IL SITO DEGLI OGGETTIVISTI ITALIANI |
Pacifisti, anzi, pacifondai - II parte
di Stefano Doroni
guerra
preventiva o guerra tardiva? Facciamo
un po’ di storia, spicciola ma terribile. Fin dal 1958 il primo ministro
iracheno, Generale Abdel Karim Kassem (al potere grazie a un putsch militare
che aveva rovesciato la monarchia filooccidentale e ucciso il re Feisal II),
sospende la Costituzione e inaugura un regime grazie anche ad aiuti sovietici.
Nel 1963 il partito Baath, una formazione politica nazicomunista, rovescia con
un colpo di Stato il regime del Generale Kassem, deposto e fucilato. Il nuovo
dittatore è il maresciallo Aref. Saddam Hussein, uno spietato gerarca del
partito, comincia la sua ascesa politica. Nel luglio del
1968 l’ala più oltranzista del Baath assume il governo sotto la presidenza di
Ahmed Hassan Bakr. Per undici anni Saddam è il Vice Presidente dell’Iraq: il
suo lavoro è degno dei grandi organizzatori del sistema repressivo sovietico.
Infatti egli crea una struttura estremamente elaborata di polizia segreta con
lo scopo di controllare e reprimere senza pietà tutti i dissidenti. Nelle
maglie di questa rete resta imbrigliato anche Bakr. Nel 1979 Saddam è il
Presidente dell’Iraq. Ovviamente la presa del potere non fa cessare le purghe,
come accade in ogni regime dispotico, poiché il dittatore ha bisogno di
«ripulire» costantemente l’ambiente intorno a sé per garantirsi l’incolumità ed
assicurare la continuità del potere nelle mani di gente fidata. Ogni sospetto
può tramutarsi in condanna a morte. Saddam ha quindi a disposizione vari servizi
segreti che si controllano a vicenda, spiano l’esercito e la popolazione;
assassinano chiunque odiano, ebrei in particolare. Il raìs si accomoda su
questo trono insanguinato e con abilità consumata stritola nel pugno un popolo
oppresso e avvilito. Il regime è
laico, non possiede i connotati fondamentalisti di stati teocratici come il
vicino Iran. Questa caratteristica fa di Saddam, nei primi anni della sua
dittatura, uno strumento che gli USA possono utilizzare in funzione
antiiraniana e antisovietica. Lui, abilmente, ne approfitta per farsene un
merito con l’Occidente e consolidarsi al potere. La guerra contro l’Iran
impazza per 8 anni (dal 1980 al 1988) con alterne vicende. Nel 1988 Saddam
inaugura la guerra chimica, utilizzando il gas nervino contro i Curdi iracheni:
ad Halabja vengono massacrate cinquemila persone. Un dittatore non
ha amici, non conosce la coerenza: ha solo agenti, delatori e nemici. E così
Saddam, lasciato alle spalle il problema Iran, si scatena contro il Kuwait e
contro gli Stati Uniti, accusati di cospirare con gli altri stati arabi per
abbassare il prezzo del petrolio. Il 18 luglio del 1990 il Vice Primo Ministro
iracheno Tarek Aziz accusa apertamente il Kuwait di succhiare il petrolio
iracheno da un campo in prossimità del confine fra i due Stati. Senza por tempo
in mezzo l’Iraq inizia a posizionare migliaia di militari a ridosso del Kuwait.
L’invasione scatta il 2 agosto. L’ONU, con la Risoluzione 660 condanna il gesto
e chiede il ritiro immediato delle truppe dell’aggressore. Tutto in pochi
giorni: è del 6 agosto 1990 la Risoluzione 661 del Consiglio di Sicurezza ONU
che impone l’embargo totale all’Iraq. Ma Saddam proclama l’annessione del
Kuwait, costringendo l’ONU all’approvazione della Risoluzione 678 (29 novembre
1990), con la quale si autorizza l’uso di qualsiasi mezzo necessario ad
espellere le truppe irachene dal Kuwait se lo stato invasore non lascerà i
territori occupati entro il 15 gennaio 1991. Tutti sanno come
andò a finire la guerra del Golfo, iniziata con gli attacchi arei della
coalizione internazionale alla mezzanotte del 16 gennaio 1991. Le ostilità
cessano il 28 febbraio con l’accettazione da parte irachena delle disposizioni
contenute nelle risoluzioni dell’ONU che avevano preceduto il conflitto. Il 3
aprile 1991 viene approvata la Risoluzione 387 che impone all’Iraq una serie di
condizioni. Innanzitutto accettare e rispettare la sovranità del Kuwait. Ma in
particolare dichiarare e distruggere tutti i sistemi missilistici con gittata
superiore a 150 chilometri. Da qui comincia la lunga catena di violazioni delle
disposizioni ONU da parte irachena; da qui comincia la tormentata storia delle
reiterate ispezioni per la verifica del disarmo del regime di Saddam,
ostacolate continuamente dal Raìs. La Commissione
Speciale delle Nazioni Unite per il controllo del disarmo in Iraq (UNSCOM) si
insedia il 17 giugno del 1991. Fin dallo stesso mese l’Iraq inizia a violare
gli accordi del cessate il fuoco perfino sparando contro gli ispettori dell’ONU
e della IAEA (International Atomic Energy Agency) che potrebbero intercettare
