Wouri, vedendo la quantità di gamberi nelle sue acque, chiamarono il fiume Rio dos camarões.

Non erano gamberi quelli che videro i portoghesi, bensì pesciolini, ma non fu l’origine del nome a mutare le sorti che da allora e per oltre quattrocento anni determinarono la vita di queste popolazioni, sottoposte alla tratta degli schiavi.

Dopo la Conferenza di Berlino nel 1885 il Paese ha assunto i confini territoriali attuali. I tedeschi furono i primi padroni, cacciati dal Camerun nel 1916 dalla Francia e dall’Inghilterra alla fine della prima guerra mondiale. La Società delle Nazioni dette il mandato alle due potenze occidentali che si spartirono il territorio: le terre al confine con la Nigeria all’Inghilterra, il resto alla Francia.

La riunificazione del Camerun avvenne nel 1961 con la dichiarazione d’indipendenza; è rimasto il bilinguismo a ricordarci il passato.

Poco avvezzi a vedere stranieri, i nostri amici camerunesi sono contenti di ricevere apprezzamenti sul loro paese, che merita l’appellativo di  Africa in miniatura. Nei suoi quasi cinquecentomila chilometri quadrati ne contiene gli ambienti caratteristici, le sue terre settentrionali di steppa e savana dove vive la fauna tipica del continente, gli altopiani centrali e occidentali coperti da una lussureggiante foresta tropicale che arriva fin sul litorale con le sue spiagge incontaminate di sabbia fina e palme, che si estendono per oltre quattrocento chilometri sul Golfo di Guinea.

Per secoli l’abbondanza di risorse e la loro equa distribuzione da parte delle autorità tribali hanno assicurato la vita dei villaggi e permesso alle varie etnie di vivere in pace.

A partire dal periodo coloniale l’economia è stata centrata sull’esportazione dei prodotti naturali, facendo la ricchezza dei grandi produttori. Lo sfruttamento del legname pregiato e le monocolture agricole intensive (banane, cotone, caucciù e caffè), oggi per lo più sotto il controllo di società estere o multinazionali, hanno spinto all’esodo milioni di contadini.

Sul fenomeno incide anche l’abbandono di centinaia di piccole piantagioni di cacao, che pure avrebbe qui il suo ambiente ideale. Infatti, grazie agli incentivi delle amministrazioni coloniali e poi di quella statale, il cacao ha conosciuto una grande crescita che, dagli anni Settanta in poi, ne ha fatto uno dei settori di punta dell’economia camerunese. Ciò fino alla drastica contrazione della domanda: non ne è estranea la recente direttiva europea che ha autorizzato l’aggiunta al cioccolato di sostanze grasse vegetali  diverse dal burro di cacao fino a un massimo del cinque per cento.

La svalutazione della moneta locale negli anni Novanta, la conseguente perdita del potere d’acquisto delle famiglie e il peso del debito estero hanno fatto il resto.

Le popolazioni rurali, ammassate in queste polverose periferie, oggi vivono con un alto grado di precarietà e insicurezza sociale.

Eppure c’è in giro cordialità e allegria, l’aria che si respira è positiva e intrigante, e ci fa condividere la passione di Alberto per questa gente, capace e motivata a prendere il futuro nelle proprie mani.

“Quando ci ritroviamo con i miei giovani davanti a un pesce alla brace, una birra fresca e della musica trascinante – ci dice lui – ci divertiamo e ci diciamo che abbiamo realizzato un sogno che nessuna multinazionale è in grado di spegnere”.

 


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