OPUSCOLO INFORMATIVO SULLE ATTIVITA' DEL CLUB

NUMERO 1/2001

IN ECUADOR TRA PROTESTE INDIGENE E DOLLARIZZAZIONE 

di Maria Vittoria Sbordoni

AMERICA LATINA

 Scoppi, mortaretti e violente scampanate ci accolgono al nostro arrivo a Macas  dopo dieci ore di viaggio in auto da Quito, lungo la Panamericana dominata dalla cima  innevata del vulcano Cotopaxi, poi su tratti sterrati e sempre più dissestati al bordo di paurosi precipizi, fino a questa cittadina immersa nella foresta dell’Oriente ecuadoriano. È qui che il VIS sta realizzando un ambizioso progetto sostenuto con fondi della Cooperazione italiana, che prevede la costituzione di una scuola di formazione di tecnici delle etnie indigene Shuar e Achuar, con annesso laboratorio di ricerca. I tecnici così formati saranno in grado di studiare le risorse naturali alla ricerca di piante da utilizzare a scopo commerciale nel rispetto della sostenibilità ambientale e in forma comunitaria, e di proporre  sistemi di coltivazione conservativi e non dannosi per l’ambiente.

Il progetto prevede inoltre la organizzazione di corsi di livello più avanzato a Quito, dove gli studenti potranno accedere ad un Master in biotecnologie chimiche e delle risorse rinnovabili, avendo a disposizione un laboratorio di analisi che interagirà con i corsi e le attività di ricerca realizzati in area amazzonica. 

Contemporaneamente il progetto studia la normativa ecuadoriana in applicazione della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Biodiversità (CDB) vigente nel Paese dal 1993; il nostro progetto si inquadra infatti all’interno degli articoli della Convenzione che prevedono misure per proteggere e incoraggiare l’uso tradizionale delle risorse biologiche secondo le pratiche culturali delle popolazioni indigene locali, e che raccomandano di stabilire e mantenere, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, l’educazione scientifica e tecnica volta all’identificazione, conservazione e uso sostenibile della biodiversità.

Nell’ultimo tratto dopo Puyo ci lasciamo alle spalle il Rio Pastaza, attraversandolo su un ponte di corde e tavolette di  legno, domandandoci con qualche apprensione se reggerà il peso della nostra auto. La risposta ce la troviamo di fronte appena passati, per fortuna senza danno: un cartello dice  che il ponte è permesso “hasta 2020”, senza precisare a che tipo di unità di misura ci si riferisca, se di peso – chili, quintali o tonnellate? - o di tempo.

Scopriamo presto che i mortaretti e le scampanate sono per la novena in onore della Virgen de Macas, per ricordare i tanti miracoli fatti dalla Madonna in questi luoghi. In uno si narra di come la Virgen sbarrasse la strada più di un secolo fa’ ai feroci indios Jivaros – gli attuali Shuar - che si accingevano a far piazza pulita dei coloni invasori, trasformando in tsantsas le loro teste. Tutta la storia del miracolo è rappresentata sulle vetrate di questa bella cattedrale che domina dall’alto l’ampia valle del Rio Upano e da cui si scorge, quando è sereno, il fumante Sangay, uno dei vulcani più attivi del mondo. 

La chiesa è affollata per l’occasione di notte e di giorno: le prime cerimonie – con relativi mortaretti e scampanate -  iniziano alle quattro e mezzo del mattino e presto ci abitueremo a questa sveglia improvvisa che le prime notti ci fa balzare sul letto; ad affollarla sono in buon numero gli stessi indios ormai civilizzati, che non sembrano patire crisi d’identità nel festeggiare a distanza di tanto tempo un miracolo che ha contribuito a determinare la lenta e continua invasione delle loro terre.

Dall’alto della collina su cui sorge la cattedrale, godiamo il superbo panorama che la foresta amazzonica ci offre, rimasto tale e quale a quello che apparve ai primi  occidentali  che si avventuravano nell’Oriente alla fine dell’Ottocento.

Da allora non molto è cambiato, né tanto meno le condizioni in cui vivono le popolazioni locali: emarginazione, abusi, discriminazioni  razziali e violazioni dei diritti umani contro gli indios sono all’ordine del giorno. I bianchi e i meticci dominano oggi la vita politica e sociale dell’Ecuador, mostrando un disinteresse e un’ostilità palese e sempre più accentuata nei confronti delle popolazioni indigene che rappresentano la componente maggioritaria della sua popolazione. 

Questa situazione si ritorce contro le potenzialità di sviluppo che potrebbe  assicurare il riconoscimento e la valorizzazione delle caratteristiche  multirazziali e multiculturali della società ecuadoriana. Basti pensare ad esempio alle opportunità che potrebbe offrire la medicina tradizionale qualora lo Stato decidesse di investire in ricerche sulle specie vegetali di uso terapeutico, di incentivarne la produzione agronomica o l’industrializzazione; senza contare che alle cure tradizionali è costretta a ricorrere in modo informale l’80 per cento della popolazione ecuadoriana, visto che lo Stato destina alla salute una percentuale inferiore al 2,8 per cento della spesa pubblica.

Quando si analizzano gli indicatori di sviluppo dell’Ecuador (Desarrollo social y gestion municipal en el Ecuador, Quito, octubre de 1999), risulta evidente quest’atteggiamento discriminatorio contro le popolazioni indigene. 

