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Gli ecologisti, la dottrina del rischio zero e Cappuccetto Rosso.
Quanto costa credere alle favole?

di Michele Ferrarini



Ogni giorno capita di sentire previsioni apocalittiche sul futuro della Terra.
Le cassandre ecologiste dipingono ogni giorno uno scenario devastante: il disboscamento avanza, la temperatura atmosferica sta salendo, lentamente ed inesorabilmente a causa dell’effetto serra, le morti per tumore nei paesi industrializzati aumentano a vista d’occhio a causa dell’inquinamento atmosferico.
Come se non bastasse ci si ostina ad usare fonti energetiche suicide come il nucleare, e a produrre cibi geneticamente modificati che, spesso, vengono pure donati ai bambini del terzo mondo con conseguenze non immediate ma sicuramente incalcolabili sul lungo periodo.
Inutile dire che, ricordando che, come diceva Feuerbach “noi siamo quello che mangiamo” e considerando che quello che mangiamo viene ormai da produzioni industriali di affidabilità quantomeno discutibile, sul nostro futuro si stanno addensando nubi foriere di enormi sventure.

Chiunque abbia adesso 25-30 anni è cresciuto con questo incubo: ha iniziato a mangiare omogeneizzati, ha respirato tonnellate di piombo, di benzene, e di altre cose non meglio identificabili, ma comunque sicuramente pericolosissime, ha giocato a pallone sotto la nube radioattiva di Chernobyl.
Ma pur sentendosi destinata a morte certa e orribile, o a sviluppare deformazioni degne forse di un circo ambulante, questa generazione non è poi cresciuta più deforme, malata e sottosviluppata delle altre.
Anzi, avendo avuto probabilmente cure migliori e un’alimentazione più abbondante delle generazioni precedenti, si ostina a godere ancora di una salute invidiabile.

Mosso da questi dubbi, mi è capitato di cercare di cogliere la stringente logica con cui vengono confezionate certe previsioni o motivate certe prese di posizione, visto che presso l’opinione pubblica sembrano godere di un’inossidabile popolarità.
In effetti è un dato di fatto che un atteggiamento catastrofista su problemi ecologici sia fortemente radicato tra i non addetti ai lavori.
Chiunque proponesse (per esempio) a una casalinga di Voghera un lauto compenso per accettare una centrale nucleare nel proprio comune si sentirebbe rispondere, nel caso più fortunato, a insulti.
Chiunque comunicasse ai propri commensali, nel bel mezzo di una cena, che l’aragosta che è stata cucinata è geneticamente modificata, si vedrebbe probabilmente recapitare una denuncia per tentata strage.
Inutile dire che qualsiasi politico italiano ha il terrore di pronunciare parole come transgenico o nucleare, per il terrore dell’inevitabile scomunica laica che si vedrebbe piovere addosso.

Il motivo di tanto religioso odio nei confronti di tecnologie che hanno dato spesso ottimi risultati e che hanno contribuito al benessere della nostra società sta nella convinzione che il nucleare e  il transgenico portino con sé, inevitabilmente, una catena di morti o di disastri ecologici difficilmente prevedibili.
Molto del problema è dato da un fatto. Il pericolo delle radiazioni nucleari, come quello dato dalle modificazioni genetiche fatte sui cibi, non è immediato, né riconoscibile ai non addetti ai lavori.
Oltretutto l’insorgenza di un eventuale tumore dovuto, per esempio, all’esposizione eccessiva alle radiazioni, è un fatto statistico, e quindi la valutazione del rischio effettivo deve essere fatta da esperti, utilizzando metodi e criteri che sfuggono alla comprensione dell’uomo della strada.    
Il risultato è che il cittadino, che pure influenza (giustamente) con il suo giudizio le decisioni politiche, si trova a dover affidare la sua sicurezza a tecnici, e oltretutto a non poter verificare immediatamente gli effetti delle decisioni prese, visto che eventuali mancanze di sicurezza si vedrebbero sempre a lungo termine.
Ovviamente esistono canali di comunicazione che permettono ai tecnici di rendere pubblici i risultati delle valutazioni fatte sulla sicurezza, ma, proprio per la natura statistica e, comunque, complessa di queste valutazioni, niente più dei risultati può essere diffuso risultando comprensibile alle masse.
A questo punto hanno gioco facile gli ecologisti, intendendo per ecologisti non gli studiosi di ecologia, quelli che fanno studi seri sul comportamento degli ecosistemi e sui danni che a volte vengono realmente fatti all’ambiente dalle attività umane, ma quei comunicatori o movimentisti che portano avanti battaglie di piazza e di cultura contro una lunga serie di innovazioni tecnologiche e industriali, sbandierando la loro presunta pericolosità.

