Scuola Elementare - Materna di Petilia Policastro

Racconti

Il mulino

Il contadino "Iennaru"

San Francesco

A Iumera era bella, era chiara

Incontri / Manifestazioni

Puliamo il Mondo

Incontro/proiezione  "L'uomo e l'acqua  un'amicizia difficile" (Classi prime - Legambiente) 

 

 

IL MULINO

Anticamente i mulini erano azionati dalla forza del vento o da quella dell acqua. Per far funzionare i mulini ad acqua bisognava deviare ed incanalare da un corso d’ acqua naturale una corrente facendola precipitare su una ruota a pale. Questa ruota,mediante degli ingranaggi, era collegata a delle macine che, movendosi, macinavano i cereali. Ogni mattina al mulino arrivano molte persone con dei sacchi di grano.  Questo veniva macinato e si ricavavano la farina e la crusca. La farina serviva per fare il pane, la crusca veniva data agli animali. Altre volte il mugnaio, in groppa ad un asino,girava per le strade del paese con al collo due campanelli che, suonando, servivano da richiamo per la gente che voleva consegnare il  grano da  macinare. In questo  caso  era  il mugnaio stesso che  portava i  sacchi  di grano al  mulino  e  lo  macinava.  Il  mugnaio si  alzava alle 7,00  del  mattino e finiva di  lavorare alle quattro  del  pomeriggio.  lavorava nel periodo  primaverile-estivo  perchè  era il tempo  del  grano.   Il  lavoro  del  mugnaio  non  era  molto  faticoso  perchè richiedeva uno sforzo moderato.  C'è  un  detto popolare legato alla figura del  mugnaio che dice : "Quennu se 'mpriganu i mulineri guardate a farina '' .  TOP

Carvelli Giuseppe 5^A

 

          IL CONTADINO “IENNARU"

Un uomo anziano del nostro paese mi ha raccontato che anticamente c’era un contadino che diceva sempre: “ Sotto la neve pane, sotto l’acqua fame!”.

In un primo momento quelli che lo ascoltavano non capivano che cosa volesse dire, borbottava continuamente così: “Sempre piove, e ancora domani pioverà, fra otto giorni pioverà come ieri e oggi”. “Ienneru”era un uomo semplice e buono, era una persona onesta che amava la terra più della sua vita e non era capace di fare  del male nemmeno a una formica. Si rattristava molto quando c’erano annate di pioggia eccessiva che rovinavano il raccolto, mettendo in pericolo la fertilità della terra stessa.”Ienneru” era un esperto conoscitore dell’aspetto del cielo (come lo sono in genere  molti contadini), e capiva al volo se la stagione avesse avuto continui periodi di pioggia o di sereno. Egli era solito fumare la pipa e, mentre fumava faceva delle continue osservazioni per capire se c’erano perturbamenti atmosferici o tempeste. Dato che sapeva che quell’anno avrebbe piovuto sempre, passeggiava nervosamente e, si lamentava che il grano era cresciuto esile e anemico. Pensava al fatto che sotto la neve il grano incominciava a fare le prime foglioline alla base e poi a primavera germogliava. Al contrario quando lo stelo e le foglioline del grano si allungavano troppo per effetto della eccessiva umidità la spiga che veniva fuori era povera di chicchi quindi, era come diceva “Ienneru””na mala annata”. Da qui il detto: sotto la neve pane, sotto l’acqua fame. Però nel pensiero di”Ienneru”non c’erano bestemmie o cattiverie che offendevano la natura. Egli diceva sempre: “Quennu te cada a cammisa curta  ha a ‘cchi fare u ta pijji e, u te sta citu”.Quando c’erano le annate di pioggia eccessiva “Ienneru” faceva coraggio a tutti i contadini che si disperavano e, pronunciava questo discorso: quanta fatica per una boccata di pane, quante braccia per produrre un “tomolo” di grano, e, quanto sudore! Ma questa annata e chissà quante altre  ancora il nostro lavoro va al vento! Ma noi siamo abituati, alla fatica e a sopportare  tutto  con umiltà e pazienza, e perciò “cuamu ‘nne cada ‘nna piamu”   TOP

                                                                                                Carmine Ruberto   5^ A                                                                                                         

 

     L’ardente fede del popolo petilino           

San Francesco placa la tempesta dei grilli…

 

Tanto tempo fa negli anni ’20,’30,’40 a Petilia il popolo viveva in condizioni di miseria. Le famiglie erano numerose: genitori e figli dormivano tutti in una stanza dove si svolgevano le attività di vita quotidiana.

