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IL SITO DEGLI OGGETTIVISTI ITALIANI
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Pacifisti, anzi, pacifondai


di Stefano Doroni


Amici e nemici,
        
         Queste righe sono contro il pacifismo ideologico, cioè contro la strumentalizzazione del nobile ideale della pace a fini politici. Perciò sono righe non contro i pacifisti, perché non erano pacifisti veri quelli che hanno sfilato, urlato, inveito, spaccato vetrine, tagliato recinzioni militari e compiuto altre simili amenità nelle settimane convulse che hanno accompagnato i giorni della guerra irachena all’inizio di questo anno 2003; non erano pacifisti, erano - e sono - piuttosto «pacifondai».  Vale a dire gente che vuole «fondare» un mondo pacificato, non pacifico: un mondo cioè che vive nell’ordine immobile e standardizzato garantito dall’affermazione universale di un’ideologia egualitaria e omologante, che rende ogni uomo simile agli altri perché priva la persona delle sue irripetibili e individuali qualità. Questa ideologia antiumana si chiama comunismo. Marx ne è lo sciagurato padre; criminali come Lenin, Stalin, Mao, Pol Pot, Fidel Castro e compagnia bella ne sono i fedeli realizzatori sul piano politico; molti cattivi maestri dei nostri giorni sono i sacerdoti che tengono viva la fiamma di questa religione senza Dio, resistendo alla storia che fa crollare i suoi mostruosi santuari.

            Il fatto è che oggi, caduto l’impero sovietico e rovinato a terra il muro di Berlino, la predicazione del comunismo ha perduto i luminosi esempi su cui si appoggiava gran parte della sua retorica, che esaltava la solidità della baracca marxista; ormai deve puntare sull’indicazione di presunti pericoli per l’umanità, sulla demonizzazione di ciò che è più distante dall’armamentario mitologico comunista. Ecco perché oggi a sinistra – e quindi anche nel popolo pacifondaio – si insiste tanto sull’antiamericanismo. La civiltà Occidentale, i suoi schemi socio-politici, la sua natura democratica, sono incarnati dagli USA: i comunisti conducono ancor oggi una loro guerra contro questo simbolo che sta lì, unico superstite del mondo bipolare, a testimoniare con la sua presenza la sparizione del suo avversario; sta cioè lì a ricordare la sconfitta dei fondamenti della cultura di sinistra, specialmente di quella più massimalista che ancora apertamente si riconosce nell’ortodossia ideologica. Nel mondo, e in particolare in Italia, la guerra in Iraq ha dunque offerto una ghiotta occasione di rilanciare l’antiamericanismo, e la galassia comunista (che da noi va da Rifondazione ai Comunisti Italiani, ai no-global, ai Verdi, al mondo cattocomunista, raggiungendo la sinistra DS e le macchie rosse della Margherita) è subito scesa in piazza. Ed ecco che è sorto il popolo delle bandiere arcobaleno: pronto ad essere usato, in barba a chi crede davvero in questa squallida messa in scena, come megafono di una propaganda politica ormai vecchia di decenni ma necessariamente ancor nuova e rivoluzionaria per chi si è condannato a vivere nel passato.

A supporto dei messaggi di odio per gli USA, inviati all’opinione pubblica con il solito strattagemma della demonizzazione dell’avversario, i pacifisti hanno fatto ricorso ad un facile e scontato buonismo, sentimentalmente piccolo-borghese, che insiste sulle atrocità della guerra, sulla sofferenza dei deboli, dei bambini, degli innocenti. Morale: fate l’amore non la guerra, slogan anche questo ormai vecchio e stantio. Tutti sappiamo che la guerra è atroce e che la morte è sua compagna di viaggio. Ma nel linguaggio e negli atteggiamenti dei pacifondai risuonava l’orgoglio – e l’arroganza – di essere i soli paladini dei più deboli, delle vittime, degli aggrediti. E così facendo prendevano sostanzialmente le difese di Saddam Hussein; d’altronde per loro chiunque è meglio degli americani. Ad esibire quest’odio divenuto perfida moda, ultima tendenza di un modernariato culturale che sta diventando vecchiume, si sono impegnati tutti: uomini politici, sindacalisti dismessi, sprangatori no-global, teste d’uovo protagoniste di un eterno sessantotto, penne rosse che firmano articoli su giornali stalinisti, migliaia di imbecilli comuni e tanti, troppi preti.

