Il sistema politico ideale è il Capitalismo Laissez-Faire, un sistema in cui gli uomini si rapportano gli uni con gli altri non come vittime e carnefici, non come padroni e schiavi, ma come mercanti, attraverso lo scambio volontario per il mutuo beneficio
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L'egoismo razionale


L’etica dell’oggettivismo è un’etica radicalmente individualista, chiamata dagli stessi oggettivisti “egoismo razionale”. L’interpretazione del termine “egoismo” ha sempre avuto una valenza fortemente negativa. Di solito si indica come “egoista” colui che persegue unicamente il proprio interesse, anche a costo di calpestare la vita altrui, se questo lo dovesse soddisfare. In realtà, “egoismo” vuol semplicemente dire, ad essere precisi, “preoccupazione per i propri interessi”. Questa è, in sintesi, l’etica dell’oggettivismo: è bene che ciascun individuo si preoccupi dei propri interessi. La fondatrice dell’oggettivismo, Ayn Rand, ha deciso di impiegare la definizione “egoista” per la propria dottrina etica, invece del più generico “individualista”, per motivi di precisione oltre che di provocazione nei confronti di qualsiasi sostenitore di un’etica collettivista. L’individualismo radicale, solipsistico, egoistico, dell’oggettivista è un completo codice di valori che serve a guidare qualsiasi scelta e azione umana e dunque va ben oltre quell’individualismo giuridico del liberalismo classico che mira unicamente a proteggere i diritti degli individui, indipendentemente dal carattere egoistico o altruistico della loro etica personale.

 

Perché un’etica?

 

L’etica è quel codice di valori che serve a guidare le scelte e le azioni umane. Anzitutto perché l’uomo dovrebbe avere bisogno di un codice di valori?

La filosofia oggettivista è realista ed empirista, dunque non spiega l’origine dell’etica a partire da una sua dimensione trascendente. Non è Dio o un giudice supremo che detta una legge suprema e inviolabile dall’alto di un’altra dimensione. Anche l’idea che l’etica sorga dalla società è rigettata, semplicemente perché la società non esiste in sé. La società non è che un insieme di individui e dunque un’etica sociale, sia essa evoluzionista (le leggi sono frutto dell’evoluzione della società e delle sue convenzioni), utilitarista (la morale come felicità del maggior numero degli individui), egualitarista (pari opportunità nel raggiungere la felicità), comunitarista (la morale come tradizione del proprio gruppo etnico, religioso, nazionale o sessuale) non può che essere un’etica dettata arbitrariamente da un gruppo di individui su tutti gli altri. Sia che questo gruppo di individui risulti maggioritario o (nella maggior parte dei casi storici) minoritario, il risultato non cambia: un’etica imposta non è un codice di valori valido per tutti, non è etica, ma la mera volontà arbitraria di pochi.

Un’etica universale ed effettivamente utile a fornire una base di valori per l’uomo deve partire da un unico presupposto fondamentale: l’uomo vive. Se si parte dal presupposto di essere vivi e di avere un minimo di istinto di conservazione, non si può non notare che il principale scopo della propria esistenza, ciò da cui dipende tutto il resto, è di rimanere vivi, di continuare a vivere. Perché vivere? La vita è una scelta, alla base di qualsiasi altra scelta umana. E’ l’unica vera alternativa della nostra esistenza. Solo se si sceglie di vivere si può impostare un ragionamento etico, mentre chi sceglie la morte, la non esistenza, non ha bisogno dell’etica, un individuo a-etico. Che ben presto sarà anche un non-uomo.

La vita è l’elemento fondante dell’etica oggettivista, il supremo fine a cui tutti gli individui tendono. Se non si tende a vivere, il termine stesso di “valore” perde completamente il suo significato. E’ infatti un “valore” ciò che permette di vivere, possibilmente di vivere meglio, mentre è un disvalore ciò che non permette di vivere, o semplicemente di vivere in peggiori condizioni fisiche e mentali. Il piacere e il dolore, quali percezioni che il corpo umano trasmette automaticamente costituiscono il primo livello della selezione dei valori: è un valore ciò che procura piacere ed evita il dolore. Questo, tuttavia, è solo il primo livello, quello istintivo. L’uomo non è dotato istintivamente della capacità di individuare una soluzione che permetta di evitare il dolore e perseguire il piacere. Le soluzioni sono individuate tramite la ragione. La ragione permette all’uomo di conservare le percezioni, di identificarle, di sintetizzarle in concetti, di sintetizzare questi ultimi in concetti sempre più astratti, di definire tali concetti e di trasmetterli ad altri uomini nello spazio e nel tempo tramite il linguaggio, come si è già visto nel capitolo sull’epistemologia oggettivista.

