IL SITO DEGLI OGGETTIVISTI ITALIANI |
Pacifisti, anzi, pacifondai
di Stefano Doroni
Il fatto è che oggi, caduto
l’impero sovietico e rovinato a terra il muro di Berlino, la predicazione del
comunismo ha perduto i luminosi esempi su cui si appoggiava gran parte della sua
retorica, che esaltava la solidità della baracca marxista; ormai deve puntare
sull’indicazione di presunti pericoli per l’umanità, sulla demonizzazione di ciò
che è più distante dall’armamentario mitologico comunista. Ecco perché oggi a
sinistra – e quindi anche nel popolo pacifondaio – si insiste tanto
sull’antiamericanismo. La civiltà Occidentale, i suoi schemi socio-politici, la
sua natura democratica, sono incarnati dagli USA: i comunisti conducono ancor
oggi una loro guerra contro questo simbolo che sta lì, unico superstite del
mondo bipolare, a testimoniare con la sua presenza la sparizione del suo
avversario; sta cioè lì a ricordare la sconfitta dei fondamenti della cultura di
sinistra, specialmente di quella più massimalista che ancora apertamente si
riconosce nell’ortodossia ideologica. Nel mondo, e in particolare in Italia, la
guerra in Iraq ha dunque offerto una ghiotta occasione di rilanciare
l’antiamericanismo, e la galassia comunista (che da noi va da Rifondazione ai
Comunisti Italiani, ai no-global, ai Verdi, al mondo cattocomunista,
raggiungendo la sinistra DS e le macchie rosse della Margherita) è subito scesa
in piazza. Ed ecco che è sorto il popolo delle bandiere arcobaleno: pronto ad
essere usato, in barba a chi crede davvero in questa squallida messa in scena,
come megafono di una propaganda politica ormai vecchia di decenni ma
necessariamente ancor nuova e rivoluzionaria per chi si è condannato a vivere
nel passato.
A supporto dei messaggi di odio per gli USA,
inviati all’opinione pubblica con il solito strattagemma della demonizzazione
dell’avversario, i pacifisti hanno fatto ricorso ad un facile e scontato
buonismo, sentimentalmente piccolo-borghese, che insiste sulle atrocità della
guerra, sulla sofferenza dei deboli, dei bambini, degli innocenti. Morale: fate
l’amore non la guerra, slogan anche questo ormai vecchio e stantio. Tutti
sappiamo che la guerra è atroce e che la morte è sua compagna di viaggio. Ma nel
linguaggio e negli atteggiamenti dei pacifondai risuonava l’orgoglio – e
l’arroganza – di essere i soli paladini dei più deboli, delle vittime, degli
aggrediti. E così facendo prendevano sostanzialmente le difese di Saddam Hussein;
d’altronde per loro chiunque è meglio degli americani. Ad esibire quest’odio
divenuto perfida moda, ultima tendenza di un modernariato culturale che sta
diventando vecchiume, si sono impegnati tutti: uomini politici, sindacalisti
dismessi, sprangatori no-global, teste d’uovo protagoniste di un eterno
sessantotto, penne rosse che firmano articoli su giornali stalinisti, migliaia
di imbecilli comuni e tanti, troppi preti.
Dopo il terremoto socio-politico
rappresentato dal Concilio Vaticano II perfino larga parte della Chiesa
Cattolica ha sconsideratamente abbassato la guardia di fronte al pericolo
comunista e ha messo fra parentesi la parte più preziosa della sua tradizione;
ha così finito per dimenticare la dimensione provvidente e giudice di Gesù
Cristo valorizzando – anche davanti agli occhi dei giovani – solo quella
misericordiosa del perdono e della pietà. Dio non lo si teme più; lo si ama come
un fratello maggiore, un simpatico capellone post-sessantottino che si fa dare
del tu da chiunque. Perduto quindi lo spessore mistico della fede, il passo
verso la secolarizzazione della religione e la sua metamorfosi politica è stato
molto breve. Il cristianesimo sociale accantona il rapporto intimo e personale
con Dio e si concentra sull’attivismo politico; rigetta il livello individuale
della fede e promuove esclusivamente quello comunitario. Per questo comunismo e
religione ora possono andare d’accordo. Di cattocomunisti – cioè di eretici che
credono in un Dio ad una sola dimensione – erano infatti pieni i cortei per la
pace che hanno scandito i giorni della guerra contro l’Iraq.
Il comunismo – dicevamo – è
caduto, anche se non dappertutto. Per fare due «piccoli» esempi: in Corea (dove
si segue un piano sconsiderato di armamenti nucleari) c’è un regime stalinista
mai riformato; a Cuba Fidel Castro elimina ancor oggi gli oppositori alla
maniera di Stalin, cioè con rapidi e farseschi processi che si concludono con
l’inevitabile esecuzione capitale. Ma i pacifisti non marciano, non berciano,
non si incazzano contro questi criminali. Se la prendono solo con l’America, con
l’Occidente, magari con l’attuale governo italiano di centrodestra. D’altronde
in Italia l’ideologia comunista trova ancora un luogo ideale dove parcheggiare i
suoi lugubri sogni in attesa di tempi migliori. Il nostro è stato un paese dove
– nel dopoguerra – si è affermato uno dei partiti comunisti più forti del mondo:
paghiamo ancora oggi le conseguenze di una simile penetrazione ideologica nelle
maglie del nostro tessuto sociale.