            Dopo il terremoto socio-politico rappresentato dal Concilio Vaticano II perfino larga parte della Chiesa Cattolica ha sconsideratamente abbassato la guardia di fronte al pericolo comunista e ha messo fra parentesi la parte più preziosa della sua tradizione; ha così finito per dimenticare la dimensione provvidente e giudice di Gesù Cristo valorizzando – anche davanti agli occhi dei giovani – solo quella misericordiosa del perdono e della pietà. Dio non lo si teme più; lo si ama come un fratello maggiore, un simpatico capellone post-sessantottino che si fa dare del tu da chiunque. Perduto quindi lo spessore mistico della fede, il passo verso la secolarizzazione della religione e la sua metamorfosi politica è stato molto breve. Il cristianesimo sociale accantona il rapporto intimo e personale con Dio e si concentra sull’attivismo politico; rigetta il livello individuale della fede e promuove esclusivamente quello comunitario. Per questo comunismo e religione ora possono andare d’accordo. Di cattocomunisti – cioè di eretici che credono in un Dio ad una sola dimensione – erano infatti pieni i cortei per la pace che hanno scandito i giorni della guerra contro l’Iraq.

            Il comunismo – dicevamo – è caduto, anche se non dappertutto. Per fare due «piccoli» esempi: in Corea (dove si segue un piano sconsiderato di armamenti nucleari) c’è un regime stalinista mai riformato; a Cuba Fidel Castro elimina ancor oggi gli oppositori alla maniera di Stalin, cioè con rapidi e farseschi processi che si concludono con l’inevitabile esecuzione capitale. Ma i pacifisti non marciano, non berciano, non si incazzano contro questi criminali. Se la prendono solo con l’America, con l’Occidente, magari con l’attuale governo italiano di centrodestra. D’altronde in Italia l’ideologia comunista trova ancora un luogo ideale dove parcheggiare i suoi lugubri sogni in attesa di tempi migliori. Il nostro è stato un paese dove – nel dopoguerra – si è affermato uno dei partiti comunisti più forti del mondo: paghiamo ancora oggi le conseguenze di una simile penetrazione ideologica nelle maglie del nostro tessuto sociale.

            Proprio in Italia il movimento pacifista ha trovato un terreno particolarmente fertile. E siccome – a causa dei trascorsi ideologici di cui parlavamo prima – il nostro paese ospita anche un ben organizzato esercito di no-global, le truppe che si muovono all’ombra delle bandiere arcobaleno si sono ulteriormente ingrossate. I no-global sono quella parte del variegato ma compatto universo comunista che si dedica alla lotta contro la globalizzazione del mondo attuale. Ma attenzione: questi fingono solamente di salvaguardare le ricchezze regionali, economiche e culturali, della razza umana. Fingono solamente di difendere la persona dalla macchina «tritatutto» del mercato (che in realtà costituisce un’opportunità per gli uomini e non una minaccia). Ma in realtà vogliono semplicemente sostituire alla globalizzazione cosiddetta «neoliberista», che è il normale frutto dell’estensione e dell’affermazione storica del modello occidentale (quello che ha resistito e resiste alla prova della storia contrariamente ai sistemi totalitari), la loro globalizzazione, quella che ritengono buona: cioè quella imposta dalla religione comunista, che si manifesta nel collettivismo e nella riduzione della persona al livello di «uomo sociale» (questa sì che è una minaccia).

            Tutti questi signori: comunisti che resistono alla storia, cattocomunisti, no-global, senza dimenticare i baggiani che si fanno fagocitare da improbabili sigle e nomicchi vari ispirati a un pacifismo stucchevole da libro Cuore; tutti questi avevano ben chiaro chi era il loro nemico e chi il loro amico nei brutti momenti che hanno preceduto e immediatamente seguito la guerra in Iraq. L’amico era Saddam Hussein: il dittatore, il criminale, il boia spietato responsabile di eccidi immondi, colui che ha usato senza pietà le armi chimiche contro il suo popolo e che continuava fino a ieri a fabbricare spaventosi strumenti di morte, prendendo in giro gli ispettori dell’ONU (e con loro tutto il mondo civile) che avrebbero dovuto raccogliere le prove del disarmo dell’Iraq secondo le disposizioni delle Nazioni Unite. Il nemico era invece George Bush, cioè il Presidente della più grande democrazia del pianeta, di quegli Stati Uniti che hanno esportato la libertà anche in quell’Europa oggi confusa e nichilista che un tempo fu schiacciata sotto lo stivale nazista. Gli USA, con la loro azione liberatrice, hanno contribuito in modo determinante alla costruzione del moderno Occidente libero e democratico, aperto ai diritti individuali e incline – forse troppo – alla disciplina della tolleranza: in sostanza l’Occidente libero dal comunismo, la terra della speranza verso la quale fuggivano – trovando spesso la morte – i disperati della Berlino sovietica.