Si noti che anche l’uso della ragione è attivo, non è automatico. E’ l’uomo che, pensando, decide di impiegare la ragione (il pensiero è l’azione della ragione). In questo caso ci si trova di fronte ad una seconda scelta, dopo quella fra la vita e la morte: vivere impiegando la ragione o vivere non impiegandola. Si può anche decidere di non ragionare, ma di obbedire e basta. Obbedire a precetti religiosi, a regole tradizionali, ai comandi di un dittatore o al “benessere della società”. E alla lunga non è un gran vivere. L’etica è perciò da considerarsi ulteriormente una scelta razionale. Ciò che non si può scegliere è di evitare o meno le conseguenze della propria scelta, naturalmente. Chi vive seguendo ciecamente regole dettate da altri, non può evitare le conseguenze della propria scelta, che è una scelta di non ragionare, non solo sulla qualità della propria vita, ma anche sulla propria mera sopravvivenza, anche perché la sua vita finisce per dipendere, in tutto e per tutto, da chi gli detta le regole.

 

 

 

Valori e virtù

 

In sintesi: chi sceglie di vivere e chi sceglie di continuare a vivere, ha bisogno di un’etica, che altro non è che un codice di norme che permettono di continuare a vivere nel miglior modo possibile. Il parametro di valutazione è la vita. Il bene è ciò che permette di vivere e di continuare a vivere. Il male è ciò che distrugge la vita. Valore è ciò che spinge a vivere e a continuare a vivere. Virtù è il mezzo impiegato per conseguire il valore.

Ora è bene identificare quali sono i valori e quali le virtù. I valori fondamentali, alla fine si riducono a tre: ragione, proposito e autostima, ai quali corrispondono le virtù di razionalità, produttività e orgoglio.

La virtù fondamentale nell’uomo è la sua razionalità e di conseguenza il peggior vizio è l’irrazionalità. Per razionalità, qui si intende semplicemente l’accettazione della ragione come unica fonte di conoscenza, l’impegno ad essere consapevoli in qualsiasi scelta si faccia, l’impegno ad espandere la propria conoscenza e l’impegno a non porre nulla al di sopra della realtà conosciuta nella scelta delle proprie azioni. La vera razionalità implica l’indipendenza (accettare la responsabilità di formulare un giudizio proprio), l’integrità (il non sacrificio delle proprie convinzioni ai desideri altrui) e l’onestà (la non manipolazione deliberata della realtà conosciuta). Senza indipendenza, integrità e onestà, la razionalità non può che cadere.

La produttività consiste semplicemente nel riconoscimento del fatto che l’uomo deve modificare le risorse naturali per poter sopravvivere e per potersi adattare al meglio all’ambiente circostante. Può non essere solo una mera necessità: la produttività è la via della realizzazione illimitata delle ambizioni dell’uomo, per la quale si fa appello a tutte le proprie migliori qualità.

L’orgoglio è la soddisfazione, di qualsiasi tipo, che si ricava dal compimento di un’azione. Banalmente esso implica il rifiuto di qualsiasi rimprovero che non sia meritato, la spinta a correggere gli errori per i quali si è rimproverati giustamente, la non rassegnazione a difetti del proprio carattere riconosciuti come tali, il mettere in secondo piano preoccupazioni, frustrazioni e sensi di colpa temporanei rispetto alla stima in sé stessi. Soprattutto orgoglio vuol dire non sacrificarsi: il rigetto di qualsiasi dottrina che implichi il proprio sacrificio a vantaggio di qualcun altro o di qualcos’altro.

 

 

Non aggressione

 

E’ possibile conseguire i valori della ragione, del proposito e dell’autostima senza fare del male a nessuno? Detto semplicemente: è possibile vivere felici senza fare del male e sacrificare altri individui?

Sì, è possibile. La violazione della felicità, o anche della vita, anche di un solo individuo per il raggiungimento della felicità di altri individui, implicherebbe l’immoralità di tutto l’impianto etico su cui si regge una società. Tutti hanno uguale diritto ad essere vivi e felici: non vi è alcuna ragione logica per sostenere, in base a quanto detto fin qui, che alcuni individui abbiano diritto ad essere vivi e felici più di altri.