trasporti di attrezzature di armi nucleari. Nei mesi e negli
anni seguenti è un accavallarsi di provvedimenti e risoluzioni, minacce delle
Nazioni Unite e intemperanze irachene che continuamente ostacolano o
impediscono il lavoro degli ispettori incaricati di verificare il progredire
del disarmo e di registrare le prove della distruzione delle armi proibite che
il regime deve fornire. Finalmente nel
1996 la Risoluzione 986 dell’ONU consente all’Iraq di vendere il proprio
petrolio – in quantitativi prefissati – e lo obbliga a destinare i proventi
delle vendite a scopi umanitari. Quello che viene chiamato accordo «Oil for
food» (petrolio in cambio di cibo) è una finestra di disponibilità che
l’Occidente apre sull’Iraq, un occhio generoso gettato sulle necessità di una
popolazione stremata dalle atrocità di una dittatura spietata. Ma l’Iraq si
impegna parallelamente in un intensa attività di contrabbando del petrolio, i
cui utili vengono puntualmente investiti negli armamenti, nelle varie spese
necessarie a mantenere gli splendidi palazzi del potere e magari a pagare i
25.000 dollari di premio alle famiglie dei terroristi suicidi islamici. Ma tutto questo
non basta. Nel 1998 si giunge anche all’interruzione delle ispezioni ONU sul
disarmo iracheno. E non certo per colpa delle Nazioni Unite. Già il 29 ottobre
1997 l’Iraq rende pubblica la decisione di impedire a mezzi e uomini USA di
partecipare alle ispezioni dell’ONU e impone agli Statunitensi un ultimatum di 48 ore per lasciare il
paese. È ovvio che il Consiglio di Sicurezza deplori immediatamente questo
comportamento. Ma in seguito i rapporti fra Iraq e ONU riguardo alle ispezioni
risulteranno deteriorati. Di fronte all’ostilità irachena le Nazioni Unite non stracciano
l’accordo «Oil for food» ma non possono nemmeno togliere le sanzioni economiche
a quel paese, viste le frequenti violazioni dei patti di cui Saddam si rende
responsabile. Ma il dittatore si permette comunque di protestare e con il suo
ennesimo gesto clamoroso, il 5 agosto 1998, sospende la cooperazione con gli
ispettori; poco più di un mese dopo, il 9 settembre, l’ONU risponde bloccando
la revisione periodica delle sanzioni economiche. Questa tensione sfocia
nell’operazione «Desert Fox» (16 dicembre 1998), durante la quale gli Stati
Uniti (governati da quel Bill Clinton così caro alla sinistra pacifista)
bombardano per alcuni giorni l’Iraq, dopo che gli ispettori ONU hanno
comunicato che il loro lavoro è stato praticamente bloccato. Dal canto suo l’ONU
non rinuncia al tentativo di riportare in Iraq i suoi ispettori per verificare
il definitivo smantellamento delle armi di distruzione di massa. A questo scopo
il 17 dicembre 1999 il Consiglio di Sicurezza approva la Risoluzione 1284: le
sanzioni potrebbero essere revocate se l’Iraq accetta di riprendere la
collaborazione con l’ONU; ma il regime rifiuta la proposta. In questa occasione
l’ONU istituisce una nuova commissione per la verifica degli armamenti: la
UNMOVIC (United Nations Monitoring Verification and Inspection Commission), a
capo della quale viene posto lo svedese Hans Blix. Per tutto il 2000 e per
tutto il 2001 l’Iraq rifiuta di accettare il ritorno degli ispettori sul
proprio territorio; crescono i fondati sospetti che il regime si stia dando da
fare per incrementare il suo arsenale di armi di distruzione di massa. I
rapporti di intelligence forniscono
informazioni non certo confortanti; nel frattempo il contrabbando di petrolio
continua (in aperta violazione degli accordi internazionali) e le condizioni
del popolo iracheno non migliorano. E venne l’11
settembre. Che alcuni campi di addestramento dei terroristi di Al Qaeda si
trovino in Iraq è sotto gli occhi di tutti; l’appoggio di Saddam al terrorismo
internazionale è altrettanto evidente; così come evidente è la sua arroganza
nel sottrarsi al rispetto dei patti che lo vincolano all’accettazione delle
ispezioni internazionali sui propri armamenti. Solo il 16 settembre 2002, di
fronte al crescere della pressione militare, l’Iraq dichiara di accettare il
ritorno degli ispettori ONU «senza porre condizioni». Ma è ormai il caso di
chiedersi se siano sufficienti ulteriori ispezioni. Gli incaricati infatti non
devono andare a scoprire armi e siti, come i pacifondai più illustri cercano
spesso di far credere, rovesciando la realtà. Gli ispettori dovrebbero
constatare e registrare lo smantellamento delle armi proibite: prove il cui
onere è a carico delle autorità irachene. È dunque ragionevole non fidarsi. Ma il 2002 è
sprattutto l’anno della famosa Risoluzione 1441 dell’ONU, nella quale le
Nazioni Unite pronunciano una parola quasi definitiva sulla crisi irachena.