Ecco dunque il secondo nemico: l’Occidente intero, con il suo sistema di vita e di pensiero; abbattere quel sistema è la missione principale delle colorate truppe anti-USA, e la farsa del pacifismo è solo uno strattagemma per convincere più gente possibile della bontà delle loro intenzioni. L’obiettivo di distruggere la civiltà libera e democratica dell’Occidente è un traguardo che il mondo comunista condivide con quello islamico del terrore, della jihad. Del resto anche gli islamici hanno una loro globalizzazione da affermare: quella che consiste nell’umiliazione della dignità delle persone da sottomettere – come schiavi senza diritti – al dispotismo di Allah. Come dire: comunista o islamica che sia, si tratta pur sempre di «Internazionale». Totalitarismo politico e totalitarismo religioso vanno a braccetto: almeno finché si faranno comodo a vicenda. È dunque in chiave antioccidentale che si può spiegare il filoarabismo della sinistra: basti pensare all’appiattimento sulle pretese palestinesi e all’odio verso Israele, troppo filoamericano, unica isola democratica in un medio oriente retto da dittature o da dispotici regimi religiosi.

            A livello nazionale, si aggiunge un nemico in più: non solo Bush e il «satana occidentale» ma anche Berlusconi e il suo governo, la sua maggioranza che ha sottratto il potere all’armata brancaleone del centrosinistra. Fedeli alla vocazione totalitaria della loro ideologia gli uomini di sinistra – almeno di quella più massimalista – non hanno accettato l’alternanza di governo; essi infatti, ragionando in termini di potere, pretendono di acquisire definitivamente il diritto – o meglio il privilegio – di amministrare il paese. Inoltre, dal momento che si considerano moralmente superiori a chiunque non condivida le loro idee, considerano qualsiasi cambio nel governo della nazione come un regresso, una perdita di democrazia. Figurarsi poi se l’uomo che ha rotto il loro giocattolino del potere e che popola i loro incubi notturni – appunto Berlusconi – si schiera, coerentemente e coraggiosamente, dalla parte degli USA, permettendo finalmente all’Italia di giocare un ruolo importante nello scacchiere internazionale! Ecco che allora le marce per la pace in Iraq, le manifestazioni colorate e sbraitone, la rabbia dei buonisti, dei giovani indottrinati e dei preti da barricata, diventano materiale per una scorretta battaglia politica. È il classico strattagemma comunista che sposta il confronto politico dai luoghi istituzionali verso la piazza, in mezzo alla massa «catechizzata» che viene elevata al rango di opinione pubblica.

            Ai pacifondai non importava dunque un fico secco dei disgraziati vittime innocenti della guerra in Iraq, come del resto di tutte le guerre. Importava – e importa – attaccare a testa bassa gli USA, l’Occidente, Berlusconi, la destra: insomma, i veri nemici. Questo cinico sfruttamento a fini politici dei drammi umani che la guerra si trascina dietro è saltato agli occhi di tutti quando – a conflitto praticamente finito – la sinistra irriducibile (comunisti, verdi, parte massimalista dei DS) ha votato «no» all’invio degli aiuti umanitari italiani sotto la scorta dei nostri militari, necessari per proteggere proprio la sicurezza di uomini e materiali inviati in Iraq. La scusa era la contrarietà alla missione militare senza il cappello dell’ONU (che ormai, detto per inciso, serve sempre meno alle ragioni della pace): la verità era invece il rifiuto dogmatico di votare un’iniziativa del governo di centrodestra presa, meritoriamente, in modo unilaterale mostrando sollecitudine verso l’emergenza umanitaria di un paese straziato da decenni di ignobile regime.

            Se nel popolo pacifista ci sono alcuni animati da sinceri sentimenti umanitari; se ci sono alcuni profondamente convinti della bontà dei principi del pacifismo assoluto; se ci sono alcuni che credono all’immagine dell’America prepotente che aggredisce i deboli, che sono felici della liquidazione di Saddam ma continuano a pensare che la si poteva ottenere con le bandiere arcobaleno e con le «parole alate» delle anime belle; se queste persone esistono (e credo che esistano) sono un bel gruppo di uomini imbrogliati dal «catechismo» velenoso dei tanti, troppi cattivi maestri che hanno saputo abilmente spacciare la merce falsa del loro buonismo, di un pacifismo che ha fatto e farà sempre il gioco dei dittatori e dei criminali. Non so se mi fanno più rabbia o più pena.