Lo strumento col quale è possibile assicurare la giustizia nella vita associata è lo scambio: lo scambio permette sempre e comunque a tutte le parti coinvolte di guadagnare. E’ sempre un gioco a somma positiva, anche nel momento in cui l’oggetto dello scambio può apparire “iniquo”. Non è iniquità accettare qualcosa, da uno scambio, che sia giudicata inferiore alle proprie aspettative, dato che lo scambio si effettua in base al consenso reciproco. Lo scambio, inoltre, caratterizza tutti i tipi di rapporti umani: che lo si voglia vedere o meno, è inevitabile che l’uomo doni qualcosa per ottenere altro, sia esso affetto, autostima, soldi, sesso, gratificazione, beni materiali, terre, conoscenze, ecc…

Sullo scambio si fonda la giustizia: se è possibile ottenere qualsiasi cosa scambiandola (o occupandola quando essa è res nullius, in rari casi), l’uso della violenza per realizzare le proprie ambizioni diventa totalmente irrazionale. Naturalmente per ambizione si deve intendere un’ambizione razionale. Un comportamento dettato per realizzare a tutti costi un capriccio (si badi che in molti drammatici casi nel mondo un capriccio può apparire come una primaria necessità, anche se questa, ripeto, è solo un’apparenza) è un comportamento irrazionale che può condurre all’uso della violenza, ma a questo punto, esce dai termini dell’etica.

L’ambizione razionale è fondamentale per evitare conflitti di interesse con altri individui che nutrono la stessa ambizione. Affinché un’ambizione, di qualsiasi genere essa sia, possa definirsi effettivamente razionale, occorrono quattro considerazioni: realtà, contesto, responsabilità e impegno. Considerare la realtà significa semplicemente prendere atto che nulla è dovuto. Non si ha diritto a nulla di ciò a cui si vuole aspirare: non esistono diritti positivi. Se non si riesce a realizzare quell’ambizione, se la stessa cosa a cui si ambisce viene ottenuta da un altro individuo, o non viene ottenuta da nessuno, in questo caso non si ha alcun guadagno, ma non si ha nemmeno alcuna perdita. Il fatto di non aver subito perdite, se non si ha ottenuto qualcosa, sembra un concetto ovvio, ma in quasi tutti i ragionamenti sul mercato del lavoro o sulla distribuzione della ricchezza, si sente dire che ci sono pochi ricchi che sottraggono ricchezze a tanti poveri, o che ci sono pochi occupati che sottraggono lavoro a tanti disoccupati. In realtà nessuno sottrae niente a nessun altro. Si pensa a una sottrazione se si parte dal presupposto che tutti abbiano diritto a quella cosa a cui si ambisce: un diritto del tutto inesistente, inventato per motivi puramente politici in tempi recenti. Posto che non esiste un diritto a ottenere qualcosa che si desidera, c’è da dire che qualsiasi cosa si desideri è sostituibile. Solo un individuo è insostituibile, ma qualsiasi oggetto, servizio, status ha dei surrogati. Per cui è parte integrante della considerazione della realtà, il rendersi conto che le vie per soddisfare le proprie ambizioni sono praticamente infinite, che qualsiasi tipo di risorsa non è limitata, ma, con buona pace dei ragionamenti maltusiani degli ecologisti, è perennemente riproducibile.

Una volta preso atto della realtà, occorre prendere atto del contesto in cui si formula una qualsiasi ambizione. Nei limiti della propria conoscenza, occorre conoscere le condizioni che permettono di realizzare il proprio progetto a spese proprie o a spese di altri individui consenzienti. La maggior parte dei crimini peggiori dell’umanità, quale il totalitarismo nazista e comunista, nascono da progetti formulati in buona fede… che non tengono in considerazione il contesto. Se non si hanno i mezzi per portare avanti un progetto e se le persone utili alla sua realizzazione non sono consenzienti, il progetto non deve partire: si tratta di un’ambizione irrazionale. Una sua realizzazione costa l’impiego della violenza, niente altro.

La presa di coscienza della realtà e del contesto, sono alla base della responsabilità. Un individuo, nel tentativo di realizzare una qualsiasi sua aspirazione, è sempre responsabile per ciò che fa, non può permettersi di ignorare volutamente la realtà in cui vive e il contesto in cui opera. Per cui qualsiasi azione irrazionale violenta che venga eventualmente compiuta da un individuo, è di sua piena responsabilità.