L’iraq, dopo l’attentato dell’11 settembre, è in cima alla lista degli «Stati
canaglia», cioè dei fiancheggiatori del terrorismo internazionale. Inoltre
secondo Washington l’Iraq, dopo aver interrotto ogni collaborazione con gli
ispettori ONU fin dal 1998, potrebbe aver riavviato la produzione di armi
chimiche e batteriologiche, e magari essere in procinto di acquisire quelle
atomiche (sempre che non abbia già provveduto). La guerra totale al
terrorismo, che l’America non poteva non intraprendere dopo l’orrenda
carneficina dell’11 settembre, porta logicamente per Bush non solo all’attacco
all’Afghanistan ma alla distruzione di quel «axis of evil», di quell’«asse del
male», che sostiene e foraggia il terrorismo internazionale, magari
ingrossandone le fila. Questo
atteggiamento determinato degli USA e dell’Inghilterra, che ormai considerano
necessario un intervento militare in Iraq, spinge l’ONU, che per dodici anni ha
usato il guanto di velluto con il regime di Saddam, evidentemente nella
speranza che un barlume di ragione illuminasse quel governo ad agire nel
rispetto delle risoluzioni internazionali, a varare una ennesima Risoluzione:
appunto la 1441. In questo documento, approvato all’unanimità, si sottolinea lo
stato di aperta violazione degli obblighi conseguenti alla Risoluzione 687 (del
1991) in cui si trova l’Iraq. Questo paese dovrà quindi considerare le gravi
conseguenze che deriveranno dal perseverare in tale stato di inadempienza. Le
ispezioni ONU dovranno perciò riprendere in un «regime rafforzato»; entro 30
giorni dalla data della Risoluzione l’Iraq dovrà fornire dati ufficiali circa
l’entità e la dislocazione dei suoi armamenti chimici, biologici, missilistici
e nucleari, nonché sui programmi di sviluppo degli stessi. Ogni falsa
dichiarazione, così come ogni mancata collaborazione, verranno valutate dal
Consiglio di Sicurezza. Gli ispettori dovranno infatti godere della massima
libertà di spostamento sul territorio iracheno, nessun sito escluso, e dovranno
esser liberi di intervistare qualunque funzionario, scienziato o persona
ritenuta informata quando vorranno e nel luogo che sceglieranno. Essi avranno
il potere di distruggere qualsiasi armamento considerato proibito e chiudere
eventuali impianti che risultino essere destinati alla produzione di armi di
distruzione di massa. Le ispezioni riprenderanno non oltre i 45 giorni dalla
data della Risoluzione, e gli ispettori inizieranno a riferire al Consiglio
dopo 60 giorni. Con questa
tempistica da rispettare, considerando che la Risoluzione 1441 è datata 8
novembre 2002, l’eventuale attacco all’Iraq non potrà aver luogo prima della
fine di febbraio 2003. L’ONU, in sostanza, tenta di mettere un freno
all’esuberanza di USA e Gran Bretagna, evidentemente soppesando i distinguo
importanti di Francia, Germania e Russia, gli stati «pacifisti» che fin da
subito hanno ostacolato l’idea di qualsiasi intervento in Iraq. Infatti questi
tre paesi intendono vincolare qualsiasi azione diretta in Iraq ad un ulteriore
vaglio del Consiglio di Sicurezza, anche in presenza di violazioni palesi delle
prescrizioni della Risoluzione. Insomma: disposti a farsi prendere in giro
all’infinito, come i nostri pacifondai. Gli USA infatti replicano che tale
ulteriore passaggio sarebbe accettabile solo se la decisione del Consiglio
fosse particolarmente rapida. In effetti ogni dilazione fa il gioco del
dittatore di Baghdad. Gli permette cioè di nascondere le sue armi di distruzione
e soprattutto di continuare a tirannizzare il suo popolo; e aumenta inoltre la
sua sensazione di sicurezza e quasi di invulnerabilità, in particolare grazie
alla spalla che gli offre lo sconsiderato pacifismo a senso unico che invade le
piazze del mondo. Ma perché paesi
importanti come la Francia, la Germania e la Russia si oppongono in modo deciso
a qualsiasi intervento in Iraq? Perché rischiano il ridicolo agli occhi delle
persone ragionevoli di tutto il mondo offrendo proroghe all’infinito al lavoro
degli ispettori, con cui l’Iraq dimostra di non collaborare a sufficienza? Bisogna prima di tutto non dimenticare il
residuo ma ancor funzionante brodo di coltura marxista da cui è stata corrotta
la cultura europea del dopoguerra, per cui gli Stati liberi, capitalisti e
democratici hanno sempre torto, anche quando si confrontano per difendere la
propria sicurezza contro qualsiasi interlocutore che capitalista non sia (in
barba al fatto che magari si tratti di una bieca tirannia). Ma questo non
basta. Nel caso di Schroeder bisogna considerare le frange politiche
antiamericane e anticapitaliste che lo hanno portato al cancellierato: la
maggioranza che egli presiede è infatti un connubio rosso-verde che la dice
lunga sulla sua matrice ideologica. E non basta ancora. Per la Francia e Russia
in particolare ci sono questioni, ben più solide, di quattrini, di interessi.