            Perché i pacifisti non hanno aperto bocca quando Saddam Hussein sterminava migliaia e migliaia di Iracheni o di Iraniani con le armi chimiche? Perché non si sono incazzati quando Castro ha fucilato quei disperati che cercavano la libertà nelle coste statunitensi? È un fatto accaduto proprio nei giorni in cui la guerra in Iraq stava finendo. Perché si stracciano le vesti di fronte ai morti e ai mutilati che i media sbattono davanti agli occhi di tutti e sono rimasti in silenzio quando i soliti poveracci morivano lontano dai riflettori, per colpa della violenza di un criminale che le bandiere arcobaleno hanno difeso? Semplicemente perché la sinistra comunista – non perché l’ha detto Berlusconi – subisce il fascino delle dittature: non per le intemperanze di qualche matto isolato, no; ma per inclinazione naturale, per carattere ideologico. Del resto tutto l’armamentario culturale, l’apparato iconografico, il linguaggio del popolo arcobaleno sono comunisti: con consistenti spruzzate di cattolicesimo degenerato nella pratica del cristianesimo sociale.

Ma a guerra finita la sinistra italiana ci ha riservato una sorpresa, forse in parte prevedibile ma comunque rivelatrice della deriva ideologica che accompagna lo sgretolamento del comunismo storico: ebbene la sinistra si è – forse irrimediabilmente – spaccata proprio quando le ragioni dell’emergenza umanitaria si sono scontrate con gli imperativi della battaglia politica. Il gruppo comunista è rimasto arroccato sulle sue posizioni; la parte che si sforza di diventare riformista sul serio non ha ovviamente potuto reagire negativamente alle esigenze di intervento immediato che la tragedia sbatte sul tavolo.

            Non che ci sia da fidarsi molto nemmeno di quella sinistra che si è affrettata a saltare sul carro del vincitore dopo aver sputato veleno su chi ha fatto fuori il boia di Baghdad. Pacifisti in piazza prima, poi di colpo ragionevolmente sensibili alle esigenze contingenti: trasformati repentinamente in saggi esponenti di una matura forza di governo. Ne prendiamo atto con soddisfazione, nutrendo qualche speranza di vedere anche in Italia la nascita di una vera sinistra riformista e moderata. Ma in qualunque momento questi signori potrebbero cedere ancora al fascino del richiamo massimalista, potrebbero essere almeno in parte fagocitati di nuovo nel gorgo torbido dei movimenti di piazza, rapiti una volta di più dalla sbornia degli slogan, tentati dall’itemperanza dello sfogo extraparlamentare. Perché Berlusconi ancora governa, non dimentichiamolo: e lui resta comunque il nemico. La guerra della sinistra italiana continua. Ma speriamo che tutto questo non accada e intanto registriamo una frattura evidente, inequivocabile, tra le due anime della sinistra; forse sarà possibile, in un giorno benedetto, far cadere i muri ideologici che da noi sono ancora in piedi e finalmente ghettizzare quell’ideologia comunista che ancora pretende una immeritata cittadinanza nel mondo civile.

            Intanto queste poche pagine testimoniano gli atteggiamenti, le espressioni, le azioni del popolo pacifista, o meglio pacifondaio. Non si tratta di un diario di guerra, né di un percorso cronologico attraverso i mesi del conflitto. È un volo di uccello sui cortei dei tarantolati antiamericani; è lo sguardo di uno che ha visto da vicino i marciatori della pace antioccidentale; è l’esercizio di lettura di chi ritaglia le pagine dei giornali. In parte è un atto di accusa; in parte è una testimonianza; in parte è un cumulo di riflessioni: senza paura, senza ipocrisie e senza rispetto per chi non lo merita. Gli amici dei pacifondai sono i dittatori, gli amici di chi ama la libertà e la democrazia sono gli USA; i pacifondai glissano colpevolmente sulle malefatte dei terroristi, mentre chi vuole un mondo dove si possa vivere in sicurezza li combatte senza riserve; chi strumentalizza la pace per i propri fini politici manifesta solo quando gli fa comodo, ma chi la ama sa che talvolta la si conquista anche con la lotta, anche con gli orrori della guerra. Con quella guerra che non piace a nessuno; ma a chi la pace la vuole davvero il pacifismo dei pacifondai piace ancora meno.

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