Secondo dati ufficiali, l’analfabetismo interessa il 41 per cento degli uomini e il 50 per cento delle donne in dodici aree rurali localizzate principalmente nelle aree indigene della Sierra e dell’Oriente. Altre fonti segnalano che l’84 per cento della popolazione indigena rurale è analfabeta. Nelle aree rurali più depresse la mortalità infantile colpisce 122 bambini per mille nati vivi, e il 70 per cento di bambini sotto i cinque anni d’età risultano denutriti. L’88 per cento delle abitazioni rurali mancano di acqua e di servizi igienici; il 76 per cento della popolazione rurale è considerata in condizioni di povertà estrema, incapace di soddisfare le necessità basiche.

Sono dunque gli indigeni a patire gli effetti peggiori della congiuntura economica che attanaglia il Paese. Molte le cause: le costose spese militari sostenute per la guerra di confine con il Perù conclusasi nel 1995; le distruzioni operate nel 1998 dal Niño; la dilagante corruzione (recentemente il Governo ha congelato i depositi bancari, utilizzati per finanziare la campagna elettorale del deposto Presidente Mahuad); un debito pubblico di 13,5 miliardi di dollari, che rappresenta il 90% del PIL; il fardello del debito estero, i cui interessi assorbono il 50% del budget statale. 

Il dato più importante è il tasso d’inflazione che continua ad essere sopra il cento per cento, con un rallentamento della crescita lo scorso anno di 7,5 punti percentuali. 

Per frenare l’inflazione l’Ecuador ha deciso di abbandonare dopo 116 anni di vita la moneta nazionale, il sucre, sostituendola con il dollaro statunitense al cambio fisso di un dollaro per 25 mila sucre; la misura si propone di  rilanciare l’economia e di inserire il Paese nel mondo globalizzato,  offrendo adeguate garanzie agli investitori stranieri.

Miliardi di dollari freschi sono stati destinati all’Ecuador dagli organismi finanziari internazionali, ma prima del loro arrivo si è dovuta approvare la legge di trasformazione economica (trolebus)  per generare le condizioni legali, tecniche e finanziarie necessarie a sostenere il processo di dollarizzazione.  

Per avere i dollari necessari all’avvio del nuovo sistema monetario, l’Ecuador ha così messo in vendita i gioielli di famiglia: ha avviato una serie di privatizzazioni, aprendo agli investimenti stranieri le telecomunicazioni, i servizi primari (l’acqua, la luce), le industrie petrolifere e altro.

Non si sono destinati investimenti significativi nell’ambito sociale, anzi la dollarizzazione, per equilibrare i prezzi agli standard internazionali, sta facendo lievitare il costo della vita, caricando sulle spalle dei ceti più impoveriti il peso di questa costosa operazione.  In soli due anni i poveri sono passati dal 60 al 70 per cento della popolazione; la disoccupazione è dilagante; due terzi dei salariati guadagna meno di 30 dollari al mese. Migliaia di ecuadoriani lasciano il Paese per gli Stati Uniti o l’Europa, alla ricerca di un lavoro.

In questo desolante panorama un segnale molto forte viene dal movimento indigeno, divenuto negli ultimi dieci anni il vero e proprio protagonista della vita politica dell’Ecuador, capace di mobilitare gran parte del Paese. Gli indios sono rappresentati dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene dell’Ecuador - Conaie, nata nel 1986 come organismo autonomo nazionale e totalmente indipendente; raggruppa tre federazioni, la Confeniae, l’Ecuarunari e la Coince, a loro volta rappresentative di numerosi popoli e comunità indigene. Alla Confeniae fanno riferimento i popoli Shuar e Achuar coinvolti nel progetto del VIS. 

Nella dichiarazione del 1993 la Conaie ha illustrato il suo progetto politico, che è quello di tutelare le nazionalità indigene ed affermarle come forza politica alternativa, contro la dominazione e la egemonia di altri gruppi sociali o stranieri. 

Il primo levantamiento di questi popoli porta la data del 4 giugno 1990; di fronte ai blocchi stradali in sei province e alle grandi mobilitazioni di massa in tutto l’Ecuador, il Governo avviò un dialogo sulla base della piattaforma di rivendicazioni centrate sulla riforma agraria e sui diritti d’accesso alle risorse. Altri levantamientos hanno visto in questo decennio protagonisti gli indigeni, che dal 1996 hanno un loro partito politico, il Pachakutik; le loro rivendicazioni si centrano su questioni basilari come la proprietà della terra, l’accesso all’acqua, il diritto all’educazione bilingue, l’affermazione della loro identità etnica contro ogni forma di discriminazione razziale.  

Oggi il movimento indigeno è impegnato contro la politica economica del Presidente Noboa. Le manifestazioni di questi giorni contro gli aumenti di alcuni servizi pubblici, tra cui gas e carburante – con morti e feriti in scontri con l’esercito avvenuti in varie zone del Paese, con l’arresto delle lideranze indigene e con la proclamazione dello stato d’emergenza su tutto il territorio nazionale – hanno visto compatte tutte le organizzazioni indigene. L’accordo raggiunto il 7 febbraio con il governo prevede il congelamento del prezzo dei combustibili e varie misure a favore delle popolazioni indigene, come la riattivazione dei crediti preferenziali, formazione e assistenza tecnica ai piccoli produttori,  la ricerca di soluzioni per i numerosi conflitti per la terra, il pagamento del debito verso l’assicurazione sociale contadina, la scarcerazione di tutte le persone arrestate nei giorni scorsi e indennizzi per le famiglie dei deceduti e dei feriti negli scontri.

Resta comunque forte il malcontento contro le scelte neoliberiste del governo e contro le conseguenze sociali che sta comportando l’adozione del dollaro statunitense come moneta nazionale; il movimento indigeno non è il solo a vedere nella rinuncia alla sovranità monetaria tutti i pericoli di una nuova colonizzazione.

Maria Vittoria Sbordoni fa parte del Settore Progetti della Ong Volontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS)

 


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