Bisogna infatti sgombrare il campo dall’equivoco della cosiddetta «guerra del
petrolio». Piuttosto che gli USA, chi ha interessi petroliferi notevoli in Iraq
sono proprio la Francia e la Russia. Se fra le compagnie USA la sola Shell ha
interessi iracheni, sui pozzi di Ratawi, sono le altre due nazioni che la fanno
da padrone: in particolare la Francia con Total-Fina ed Elf; e la Russia con
Tatneft, Zarubezhneft e Mashinoimport. Si tratta dunque di salvaguardia dei
propri siti di interesse dalle possibili distruzioni della guerra. Ma per
smitizzare il concetto di «guerra del petrolio» bisogna anche considerare il
quadro internazionale in cui questo conflitto maturerebbe, a favore degli
«sporchi» interessi yankee. Tale quadro non dà affatto ragione ai pacifondai e
ai loro predicatori. Negli ultimi anni proprio la Russia ha aumentato la sua
offerta di petrolio del 25%, diventando
il secondo esportatore mondiale (il primo è l’Arabia Saudita). Inoltre
l’Iraq ha una produttività abbattuta del 20% rispetto a dieci anni fa e lo
sforzo per riportare a quel livello la produzione imporrebbe costi altissimi a
chiunque. C’è infine la nuova tecnica digitale di ricerca dei giacimenti
petroliferi, che ha permesso la scoperta di una grande disponibilità di greggio
in Canada: grazie a questa scoperta le riserve mondiali «sono aumentate di
colpo di 175 miliardi di barili, il 50 % in più delle riserve irachene» (Il Foglio del 24/3/2003). Insomma: il petrolio iracheno non è un così buon
affare per gli USA, mentre lo è stato e potrà continuare ad esserlo per Francia
e Russia, che evidentemente paventano la distruzione dei pozzi ai quali sono
interessate. Ma proprio il tema
del petrolio e degli interessi industriali americani è un punto di forza della
retorica aggressiva dei pacifondai. Tutto contro la verità. Quella indisponente
fanfarona di Naomi Klein, che si gode benessere e notorietà alla faccia di
quelli che hanno comprato il suo No logo,
questa improbabile madonna protettrice dei no-global di tutto il pianeta,
scrive un articolo menzognero e calunnioso sul giornale stalinista Liberazione, il 20 aprile:
«Ricostruzione in Iraq, furto spacciato per carità. Prima di conquistare
bombardano». Tutto secondo le favole pacifondaie: gli USA hanno solo voluto
conquistare l’Iraq, che secondo questa «anima bella» senza alcuna credibilità
sarebbe un paese sovrano retto da un buon padre come Saddam. Gli Americani sono
i cattivi che vogliono «privatizzare» l’industria irachena. È vero che per un
comunista privatizzare vuol dire bestemmiare ma qui si va oltre, a parte il
fatto che un’azione seria di privatizzazione non può che far bene all’economia
irachena in condizione di soffocamento. In quest’articolo si parla della Shell
ma non una parola si spende per gli interessi francesi e russi sul petrolio
iracheno. Anzi no: si dice che la Shell dovrebbe invitare «la francese
Total-Fina per lo sfruttamento dei più lucrosi giacimenti petroliferi». La
Francia sarebbe dunque rimasta a guardare e poi dovrebbe sedere al tavolo dei
vincitori. Complimenti! Ma il fondo, in
tema di guerra per il petrolio, lo ha raggiunto la Rete Lilliput, quel curioso
agglomerato di pacifondai caramellati tanto stucchevoli da somigliare ai «figli
dell’amore eterno» della celebre macchietta di Carlo Verdone, e tanto
brutalmente antiamericani da commettere errori grossolani. E cattolici, non
dimentichiamolo. Con la loro sdolcinata retorica da cattocomunisti, in un manifestino,
invitano il lettore (a cui danno ovviamente del tu, in perfetto linguaggio da
«campo scuola») a boicottare la statunitense Esso, accusata di finanziare la
guerra «sporca» al povero Iraq. Le truppe pacifondaie hanno poi messo in atto
questo invito tagliando le pompe della Esso ed esibendole come trofei in
piazza. Barbarie. Il titolo del manifestino parlava chiaro: «No alla guerra del
petrolio! Se è impossibile fermarla trasformiamola in un pessimo affare per chi
la propugna». È tutto chiaro: il cattivo è ora e sempre Bush. Su Saddam e le
sue malefatte, non una parola. Sulla «guerra
degli interessi amerikani» ci sarebbe ben altro da dire: soprattutto che
lasciare l’Iraq in mano a Saddam non avrebbe certo significato far godere il
popolo iracheno delle ricchezze che dovrebbero venirgli in tasca proprio grazie
al petrolio. Con l’arma della nazionalizzazione – che è sempre un furto ai
danni della gente poiché nega la proprietà individuale – il partito
nazicomunista Baath ha contribuito all’arricchimento della ristretta casta dei
potenti del paese, magari contrabbandando il petrolio anche negli anni
dell’embargo. Per rendere le risorse petrolifere davvero fruibili per il popolo
iracheno la soluzione è privatizzarle, vendere a chi offre di più, magari un
privato straniero, se conviene. Se la guerra sarà servita a liberalizzare il
mercato del petrolio iracheno, sarà stata una benedetta guerra per il petrolio.
