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Road Map o Road Trap?
 

A noi occidentali piace illuderci sulla realtà del Medio Oriente. I politici europei e anche molti politici americani, adorano pensare che si possano trovare soluzioni facili e che ci si possa fidare di leader “illuminati” che possano metter fine alle violenze.

L’ultima di queste illusioni, dopo la fiducia riposta negli “occidentalisti” monarchi sauditi, nei “modernizzatori” egiziani e nel premio Nobel per la pace Arafat, si chiama Road Map.

Apparentemente il nuovo piano di pace per il Medio Oriente ha solide basi, molto più solide rispetto al precedente piano di pace avviato da Rabin a Oslo e fallito a Camp David. La Road Map, infatti è la carota che viene porta agli Arabi dopo il bastone usato con successo da Bush in Iraq. Si pensa che, dopo il facile rovesciamento del regime di Saddam, il regime palestinese sia più propenso a scendere seriamente a patti. Le premesse sembrano anche buone: a fronte di un ritiro unilaterale israeliano dai territori occupati, i Palestinesi devono dotarsi di un governo democratico, che possa dar vita a uno Stato indipendente e pacifico confinante con Israele.

Tuttavia, se si va a vedere, in concreto, che cosa sostiene la Road Map, si può vedere quanto questa sia lontana dalla realtà dei fatti. Prima di tutto, si basa sulla solita, assurda, logica della “doppia aggressione”: Israeliani e Palestinesi devono smettere di menar fendenti l’uno all’altro, contemporaneamente. A fronte di 15 attentati al giorno che i Palestinesi preparano contro gli Israeliani, la teoria della “doppia aggressione” assume tinte grottesche e la proposta statunitense diventa il massimo dell’ipocrisia. Un po’ come se Roosevelt, nel ’41, avesse tirato le orecchie a Churchill intimandogli di smettere di abbattere quei poveri aviatori tedeschi che bombardavano quotidianamente le città inglesi. Nella pratica, la “cessazione delle violenze” andrebbe del tutto a svantaggio di Israele: facile controllare il ritiro di visibili forze corazzate dai territori occupati, impossibile monitorare la presenza di centinaia di invisibili uomini-bomba già presenti nelle città israeliane. Facile ottenere il ritiro di migliaia di cittadini israeliani dagli insediamenti (dalle loro case, in cui sono nati e cresciuti), impossibile ottenere il disarmo di una popolazione, come quella palestinese, che si considera in guerra (una guerra senza esclusione di colpi) da mezzo secolo.

Questo per quanto riguarda la sola prima fase della Road Map. La seconda fase, la democratizzazione della Palestina, è una vera utopia. Per un motivo molto semplice: i tempi. In due anni, entro le prime libere elezioni palestinesi nel 2005, la stessa leadership dittatoriale che ha sistematicamente trasformato la propria popolazione in una gabbia di belve assetate di sangue, deve rieducarla alla pace e alla felice convivenza con Israele. In due anni, gli stessi insegnanti, che per almeno vent’anni hanno insegnato ai loro allievi, dalle elementari in avanti, che il più alto valore della loro vita è quello di farsi esplodere in mezzo agli Ebrei per trascinarne il più possibile nella tomba, devono dire ai propri allievi che era tutto uno scherzo, che gli Israeliani sono un popolo con cui si deve convivere e che non è giusto ucciderli.

