L’ultima di
queste illusioni, dopo la fiducia riposta negli “occidentalisti” monarchi
sauditi, nei “modernizzatori” egiziani e nel premio Nobel per la pace Arafat, si
chiama Road Map.
Apparentemente il
nuovo piano di pace per il Medio Oriente ha solide basi, molto più solide
rispetto al precedente piano di pace avviato da Rabin a Oslo e fallito a Camp
David. La Road Map, infatti è la carota che viene porta agli Arabi dopo il
bastone usato con successo da Bush in Iraq. Si pensa che, dopo il facile
rovesciamento del regime di Saddam, il regime palestinese sia più propenso a
scendere seriamente a patti. Le premesse sembrano anche buone: a fronte di un
ritiro unilaterale israeliano dai territori occupati, i Palestinesi devono
dotarsi di un governo democratico, che possa dar vita a uno Stato indipendente e
pacifico confinante con Israele.
Tuttavia, se si
va a vedere, in concreto, che cosa sostiene la Road Map, si può vedere quanto
questa sia lontana dalla realtà dei fatti. Prima di tutto, si basa sulla solita,
assurda, logica della “doppia aggressione”: Israeliani e Palestinesi devono
smettere di menar fendenti l’uno all’altro, contemporaneamente. A fronte di 15
attentati al giorno che i Palestinesi preparano contro gli Israeliani, la teoria
della “doppia aggressione” assume tinte grottesche e la proposta statunitense
diventa il massimo dell’ipocrisia. Un po’ come se Roosevelt, nel ’41, avesse
tirato le orecchie a Churchill intimandogli di smettere di abbattere quei poveri
aviatori tedeschi che bombardavano quotidianamente le città inglesi. Nella
pratica, la “cessazione delle violenze” andrebbe del tutto a svantaggio di
Israele: facile controllare il ritiro di visibili forze corazzate dai territori
occupati, impossibile monitorare la presenza di centinaia di invisibili
uomini-bomba già presenti nelle città israeliane. Facile ottenere il ritiro di
migliaia di cittadini israeliani dagli insediamenti (dalle loro case, in cui
sono nati e cresciuti), impossibile ottenere il disarmo di una popolazione, come
quella palestinese, che si considera in guerra (una guerra senza esclusione di
colpi) da mezzo secolo.
Questo per quanto
riguarda la sola prima fase della Road Map. La seconda fase, la
democratizzazione della Palestina, è una vera utopia. Per un motivo molto
semplice: i tempi. In due anni, entro le prime libere elezioni palestinesi nel
2005, la stessa leadership dittatoriale che ha sistematicamente trasformato la
propria popolazione in una gabbia di belve assetate di sangue, deve rieducarla
alla pace e alla felice convivenza con Israele. In due anni, gli stessi
insegnanti, che per almeno vent’anni hanno insegnato ai loro allievi, dalle
elementari in avanti, che il più alto valore della loro vita è quello di farsi
esplodere in mezzo agli Ebrei per trascinarne il più possibile nella tomba,
devono dire ai propri allievi che era tutto uno scherzo, che gli Israeliani sono
un popolo con cui si deve convivere e che non è giusto ucciderli.