E, a parte il petrolio, cosa possiamo dire dell’accordo tra la Francia e il
raìs per la fornitura di ricambi per i Mirage, gli arei da combattimento in
dotazione all’Iraq? E riguardo alla Germania, «da chi Saddam ha comprato le
armi chimiche?», si chiede il
quotidiano Libero il 9 marzo
2003? Soldi, interessi, che alcune potenze europee vedono minacciati da una
guerra in Iraq. Ah già dimenticavo: Libero
è uno sporco giornale fascista, secondo le anime belle che fanno il tifo per
Saddam. Ma ci sono altre
«perle» pacifondaie che non possiamo dimenticare. Una in particolare merita
considerazione. Nel novembre del 2002 è uscito un libretto osceno, grondante
tutta la ringhiosa retorica antiamericana del pacifismo ideologico. Veniva
pubblicato al tempo della Risoluzione 1441 dell’ONU, mentre la guerra sembrava
sempre più probabile. Federica Morrone, la curatice, costruiva dunque una
pubblicazione che si presenta come un vero e proprio manuale del pacifista
antiamericano, del militante marxista in versione riveduta e corretta per i
tempi attuali, dietro l’innocua maschera del piccolo contributo alla
discussione sulla pace. Insomma dietro il solito buonismo strategico, di cui il
libretto gronda fin dal titolo: Regaliamoci
la Pace. L’editore si chiama Nuovi Mondi, magari mondi anticapitalisti, no?
Consiste in un ampia intervista a Tiziano Terzani, uno dei massimi antiamericani
e antioccidentali del mondo intero, a cui fanno seguito una serie di
«contributi per una cultura di pace», che sono un vero e proprio esempio di
pensiero unico sul tema, firmati da penne «rosse» di prima grandezza: da Padre
Benjamin a Don Ciotti fino a Padre Zanotelli (Dio mio quanti preti!); da Sergio
Cofferati a Dario Fo, da Flavio Lotti a Gianni Minà. Proprio quest’ultimo si
abbandona al delirio, accomunando tutte le guerre dei nostri tempi nella
caratteristica generale di essere conflitti combattuti per il controllo «di
tutte le risorse di petrolio e di energia». E prosegue: «I paesi che sono
ricchi di queste risorse invece di goderne sono condannati a morte,
indipendentemente dalla credibilità dei loro governanti». Straordinaria finezza
comunista che consente di far digerire al lettore superficiale un’autentica
vigliaccata: non c’entrano i governanti anche se sono brutali dittatori, ma
conta solo il fatto che quei paesi sono poveri. E la povertà, per i marxisti
irriducibili, è sempre colpa dei capitalisti, mai degli stati totalitari che
strangolano la propria gente. Quindi non sarebbe colpa di Saddam se il popolo
iracheno langue in una così drammatica situazione? Non si sa bene come ma non
può che essere colpa di Bush e dell’Occidente, nel cervello intellettualmente
disonesto di Minà. Dario Fo ci va
giù duro, lapidario: la ragione di questa guerra è brutalmente «l’egemonia
statunitense sul mercato petrolifero mondiale». E poche righe dopo, costretto a
non poter prendere apertamente le difese dei terroristi, scrive che «volendo
vedere il buono dappertutto, possiamo essere contenti della fine del regime
talebano». Come dire che era quasi meglio se restavano a Kabul. Per Saddam vale
lo stesso atteggiamento, visto che gli USA hanno torto per forza: le dittature
per i comunisti sono sempre migliori delle democrazie. Nello stesso
libretto Sergio Cofferati esprime il nulla di cui si riempiono la bocca i
pacifondai: «La guerra non può mai essere lo strumento per risolvere le
controversie tra gli stati. Queste devono essere affrontate con l’azione della
politica e della diplomazia». Il nulla è qui: parlano di politica, di dialogo,
di diplomazia, le anime belle; ma non ti dicono cosa fare concretamente. Quando
la politica e la diplomazia non bastano di fronte alle atrocità, alle violenze
e allo scherno ai danni delle istituzioni internazionali, cosa resta da fare?
Ispezioni all’infinito? Silenzio? Parole al vento? Evidentemente sì: in questo
caso meglio tenere in sella un criminale come Saddam che schierarsi con gli
USA. Del resto i comunisti sono ancora innamorati – anche se a volte
imbarazzati – di Castro e della sua rivoluzione, perché non dovrebbero
preferire Saddam a Bush? E infatti il nucleo comunista della retorica
pacifondaia spunta fuori, alla fine delle argomentazioni di Cofferati:
«affermare una cultura della pace» […] «è forse un modo per far vivere, di
nuovo, una parola che sembrava estinta: utopia». Eccolo qua il brutto mito di
quanti, nella stroria umana, hanno tiranneggiato gli uomini, sparso sangue innocente,
umiliato i diritti della persona: l’utopia; cioè il miraggio della società
perfetta. Nel caso dei comunisti il paradiso in terra dopo aver rimosso Dio e
l’umanità: al loro posto lo Stato e la collettività cieca degli «uomini
sociali» ad esso subordinati. E i preti?