Il ragionamento di fondo è molto semplice: riassunto in due righe è :” Le industrie pagano i tecnici per diffondere perizie che garantiscono costi minori per la sicurezza, lucrando così sulla pelle dei cittadini. Le stesse industrie pagano i politici per accettare questa situazione, ma noi vi salveremo, perché noi vi diciamo la verità, non come i tecnici che sono di parte e corrotti”.
E volano valutazioni catastrofiche e terroristiche che vengono puntualmente smentite dalle organizzazioni nazionali e internazionali preposte, ma che vengono immediatamente recepite dall’opinione pubblica, sottoposta un vero bombardamento di luoghi comuni ecologisti.
Nel caso in cui qualche adepto della fede ecologista si sentisse offeso da questa brutale approssimazione e da questa accusa di cattiva fede, non posso che giustificarmi confutando alcuni metodi di valutazione diffusissimi ma, nel migliore dei casi, frutto non di cattiva fede ma di totale ignoranza delle più elementari conoscenze di statistica.

Visto che non è stato possibile provare per i cibi transgenici la loro pericolosità, ma nemmeno la loro totale innocuità, si è inventata la dottrina del “rischio zero”.
Secondo questo punto di vista, non si dovrebbe autorizzare nessuna attività industriale e agricola a cui sia associato un qualsiasi rischio, per quanto piccolo esso sia, e per quanto ingenti potrebbero essere i vantaggi che se ne potrebbero ricavare.

Il fatto (che sfugge ai fautori di questa “teoria”) è che, per quanto impegno ci si possa mettere, nessun attività presenta un rischio nullo, nemmeno le più semplici e ovvie pratiche quotidiane.
Per esempio, ognuno di noi ha una probabilità su un milione di morire colpiti da un fulmine.
Allo stesso modo la probabilità che, nell’arco della vita di un uomo medio, cada sulla  terra un meteorite che ponga fine alla vita di tutti i mammiferi superiori (noi compresi) è di circa uno su un milione: lo stesso la probabilità di morire in un incidente stradale facendo 25 Km.
Quest’ultima probabilità, prendendo tutti i chilometri che un uomo fa nell’arco della sua vita, è per un italiano l’1,3%.
E se, spaventati da questi dati, decidete di non uscire più di casa, ricordatevi che il rischio di morire per un incidente domestico è ancora superiore, e che è pericoloso anche stare seduti davanti alla televisione, considerando che, se avete più di 50 anni, ogni mezz’ora avete una probabilità su un milione di morire per cause naturali come infarti e ictus.
Per quanto riguarda le attività lavorative, un camionista e un tassista hanno una probabilità molto più alta di morire per incidente stradale, esattamente come un muratore rischia ogni giorno con una certa probabilità (purtroppo non bassissima) di morire cadendo da un’impalcatura.
Per non parlare di poliziotti, soldati, o vigili del fuoco.
Il concetto di rischio nullo ha quindi, una credibilità confrontabile a quella di Cappuccetto Rosso, non fosse che viene spacciata come una verità rivelata.
Per quanto riguarda le attività lavorative, per aggirare il problema si fa un ragionamento del tipo: “E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare”.
Non è pensabile un mondo senza poliziotti, senza vigili del fuoco, o  senza case perché fare la professione del  muratore non è a rischio nullo.
Ma nella rozzezza di quella frase di saggezza popolare brilla un concetto di notevole valore, che al giorno d’oggi viene definito più finemente come analisi rischio-beneficio. 
A fronte di una qualsiasi attività che comporti rischi professionali e un impatto ambientale, e quindi potenziali rischi per la vita e la salute delle persone, ci sono dei benefici, che sono in prima analisi economici.
I rischi vanno minimizzati il più possibile, e nessuno come i tecnici del ramo, (qualsiasi esso sia)  sa come limitarli, ma un minimo di rischio c’è sempre.
A fronte di questo rischio ci sono dei benefici economici.