E chi, in questi due anni, deve vegliare su questa impresa titanica? Sulla trasformazione di un popolo che, al 45% (stando alle statistiche più ottimistiche) desidera ardentemente l’annientamento fisico totale di Israele, in una società civile e pacifica? Il governo israeliano, il diretto interessato, è escluso. Gli autorizzati sono l’Onu (ente che ha emesso più di 200 risoluzioni di condanna a Israele), la Russia (Paese in cui i Protocolli dei Savi di Sion sono ancora in vendita e che per mezzo secolo ha mirato alla distruzione di Israele), l’Unione Europea (quella che finanzia maggiormente il terrorismo palestinese) e infine gli Stati Uniti: da soli contro tre. Questo è il “quartetto” che dovrebbe vegliare sulla pacifica conversione della Palestina dalla guerra alla pace. In loco, il responsabile della conversione palestinese, è il tanto osannato da tutti Abu Mazen, nome di battaglia di Mahmud Abbas, l’uomo che finanziò la strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, che si laureò con una tesi sull’anti-sionismo, che vede nella “non-violenta” bomba demografica palestinese il metodo più efficiente per cacciare gli Ebrei dal Medio Oriente una volta per tutte. Un ennesimo nazista presentabile, insomma, come Tareq Aziz a suo tempo, di quelli che piacciono tanto ai diplomatici europei. Adesso, poi, ci si lamenta che Abu Mazen non abbia abbastanza potere nelle sue mani. E questo è anche vero, considerando che il vecchio Arafat detiene la cassa del futuro Stato palestinese e mantiene il controllo sulle forze armate palestinesi che contano (Forza 17 e Servizio di Sicurezza). Nelle ultime settimane, Arafat ha anche fatto vedere di usare i suoi poteri come e quando vuole: a spese di quelle decine di civili israeliani morti a Gerusalemme, Hebron e Afula.

Viene da chiedersi, a questo punto: ma perché prendersi in giro? Gli Israeliani non ci sono cascati. Il gabinetto di Sharon non vuole questa pace. La gente comune in Israele, di destra o di sinistra che sia, crede che questa sia solo una trappola; non una Road Map, ma una road trap: un agguato. Sharon è talmente restio ad avviare le sue mosse, prima di accettare il piano, che Bush ha dovuto minacciare sanzioni molto pesanti contro Israele nel caso dovesse tentennare ancora. La Road Map, come molte altre scelte politiche americane sul Medio Oriente, appare come l’ennesimo compromesso ottenuto all’interno dell’amministrazione americana e dei rapporti fra gli Stati Uniti e le altre grandi potenze. Con la road map, Bush può ottenere molti vantaggi personali: far credere di aver risolto la questione mediorientale, una volta per tutte, prima delle elezioni del 2004 (se dopo scoppiano altre violenze, c’è tempo per metterci una pezza); dare il contentino a Powell e al Gruppo 41 (i conservatori “pragmatici”, con tutte le loro lobby annesse e connesse) che hanno ideato il nuovo piano di pace dalla A alla Z; ricucire lo strappo con l’Unione Europea e l’Onu, dopo la scelta unilateralista dell’attacco all’Iraq; far vedere agli Arabi “alleati” che gli Stati Uniti pensano al loro bene, anche bacchettando il loro babau di sempre, cioè Israele.

Un appassionato di politica machiavellica si esalterebbe per Bush. Obbiettivamente, quello che sta facendo a Israele con la Road Map è mostruoso. Perché come gli Stati Uniti avevano diritto di difendersi, anche attaccando preventivamente l’Iraq di Saddam Hussein, anche Israele ha il diritto di difendersi da un’aggressione continua proveniente da un regime fanatico come quello palestinese.

Come tutti i compromessi, il compromesso della Road Map appare una via lastricata verso nuove violenze, nuove guerre, non un modo per salvare la pace.

Dopo la vittoria anglo-americana in Iraq, era più che necessaria una chiara vittoria israeliana contro il regime palestinese. Solo così gli Arabi si sarebbero ritenuti sconfitti e avrebbero accettato di trattare seriamente. Con la super-concessione della Road Map, invece, gli Americani hanno fatto (inconsapevolmente) il solito gioco voluto dai leader nazionalisti arabi e dai leader islamici radicali: capitalizzare politicamente una sconfitta militare. Adesso i nazionalisti arabi hanno perso un regime ormai in declino, come quello irakeno, per raggiungere uno dei loro obiettivi più ambiti: uno Stato arabo conficcato dentro il territorio israeliano. La stessa sensazione di vittoria che possono percepire i radicali islamici: hanno perso alcune importanti basi in Iraq, per avere a disposizione altre nuove basi nel promettente (e strategicamente ben collocato) territorio sovrano palestinese. E il tutto con il consenso internazionale. Bel lavoro: complimenti!


 

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