Triste capitolo. I preti si allineano alla propaganda comunista, alla retorica
buonista, alle ragioni dei peggiori. Don Luigi Ciotti, il libretto è sempre il
solito pamphlet antiamericano e antioccidentale, offre un campione significativo
di quella difesa del terrorismo che accomuna molti sbandieratori
dell’arcobaleno. E scrive: «La violenza del terrorismo si argina e si vince
togliendo credibilità alle soluzioni armate» […] «C’è bisogno, infatti, di pace
tra i popoli, ma anche di pace nei popoli, vale a dire di una giustizia
sociale, di una dignità economica, di un progresso culturale e materiale senza
i quali più facilmente si possono alimentare terrorismi e fondamentalismi». L’abilità
di un simile linguaggio sta nel pronunciare parole di per sé incontestabili:
come fanno i potenti occidentali sfruttatori, sembrano dire le anime belle, a
non accorgersi di queste verità? Applausi: delle folle in piazza, dei
giornalisti allineati, degli intellettuali più o meno rossi. Nessuno può negare
che la dignità economica e la giustizia sociale, il progresso culturale e
materiale, siano fondamentali elementi per garantire diritti e dignità alle
persone. Ma ci sono due obiezioni da fare. Innanzitutto la semplice
enunciazione di questi buoni principi non serve a nulla: è troppo vaga, troppo
facile; manca di un aggancio operativo con la realtà. Che significa «togliere
credibilità alle soluzioni armate»? Forse vuol dire far diventare la guerra un
tabù? E come? Magari con una specie di diktat, un dogma, una verità imposta da
questi idllici venditori di utopici paradisi! La guerra fuori legge! Ma per i
fondamentalisti islamici o per i terroristi di casa nostra la guerra rimane il
normale mezzo di affermazione delle proprie ragioni. Noi ci condanniamo dunque
a soccombere, se sottovalutiamo certi pericoli; ma proprio questo vogliono i
preti come Ciotti: che la nostra civiltà – posseduta dal «demone» del
capitalismo e delle libertà individuali – soccomba di nuovo al totalitarismo;
quel totalitarismo che spudoratamente si confessa contrario a come è in realtà.
C’è poi la
questione del progresso dei popoli. Come portare certi miglioramenti a chi non
ne sta godendo? La risposta, nei cervelli di questi personaggi, ci sarebbe:
portare al mondo il vangelo dell’utopia comunista, magari dopo aver tolto di
mezzo il «virus» capitalista. Ma questo non è fare i conti con la realtà: è
violentarla, la realtà. E con essa violentare la storia umana. Trasformarla in
modo coattivo secondo il dogma marxista: sostituire all’esistente la
globalizzazione del collettivismo, che non porta benessere e progresso ma solo
cancellazione della dignità della persona. E poi la giustizia sociale, la
dignità economica e il progresso culturale (quello materiale è una conseguenza
logica di tutto ciò) non sono appannaggio delle dittature, né della cultura
islamica. Nel fatalismo e nell’immobilismo coranici c’è spazio solo per
l’oppressione, la sottomissione, l’accettazione della volontà di Allah, nel
bene e nel male; c’è spazio per la violenza e la negazione dei diritti umani
(delle donne in particolare), per l’odio verso tutto il mondo non islamico.
Mettete insieme una simile cultura - ormai radicata nella gente medioorientale
- con l’esperienza di un bieco e sanguinario regime come quello di Saddam e la
frittata è fatta. Non c’è dialogo che tenga. Del resto abbiamo visto, nei
giorni dopo la caduta del regime di Baghdad, cosa accadeva in Iraq: «grazie
Bush ma ora vattene e lascia spazio all’Islam». Questo gridavano in sostanza
gli iracheni scesi in piazza: legittimo, per carità. Ma spazio all’Islam vuol
dire, inevitabilmente, via libera ad un nuovo regime, magari dissimulato sotto
spoglie democratiche: nell’Oriente arabo non ci sono infatti democrazie vere,
perché non ce ne possono essere dove esiste l’Islam. L’eccezione è Israele. Non
può nascere la democrazia e non può affermarsi la libertà dove impera una
cultura che nega i diritti dell’uomo. Con buona pace dei cattolici illusi e dei
pacifisti indottrinati. Ma l’aspetto più
inquietante dello scritto di Don Ciotti è nella giustificazione antioccidentale
del terrorismo: è facile dire che senza progresso e diritti si possono
alimentare i fanatismi e il terrorismo. In linea di principio è vero: solo che
la colpa della mancanza di progresso e di diritti in paesi come l’Iraq è di
gentaglia come Saddam Hussein. Ma siccome per il popolo pacifista la colpa
delle condizioni in cui versano i popoli medioorientali è dell’Occidente
affamatore che sfrutta le loro risorse per i propri sporchi profitti, ne deriva
che il terrorismo l’ha creato l’America con il suo codazzo di paesi capitalisti
al seguito. Non lo scrive questo, il buon prete, ma sta sotto le sue righe.