Ci si lavava con una brocca d’acqua, si mangiava quello che c’era e, gli avanzi della sera precedente si consumavano l’indomani mattina.

Le donne andavano a “frasche” per accendere un bel fuoco per cuocere il pane. C’erano i cosiddetti “furni a frasche”dove ogni giorno si infornava “pane jencu, viscuatti e pane e bruniattu, e talvolta cuddruri, e vucceddrati”.

Gli uomini invece, lavoravano i terreni a forza di braccia per produrre:“granu”, “ciciari”, “suraca”.

Durante la guerra , con i ceci coltivati si faceva“u pane e ciciari”. Nei campi le donne raccoglievano”aspraine”, “carduni”,” cardeddre”,”cicorie”.

In casa facevano le provviste per l’inverno. Si raccoglievano i peperoni,  che“a filari”, poi si mettevano ad asciugare  sopra  il camino. C’erano i mulini che macinavano i peperoni e si otteneva”u spagnualu ‘ppe fare a pruvista du purceddruzzu”.

Non mancavano nemmeno le conserve all’aceto delle”miluncene”.

Nei periodi di festa come a Natale le donne in casa preparavano”e pitte ‘ccu passule”con questi ingredienti: “farina”, “garofalu”, “canneddra”, “zuccaru”,”mele”, “nuci e nuciddri e  l’ uartu”, “vinu”, “liavitu” “uajjiu”. Anche i “crustuli” si facevano con farina, lievito e un pizzico di sale. I “ tardiddri” “se mpastavanu” “cu ra” farina, “vinu”, “zuccaru”, “liavitu”. A Natale si faceva anche “a pasta cumpettata” con farina, uova, zucchero e tanto miele. Poi, si uccideva il maiale e si invitavano i parenti per festeggiare. A Pasqua si facevano le  “cuzzupe”che si preparavano con le uova di gallina, il lievito e lo zucchero. Anche questa era una festa molto attesa e per l’occasione si indossavano le scarpe e il vestito nuovo. Alla festa di S. Giuseppe si faceva “u ‘mmitu”con pasta e ceci e alcune pagnotte di pane che venivano benedette dal sacerdote durante la messa in onore del santo. La gente petilina nonostante fosse tormentata da molti problemi aveva una grande fede. Spesso si organizzavano pellegrinaggi in massa al santuario della Santa Spina per la richiesta della pioggia nelle annate di siccità o, talvolta per fare cessare la pioggia abbondante che minava i raccolti. Si diceva “ca se dispunia a Santa Spina scavuzi”. Sempre per gli stessi motivi si invocava l’aiuto di Sant’ Antonio o, quello di San Francesco che venivano portati in processione a spalle per il paese. La processione era accompagnata da canti e preghiere fatti con fede. Si narra che una volta nella zona della marina a causa della grande siccità e per il caldo afoso che c’era ci fu una forte invasione di grilli che distruggevano il grano mandando in rovina l’intero raccolto dell’annata. La gente era disperata, piangeva e pregava. Già la fame si avvertiva molto nelle famiglie numerose di allora, per cui il grano che si disperdeva avrebbe significato andare incontro ad una vera e propria carestia. Fu così che le persone anziane che avevano sperimentato più volte l’aiuto di San Francesco nella loro vita, pensarono di portarlo in processione a spalle verso le zone della marina cantando e pregando. Era impressionante,  per chi ricorda questo fatto il vedere che dove metteva piede  San Francesco seguiva  una grande quantità di grilli che morivano. E,  si narra che i grilli  morirono tutti grazie alla presenza del santo miracoloso.