Per comprendere appieno questo concetto bisogna porsi una domanda, spesso aborrita, sfuggita, ma terribilmente reale.
Quanto costa una vita umana?
(Può sembrare orribile, ma è la domanda su cui si basano le assicurazioni.)
Un sano istinto di realismo mi porta a dire che, purtroppo, costa molto poco, e in modo variabile con la persona.
Un grasso cittadino occidentale può costare qualche miliardo, un bambino nigeriano qualche milione, forse meno.
Milioni di persone potrebbero vivere in condizioni migliori se avessero di che nutrirsi o se disponessero dell’assistenza sanitaria più elementare.
Si potrebbe dire che, con poche migliaia di lire di antibiotici o di cibo si potrebbero salvare delle vite, o, nei paesi occidentali, si potrebbero migliorare le condizioni di vita di molte persone.
 

In definitiva, l’analisi delle scelte tra rischi e benefici, in tutti i casi di cui parlano gli ecologisti, andrebbe fatta seriamente, considerando che, fatti salvi dei criteri di sicurezza sul lavoro e di impatto ambientale, la mancata realizzazione di attività economiche per una ricerca isterica di una sicurezza ambientale oltre ogni ragionevolezza porta a danni economici non necessari, o a mancati guadagni, e questi, alla fine, si traducono in minori risorse.
Il problema è che in realtà, da qualsiasi parte si guardi il problema, i soldi, le risorse economiche, sono quelle che ci mantengono in vita.

Purtroppo capita spesso che decisioni politiche in campo ambientale vengano prese anche sotto la pressione di considerazioni non tecniche, ma ecologiste e demagogiche, senza avere una chiara percezione né delle dimensioni reali dei benefici derivanti da certe decisioni, né dei costi che esse prevedono.
Due esempi. Il protocollo di Kyoto e il blocco del nucleare in Italia.
Il primo, che decide una riduzione di qualche punto percentuale delle emissioni di anidride carbonica di molti paesi industrializzati, per far fronte all’effetto serra.
Il problema è che l’anidride carbonica prodotta dall’uomo è meno del 3% di quella in circolo naturalmente (emessa dagli oceani ecc..) e di questa meno di un quinto è prodotto dagli stati che hanno aderito al protocollo di Kyoto.
L’effetto sul bilancio di anidride carbonica è ridicolo, e applicarlo costerà parecchie decine di migliaia di miliardi.
Più o meno la stessa cifra che è costata all’Italia  l’uscita dal nucleare dopo il 1987.
Sui motivi reali di questa scelta si potrebbero scrivere parecchi libri,  ma penso che basti ricordare che tutti i paesi europei hanno una certa percentuale di energia elettrica nucleare e la loro popolazione non sembra soffrine particolarmente.
Si parla di decine di migliaia di miliardi; questo è quanto ci è costato uscire dal nucleare e questo è quanto costerà applicare il protocollo di Kyoto.
Con una cifra simile si è calcolato che si potrebbero risolvere gran parte dei problemi di approvvigionamento idrico di molte popolazioni, e (scusate il populismo dell’argomento) si sarebbero probabilmente potuti mantenere tutti i bambini dei Ruanda fino alla maggiore età.
Con questo non voglio mettere alla berlina le cassandre ecologiste di cui sopra, né tantomeno accusare le associazioni ambientaliste di tentato genocidio, ma almeno vorrei porre una domanda: siamo sicuri che ne valga la pena?

 


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