Infatti si guarda bene dallo scrivere che se in Medio Oriente si crepa di fame
la colpa è dell’Islam che pensa all’affermazione del Corano nel mondo e per
questo gli Stati si armano alle spalle dei propri popoli, che restano nella
cacca. Ma non importa: la missione di Allah è più importante della vita. Il
prete pacifista non condanna i dittatori, condanna chi cerca di spazzarli via
per la sicurezza propria e del mondo libero. Nello
stesso libretto si sbizzarrisce anche Padre Jean Marie Benjamin, il prete amico
di Saddam, il difensore del boia, una serpe minacciosa avvinta alla caviglia
degli USA e dell’Occidente libero. Ma qualcuno lo ha osservato bene? Ha
riflettuto sul suo stile? Basta guardare ogni tanto Porta a Porta, la trasmissione di Bruno Vespa. Perfino quando le
domande del conduttore, o di altri ospiti in studio, lo inchioderebbero ad una
risposta precisa che non sarebbe comoda per Saddam o per il terrorista di
turno, lui si impelaga in argomentazioni speciose e contorte che portano il
discorso lontano; e inevitabilmente finisce col puntare il dito contro
l’America o l’Occidente che qualche colpa ce l’hanno per il semplice fatto di
esistere. Un esercizio di retorica buonista strappalacrime di infima levatura è
riscontrabile in una sua «poesia» (mi ripugna chiamarla così ma sembra scritta
in versi dal momento che l’autore va a capo quando vuole) dove si piange sui
morti di una parte sola. Hey! Mr
President Ma come fai ad
invocare Dio? Poi, mandi i
bombardieri, ad annientare
questa povera gente. Hey! Mr President, abbiamo ben
capito che siamo tutti
schiavi di Wall Street, Lobby e
Multinazionali. L’ONU e il
Consiglio di Sicurezza, tutti a guardare
e contare i morti, a stare zitti,
ignavi complici, di un genocidio
criminale. Hey! Mr
President Questo si chiama
olocausto. Ci
sono sufficienti parole contro questo imbroglione? «Genocidio criminale»: Bush
assassino, quindi; non una parola, non una, contro il vero assassino, che è
Saddam. Non è «genocidio criminale» far fuori migliaia di innocenti con il gas
nervino? Non è «genocidio criminale» torturare fino alla morte migliaia di
poveracci colpevoli solo di non essere d’accordo con il regime? E queste «buone
azioni» non le ha compiute Bush. Non manca, nell’inno comunista in parte citato
prima, il ritornello del marxismo sempiterno: siamo schiavi dell’economia. «Ah, triste sorte! Bisognerebbe togliere agli uomini la
libertà di intrapresa, e affidare tutto allo Stato, questa è vera giustizia»,
pensa il prete di Saddam. Questa è la morte della persona, diciamo noi; di
quella persona che Benjamin come prete dovrebbe difendere e invece se ne fotte,
perché le pagine del Vangelo (quello di Cristo, non quello di Marx) le usa come
carta igienica. E infine il capolavoro della retorica al veleno, nella parola
magica dell’antifascismo mondiale, usata puntualmente a sproposito:
«olocausto». E naturalmente lo commette Bush, il nuovo Hitler. Qui siamo oltre
ogni possibile sopportazione: ma nessuno, mai nessuno, sbatte simili figuri di
fronte alle loro responsabilità? In tutte queste parole non c’è un accenno a
Saddam, al vero colpevole di tutto. Anzi, Saddam va difeso, Saddam va aiutato
contro le orde USA e Britanniche. Questo è il messaggio: e le truppe
pacifondaie non si fanno pregare nell’accoglierlo, correndo dietro, come nuovi
crociati (loro sì che lo sono), agli appelli vomitati da nuovi «Pietro
l’Eremita» come questo. Terminiamo
la squallida ma istruttiva rassegna con Flavio Lotti, dei Costruttori di Pace.
A me sembrano costruttori di alienazione comunista, di indottrinamento
totalitario. Cosa scrive questo angelico paladino della pace antiamericana?
Cose folli. La condanna del terrorismo deve essere totale.
Non ci devono essere esitazioni né giustificazioni verso tutte le forme di
terrorismo. Ma non servono neanche le condanne a senso unico. Non si può
condannare il terrorismo della disperazione e dimenticare, assolvere o
giustificare il terrorismo di Stato. […] La guerra – e ancor di più la guerra
preventiva di Bush – è illegale perché categoricamente vietata dalla Carta
delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale. Poche
righe, ma sono il cuore della propaganda pacifondaia. Questi concetti li
sentivi ripetere negli slogan che i manifestanti sputavano contro le basi
americane come Camp Darby, e li sentivi sussurrare - fra le file delle
manifestazioni - perfino da omini atteggiati a mitezza e «madonnine infilzate»
ferocemente antiamericane. Concetti aberranti, parole che dovrebbero
scandalizzare e non cadere nel silenzio dell’anestesia in cui spesso langue la
nostra opinione pubblica. Ma come? Condanna totale del terrorismo? E in che
modo, con le parole «alate» delle anime belle? E quali sarebbero le condanne a
senso unico? Ma se sono proprio i pacifisti a condannare a senso unico sempre
una parte sola, cioè l’America! E quale sarebbe il «terrorismo della
disperazione»? Forse quello dei bastardi che si fanno saltare per aria nei bar
israeliani o davanti ai posti di blocco dei marines? E magari quella
«disperazione» è colpa dell’Occidente, vero? Mai colpa di Saddam, dei
dittatori, dei capi religiosi: vigliacchi despoti che sfruttano l’ignoranza e
la povertà della propria gente per i loro (quelli sì) sporchi sogni
imperialisti! No, mai, quelli mai! Quelli sono brave persone! Di loro è
proibito parlare, nei discorsi dei pacifondai! Niet compagni! Si può solo dare
addosso al nemico, e il nemico non è Saddam, non è il terrorismo. Infatti il
caro Lotti, con i suoi amici pacifisti per finta, parla e straparla di
«terrorismo di Stato», naturalmente quello degli USA. Però, che strano: gli
iracheni che festeggiavano perché liberati dalle sgrinfie di Saddam non
sembravano soffrire come fossero sotto le angherie di terroristi. Ma questo
Lotti e compagni non l’hanno visto, non l’hanno voluto vedere, hanno
minimizzato, hanno negato. «Gli iracheni che esultano sono pochi», dice
Pecoraro Scanio (leader dei verdi e pacifondaio) sul Giornale del 10 aprile 2003, il giorno dopo la caduta di Baghdad;
sembra quasi che ce li abbiano portati a forza gli odiati americani davanti
alle telecamere a far finta di esultare. I pacifondai hanno sorriso, con
quell’aria da schiaffi che sembrava sogghignare «noi l’avevamo detto», solo
quando gli alleati occidentali incontravano difficoltà. Il «contributo» scritto
da Lotti sul libretto che stiamo esaminando culmina in una sfacciata falsità.