Ecco i canti che  le persone anziane ricordano che accompagnavano la processione:

  “Sa ‘Franciscu, Sa’ Franciscu veru monacu de Cristu e davanti a Gesù Cristu lu capucciu te calasti. Tridici grazze le cercasti, tridici grazze te cuncedio e mo San Franciscu mio cedaminne una a mie.

  San Ffranciscu mio de Paola mantu mio de carità io te priagu  viani priastu a re mie necessità. San Ffranciscu mio io te priagu ‘ccu na gran devozione ‘ppe  i tridici diuni chi facianu orazione, orazione de Cristu beatu Diu e Gesù Cristu.

Sa Franciscu mio si nu gran santu pregare te vulera ogni momentu  ca le preghiere mie e ‘ne jjre avanti ca ‘nna mannare a  pace e l’alimiantu. ‘Nnu simu degni de

pregare i santi ca simu peccaturi veramente.  Mo Vi‘nne priagu a Vui chi siti santu facitilu ‘ppe l’anime innocenti.       

Antonio Cosco 5^B                                                                                                                      

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A Iumera era bella, era chiara

A Iumera era bella, era chiara

Il fiume era bello, l’acqua era chiara. Tu bevevi quella l’acqua e la digerivi subito, ora è rovinata tutta l’acqua.L’acqua del fiume si beveva  perchè era chiara, era pulita, l’acqua corrente era bella.

Al fiume ci si lavava anche. I panni del fiume si lavavano meglio, si faceva il bucato con la cenere (lissia) che si faceva bollire nell’acqua. Una volta bollita si versava la lissia sulla biancheria (assammarata) e messa dentro le sporte (grosse ceste). Dopo alcune ore il bucato veniva lavato al fiume e sciacquato bene. Le donne lavavano i panni su delle pietre in mezzo la fiume, con i piedi nell’acqua, lasciando i bambini vicino l’argine del fiume. La biancheria lavata al fiume era profumata e si metteva ad asciugare sulle pietre  calde e sulle piante che trovavano nei pressi del fiume, generalmente salici. Gli abitanti di Petilia lavavano i panni con le acque del fiume Soleo, nelle località: Ponte di ferro, Cerratullo, Tracca.   

 Oltre l’acqua del fiume c’era anche l’acqua “du Surriatunu” che sgorgava dalla timpa, era chiara però quando la bevevi era un po’ pesante. C’era anche l’acqua “campagna” che sgorgava tra due grossi macigni, era un’acqua molle, quando la bevevi ti lasciava un gusto dolce.

Quando si andava al fiume le donne preparavano delle belle insalate, era un banchetto gioioso dove ognuno metteva a disposizione tutto ciò che aveva portato da casa, un buon pic nic.

Quando arrivava la piena perché pioveva tanto, l’acqua sembrava un batuffolo di lana. Ma c’era tanto spavento perché la piena trascinava tutto ciò che trovava nel suo passaggio. Il fiume in piena non conosceva ostacoli. Le grosse pietre che si trovavano negli anni passati, ora non ci sono più, è scomparsa la sorgiva e l’acqua campagna e tanti alberi che la natura aveva messo a disposizione dell’uomo. Ma insieme alle cose cattive le piene lasciavano qualcosa di utile, il fiume offriva nuova legna, terriccio e sabbia. Inoltre il fiume rappresentava anche il mezzo di trasporto dei tronchi d’albero, quindi oltre ad essere una fonte di benessere, vita, il fiume alimentava l’acqua del mulino, e poi era una fonte di energia elettrica.

 Il fiume per i ragazzi  dagli 11 ai 14 anni rappresentava il mare. Incoscienti, inconsapevoli del pericolo di annegamento facevano il bagno alle cascate delle sbriglie, nell’acqua “du vuddru” . Poi si asciugavano  sulle grosse pietre (petramuni) che ci sono lungo il fiume, mentre, più a valle, le donne sotto il ponte lavavano i panni.  

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