E chi, in questi
due anni, deve vegliare su questa impresa titanica? Sulla trasformazione di un
popolo che, al 45% (stando alle statistiche più ottimistiche) desidera
ardentemente l’annientamento fisico totale di Israele, in una società civile e
pacifica? Il governo israeliano, il diretto interessato, è escluso. Gli
autorizzati sono l’Onu (ente che ha emesso più di 200 risoluzioni di condanna a
Israele), la Russia (Paese in cui i Protocolli dei Savi di Sion sono ancora in
vendita e che per mezzo secolo ha mirato alla distruzione di Israele), l’Unione
Europea (quella che finanzia maggiormente il terrorismo palestinese) e infine
gli Stati Uniti: da soli contro tre. Questo è il “quartetto” che dovrebbe
vegliare sulla pacifica conversione della Palestina dalla guerra alla pace. In
loco, il responsabile della conversione palestinese, è il tanto osannato da
tutti Abu Mazen, nome di battaglia di Mahmud Abbas, l’uomo che finanziò la
strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, che si laureò con una
tesi sull’anti-sionismo, che vede nella “non-violenta” bomba demografica
palestinese il metodo più efficiente per cacciare gli Ebrei dal Medio Oriente
una volta per tutte. Un ennesimo nazista presentabile, insomma, come Tareq Aziz
a suo tempo, di quelli che piacciono tanto ai diplomatici europei. Adesso, poi,
ci si lamenta che Abu Mazen non abbia abbastanza potere nelle sue mani. E questo
è anche vero, considerando che il vecchio Arafat detiene la cassa del futuro
Stato palestinese e mantiene il controllo sulle forze armate palestinesi che
contano (Forza 17 e Servizio di Sicurezza). Nelle ultime settimane, Arafat ha
anche fatto vedere di usare i suoi poteri come e quando vuole: a spese di quelle
decine di civili israeliani morti a Gerusalemme, Hebron e Afula.
Viene da
chiedersi, a questo punto: ma perché prendersi in giro? Gli Israeliani non ci
sono cascati. Il gabinetto di Sharon non vuole questa pace. La gente comune in
Israele, di destra o di sinistra che sia, crede che questa sia solo una
trappola; non una Road Map, ma una road trap: un agguato. Sharon è talmente
restio ad avviare le sue mosse, prima di accettare il piano, che Bush ha dovuto
minacciare sanzioni molto pesanti contro Israele nel caso dovesse tentennare
ancora. La Road Map, come molte altre scelte politiche americane sul Medio
Oriente, appare come l’ennesimo compromesso ottenuto all’interno
dell’amministrazione americana e dei rapporti fra gli Stati Uniti e le altre
grandi potenze. Con la road map, Bush può ottenere molti vantaggi personali: far
credere di aver risolto la questione mediorientale, una volta per tutte, prima
delle elezioni del 2004 (se dopo scoppiano altre violenze, c’è tempo per
metterci una pezza); dare il contentino a Powell e al Gruppo 41 (i conservatori
“pragmatici”, con tutte le loro lobby annesse e connesse) che hanno ideato il
nuovo piano di pace dalla A alla Z; ricucire lo strappo con l’Unione Europea e
l’Onu, dopo la scelta unilateralista dell’attacco all’Iraq; far vedere agli
Arabi “alleati” che gli Stati Uniti pensano al loro bene, anche bacchettando il
loro babau di sempre, cioè Israele.
Un appassionato
di politica machiavellica si esalterebbe per Bush. Obbiettivamente, quello che
sta facendo a Israele con la Road Map è mostruoso. Perché come gli Stati Uniti
avevano diritto di difendersi, anche attaccando preventivamente l’Iraq di Saddam
Hussein, anche Israele ha il diritto di difendersi da un’aggressione continua
proveniente da un regime fanatico come quello palestinese.
Come tutti i
compromessi, il compromesso della Road Map appare una via lastricata verso nuove
violenze, nuove guerre, non un modo per salvare la pace.
Dopo la vittoria
anglo-americana in Iraq, era più che necessaria una chiara vittoria israeliana
contro il regime palestinese. Solo così gli Arabi si sarebbero ritenuti
sconfitti e avrebbero accettato di trattare seriamente. Con la super-concessione
della Road Map, invece, gli Americani hanno fatto (inconsapevolmente) il solito
gioco voluto dai leader nazionalisti arabi e dai leader islamici radicali:
capitalizzare politicamente una sconfitta militare. Adesso i nazionalisti arabi
hanno perso un regime ormai in declino, come quello irakeno, per raggiungere uno
dei loro obiettivi più ambiti: uno Stato arabo conficcato dentro il territorio
israeliano. La stessa sensazione di vittoria che possono percepire i radicali
islamici: hanno perso alcune importanti basi in Iraq, per avere a disposizione
altre nuove basi nel promettente (e strategicamente ben collocato) territorio
sovrano palestinese. E il tutto con il consenso internazionale. Bel lavoro:
complimenti!