Se si decide di perseguire la propria ambizione razionalmente, si deve prendere coscienza dell’impegno che ciò comporta. L’impegno non è altro che questo: perseguire razionalmente (tenendo conto della realtà, del contesto e quindi della propria responsabilità) un obiettivo che rientra nelle proprie ambizioni. Nel caso questo obiettivo venga raggiunto, esso è comunque meritato e non è sottratto a nessuno.

Se si perseguono le proprie ambizioni razionalmente, i conflitti di interesse risultano impossibili. Non esiste e non potrà mai esistere un caso in cui si è costretti a dare inizio alla violenza per primi: tutto dipende dalla scelta deliberata di aspirare a qualcosa razionalmente o irrazionalmente. La scelta irrazionale è spinta da veri e propri vizi: l’invidia e la gelosia, le vere basi di qualsiasi discorso egualitario. L’irrazionalità dell’invidia consiste nel desiderare qualcosa che non si ottiene, di considerare la cosa non ottenuta come una cosa persa perché si è assurdamente convinti di avere già diritti su di essa, pur non essendone in possesso. La gelosia si fonda sullo stesso presupposto, ma in campo sentimentale: la sua irrazionalità consiste nel desiderare una persona che concede la sua amicizia o amore a un’altra persona, di considerarla assurdamente come una persona che ha tradito, pur non esistendo alcun legame precedente e alcuna promessa reciproca. L’irrazionalità dell’invidia e della gelosia è la strada maestra della violenza, sia essa concretizzata in un atto di forza bruta, sia essa codificata in più o meno raffinate teorie politiche.

La regola fondamentale di questa visione oggettivista della giustizia è dunque l’assioma della non-aggressione: è illegittimo l’uso iniziale della violenza. La violenza è legittima solo come auto-difesa o rappresaglia a una violenza precedentemente subita o esplicitamente minacciata. E’ dunque illegittimo aggredire un altro individuo nella sua vita, nelle sue proprietà o impedire ad esso la sua libertà di azione, di espressione o di pensiero se non come risposta a una sua precedente violazione dello stesso tipo o a una minaccia esplicita di aggressione dello stesso tipo. E’ illegittima anche quella violenza che viene impiegata in eccesso alle esigenze dell’autodifesa o della rappresaglia. La risposta deve essere commisurata sempre all’offesa: non è giusto uccidere un ladro per punirlo del suo furto, è giusto fargli risarcire il danno nella stessa misura in cui lo ha inflitto alla vittima.

 

La vita degli altri

 

L’individuo ha diritto a difendere ciò che ha, ma non ha diritto a nulla che non abbia, come si è visto nel paragrafo precedente. Questo vale anche per la vita. Tutta l’etica oggettivista si fonda sulla scelta di vivere e sulla difesa della vita da aggressioni esterne, ma se ci si trova nella disgraziata condizione di non poter scegliere se vivere o meno, se non si “possiede” la vita, ad esempio si è nell’utero materno, o si è intrappolati in un incendio, o si sta affogando, o la propria vita dipende dalla tecnologia ospedaliera del momento, non si hanno più diritti neppure in questo senso. La propria vita dipende dalla scelta altrui e a questo punto è bene, allora, spostare l’attenzione su chi deve decidere di far vivere o meno un altro individuo.

Un individuo che decide di aiutarne un altro, lo fa per i propri interessi ed è giusto che sia così. Qualsiasi forma di aiuto implica un sacrificio che, di per sé, è immorale: è una rinuncia alla propria felicità e anche, in certi casi, a parte o a tutta la propria vita. L’aiuto è perciò condizionato dal guadagno (il più delle volte emotivo) che si ottiene in cambio: esso stesso rientra in una logica di scambio come qualsiasi altro rapporto umano. Si aiuta una persona amata a vivere perché la sua perdita comporterebbe un costo troppo alto in termini emotivi. Si può essere razionalmente disposti al sacrificio della propria vita nell’aiutare un’altra persona a vivere, se e solo se l’eventuale perdita della persona da salvare fosse troppo alta per continuare a vivere. In altri casi, in qualsiasi altro caso, il proprio sacrificio è moralmente inaccettabile.

In generale si decide di aiutare un altro individuo a vivere meglio o semplicemente a continuare a vivere, se questo individuo rientra nella scala dei propri valori. Prendersi a carico la vita, la salute e il benessere di sei miliardi di individui sconosciuti che abitano sul pianeta Terra, è non solo impossibile, ma è anche immorale.