La guerra – in particolare quella cosiddetta preventiva – non è affatto negata
dalla Carta delle Nazioni Unite. Perché a guardare la realtà senza pregiudizi
ideologici, questa guerra è difensiva. Gli USA, e l’Occidente intero (con buona
pace di chi non ci vuole credere), hanno sulle spalle l’11 settembre. Non sono
più sicuri di fronte alla minaccia del terrorismo internazionale degli
integralisti islamici, alleati naturali dei comunisti BR e ovviamente dei
dittatori mediorientali. Tutti siamo possibili bersagli. Ma, pensano i
pacifondai, «meglio colonizzati dall’Islam che morti», così come ai tempi delle
«sedicenti» Brigate Rosse dicevano «meglio rossi che morti». Ora, secondo la
Carta delle Nazioni Unite, se uno Stato sente minacciata la propria sicurezza
può attuare le misure ritenute necessarie a difendersi, riferendo poi all’Onu
perché l’autorità internazionale possa ristabilire ordine e pace. Nessuno, che
non sia in mala fede, può negare agli USA di trovarsi nella situazione di chi
sente vivo il rischio per la propria sicurezza. Ah già: non bisogna dimenticare
che i pacifondai in mala fede lo sono, e come! Il libretto su cui ci siamo
soffermati, perché ne valeva la pena, potrebbe dunque più opportunamente
intitolarsi: Regaliamoci la pace
antiamericana, regaliamoci la pace marxista. Lasciando
al regno delle utopie e degli imbrogli la vecchia e ringhiosa retorica
pacifondaia, torniamo ad occuparci delle ragioni di questa guerra. Essa era
giusta e inevitabile. Era giusta perché vedeva nazioni libere combattere una
bieca tirannnia. Nessuno può negare che USA e Gran Bretagna riconoscano i
diritti fondamentali degli individui, vale a dire quelli alla vita, alla
libertà e alla proprietà. Una nazione libera e sovrana non può vedersi negato
il diritto di difendere se stessa, magari anche prevenendo azioni violente e
muovendosi quindi contro i responsabili. Se d’altra parte un regime tirannico è
un governo che – indipendetemente da come è giunto al potere – si impossessa
del comando assoluto di uno stato, non permettendo il pacifico avvicendamento
dei governi e negando quei diritti individuali fondamentali che citavamo prima,
non si può non definire tirannia il regime di Saddam Hussein. Una tirannia non
ha il diritto di difendere il suo territorio, non può essere trattata come
fosse un libero Stato sovrano, non può essere accettata come interlocutore
politico e diplomatico. È semmai il popolo sottomesso che ha il diritto di
essere liberato. Ecco perché questa guerra è giusta: perché è più che giusto
togliere di mezzo un dittatore come Saddam. Ma, abbiamo detto, questa guerra è
anche inevitabile, necessaria. Il diritto di agire militarmente, insieme alla
nacessità di farlo, scatta nel momento in cui una Nazione vede minacciata
l’incolumità dei propri cittadini. L’America si trova in queste condizioni.
Sappiamo tutti che in Iraq c’erano molti campi di addestramento dei terorristi
di Al Qaeda; sappiamo tutti – anche se c’è chi vorrebbe negarlo – che Saddam ha
speso montagne di soldi per produrre armi di distruzione che poi ha
puntualmente usato. Segni della sua ferocia e del suo impegno a favore del
terrorismo islamico; senza dimenticare, ovviamente, la cospicua mercede alle
famiglie dei kamikaze. Saddam non è dunque estraneo ai disegni imperialisti
dell’Islam che – tramite il fondamentalismo – cerca di piegare in tutti i modi
l’Occidente al totalitarismo islamico. Non solo dunque gli americani, ma tutti
i cittadini occidentali vanno difesi da un simile pericolo: questa guerra era
dunque un dovere. Andando fino in fondo alla questione dovremmo annche dire che
una guerra come questa poteva essere stata combattuta perfino prima: sono
infatti ormai anni che la minaccia terrorista si fa sentire sempre più
pericolosamente. Ma l’ignavia delle Nazioni Unite, il cui potere decisionale è
tenuto in scacco dalla presenza di regimi tutt’altro che democratici come la
Cina, non l’ha permesso. Rimandare adesso sarebbe stata un’offesa alle vittime
innocenti del terrorismo, sarebbe stata una terribile omissione del dovere di
proteggere i cittadini dalle minacce più gravi che li sovrastano. Ma buona
parte dell’Europa, stesa a scendiletto sotto i piedi dei macellai arabi, ha
rispolverato un mai del tutto sopito antiamericanismo facendo così il gioco di
Saddam. Ancora una volta, e non è certo un male, la nostra futura libertà si
trova in mano agli angloamericani. Meglio così: c’è da sentirsi più sicuri.
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