Siamo ben lontani, dunque, da quella logica utilitarista che impone, nel nome della felicità del maggior numero di persone, il sacrificio di un parente morente (magari recuperabile, in futuro) per il trapianto dei suoi organi nei corpi di altri individui sconosciuti, dall’aberrante regola del “silenzio assenso” e tutte le altre aberrazioni che la nostra cultura catto-comunista è riuscita a produrre.

Se è morale l’aiutare le persone amate, nella misura in cui si amano e si desidera la loro vita, quale destino è riservato alle persone sconosciute in pericolo di vita? Nel momento in cui si arriva a contatto con un caso di emergenza, anche nel caso questo riguardi un individuo perfettamente sconosciuto, è naturale l’aiuto offerto a chi è in pericolo. Questo perché un individuo sconosciuto è naturalmente percepito da un individuo razionale come un individuo potenzialmente amico, soprattutto dopo che lo si è aiutato. L’uomo è una tabula rasa nelle sue conoscenze quando inizia qualsiasi processo di apprendimento, dunque quando arriva a contatto con un individuo sconosciuto non lo considera ostile fino al momento in cui quest’ultimo non compie atti di ostilità o non minaccia di compierli. E’ per questo che un individuo sconosciuto, al momento non ostile, rientra nella propria scala di valori per lo meno come un elemento che è degno di vivere e da qui nasce la moralità dell’azione di un suo salvataggio da una situazione di emergenza. L’aiuto a uno sconosciuto, comunque, rimane morale fino a che si ha la convinzione che tale aiuto non comporti pericolo alcuno per la propria esistenza e il minimo sacrificio possibile. In caso contrario l’aiuto portato a uno sconosciuto in pericolo è altamente irrazionale e immorale. E l’aiuto a uno sconosciuto è morale (e possibile) nel momento in cui questo si trova in una situazione di emergenza, che rappresenta un’eccezione nell’esistenza di un individuo: una situazione da “scialuppa di salvataggio”. La miseria, la malattia, l’ignoranza non sono da considerarsi come situazioni di emergenza.

 

Immoralità del compromesso

L'uomo può scegliere se vivere secondo morale e ragione, o irrazionalmente secondo regole dettate da altri. Il fatto di essere "buoni" o "cattivi", dipende da una scelta esistenziale dell'individuo e dunque è giudicabile e sanzionabile. Oggi si tende a non seguire un ragionamento simile, giudicandolo ingenuo o addirittura dannoso. E si tende a vedere la realtà non con tinte bianche o nere, ma come una non ben definita e uniforme tinta grigia. 

A osservare meglio la realtà, però, i buoni e i cattivi esistono eccome. Negarlo significherebbe privare l'individuo della sua libertà di scelta nelle sue azioni. Chi è roso dall'invidia e viola l'assioma morale della non aggressione deve essere condannato. Chiunque deve scegliere e chiunque deve giudicare: siamo animali razionali. Sui principi morali fondamentali non è possibile scendere a compromessi. Non è possibile dire: "lo ha voluto mezzo uccidere", o "lo ha voluto mezzo derubare". O si uccide o non si uccide. O si deruba o non si deruba. O si è buoni o si è cattivi. O si è colpevoli o si è innocenti: attenuanti o vie di mezzo non possono esistere in questo campo, come non può esistere l'astensione dal giudizio da parte di chi assiste. In parole povere, la realtà è a tinte bianche e nere. Vederla grigia è cattiva fede, non realismo. 

Se il compromesso non è ammissibile moralmente nei rapporti fra individui, la sua immoralità si estende anche alle scelte personali. Si badi bene che per compromesso non si intende accettare qualcosa che non si vuole e che è imposta dall'esterno. Se si mantengono le proprie idee e le proprie aspirazioni, convivere con un capo ufficio di cui non si condividono le idee non è un compromesso. Accettare per necessità pecuniarie un lavoro che non corrisponde alle proprie aspirazioni professionali non è un compromesso. Per compromesso si intende cambiare le proprie aspirazioni e idee per "adattarsi alla realtà esterna", cosa che mina alla base l'indipendenza della propria ragione e che non può condurre, in nessun caso, ad un comportamento morale, dato che annichilisce la capacità di giudizio sull'azione propria e altrui. 

 

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