Proprio in Italia il movimento
pacifista ha trovato un terreno particolarmente fertile. E siccome – a causa dei
trascorsi ideologici di cui parlavamo prima – il nostro paese ospita anche un
ben organizzato esercito di no-global, le truppe che si muovono all’ombra delle
bandiere arcobaleno si sono ulteriormente ingrossate. I no-global sono quella
parte del variegato ma compatto universo comunista che si dedica alla lotta
contro la globalizzazione del mondo attuale. Ma attenzione: questi fingono
solamente di salvaguardare le ricchezze regionali, economiche e culturali, della
razza umana. Fingono solamente di difendere la persona dalla macchina
«tritatutto» del mercato (che in realtà costituisce un’opportunità per gli
uomini e non una minaccia). Ma in realtà vogliono semplicemente sostituire alla
globalizzazione cosiddetta «neoliberista», che è il normale frutto
dell’estensione e dell’affermazione storica del modello occidentale (quello che
ha resistito e resiste alla prova della storia contrariamente ai sistemi
totalitari), la loro globalizzazione, quella che ritengono buona: cioè quella
imposta dalla religione comunista, che si manifesta nel collettivismo e nella
riduzione della persona al livello di «uomo sociale» (questa sì che è una
minaccia).
Tutti questi signori: comunisti
che resistono alla storia, cattocomunisti, no-global, senza dimenticare i
baggiani che si fanno fagocitare da improbabili sigle e nomicchi vari ispirati a
un pacifismo stucchevole da libro Cuore; tutti questi avevano ben chiaro
chi era il loro nemico e chi il loro amico nei brutti momenti che hanno
preceduto e immediatamente seguito la guerra in Iraq. L’amico era Saddam Hussein:
il dittatore, il criminale, il boia spietato responsabile di eccidi immondi,
colui che ha usato senza pietà le armi chimiche contro il suo popolo e che
continuava fino a ieri a fabbricare spaventosi strumenti di morte, prendendo in
giro gli ispettori dell’ONU (e con loro tutto il mondo civile) che avrebbero
dovuto raccogliere le prove del disarmo dell’Iraq secondo le disposizioni delle
Nazioni Unite. Il nemico era invece George Bush, cioè il Presidente della più
grande democrazia del pianeta, di quegli Stati Uniti che hanno esportato la
libertà anche in quell’Europa oggi confusa e nichilista che un tempo fu
schiacciata sotto lo stivale nazista. Gli USA, con la loro azione liberatrice,
hanno contribuito in modo determinante alla costruzione del moderno Occidente
libero e democratico, aperto ai diritti individuali e incline – forse troppo –
alla disciplina della tolleranza: in sostanza l’Occidente libero dal comunismo,
la terra della speranza verso la quale fuggivano – trovando spesso la morte – i
disperati della Berlino sovietica.
Ecco dunque il secondo nemico: l’Occidente
intero, con il suo sistema di vita e di pensiero; abbattere quel sistema è la
missione principale delle colorate truppe anti-USA, e la farsa del pacifismo è
solo uno strattagemma per convincere più gente possibile della bontà delle loro
intenzioni. L’obiettivo di distruggere la civiltà libera e democratica
dell’Occidente è un traguardo che il mondo comunista condivide con quello
islamico del terrore, della jihad. Del resto anche gli islamici hanno una
loro globalizzazione da affermare: quella che consiste nell’umiliazione della
dignità delle persone da sottomettere – come schiavi senza diritti – al
dispotismo di Allah. Come dire: comunista o islamica che sia, si tratta pur
sempre di «Internazionale». Totalitarismo politico e totalitarismo religioso
vanno a braccetto: almeno finché si faranno comodo a vicenda. È dunque in chiave
antioccidentale che si può spiegare il filoarabismo della sinistra: basti
pensare all’appiattimento sulle pretese palestinesi e all’odio verso Israele,
troppo filoamericano, unica isola democratica in un medio oriente retto da
dittature o da dispotici regimi religiosi.
A livello nazionale, si aggiunge
un nemico in più: non solo Bush e il «satana occidentale» ma anche Berlusconi e
il suo governo, la sua maggioranza che ha sottratto il potere all’armata
brancaleone del centrosinistra. Fedeli alla vocazione totalitaria della loro
ideologia gli uomini di sinistra – almeno di quella più massimalista – non hanno
accettato l’alternanza di governo; essi infatti, ragionando in termini di
potere, pretendono di acquisire definitivamente il diritto – o meglio il
privilegio – di amministrare il paese. Inoltre, dal momento che si considerano
moralmente superiori a chiunque non condivida le loro idee, considerano
qualsiasi cambio nel governo della nazione come un regresso, una perdita di
democrazia. Figurarsi poi se l’uomo che ha rotto il loro giocattolino del potere
e che popola i loro incubi notturni – appunto Berlusconi – si schiera,
coerentemente e coraggiosamente, dalla parte degli USA, permettendo finalmente
all’Italia di giocare un ruolo importante nello scacchiere internazionale! Ecco
che allora le marce per la pace in Iraq, le manifestazioni colorate e sbraitone,
la rabbia dei buonisti, dei giovani indottrinati e dei preti da barricata,
diventano materiale per una scorretta battaglia politica. È il classico
strattagemma comunista che sposta il confronto politico dai luoghi istituzionali
verso la piazza, in mezzo alla massa «catechizzata» che viene elevata al rango
di opinione pubblica.
Ai pacifondai non importava
dunque un fico secco dei disgraziati vittime innocenti della guerra in Iraq,
come del resto di tutte le guerre. Importava – e importa – attaccare a testa
bassa gli USA, l’Occidente, Berlusconi, la destra: insomma, i veri nemici.
Questo cinico sfruttamento a fini politici dei drammi umani che la guerra si
trascina dietro è saltato agli occhi di tutti quando – a conflitto praticamente
finito – la sinistra irriducibile (comunisti, verdi, parte massimalista dei DS)
ha votato «no» all’invio degli aiuti umanitari italiani sotto la scorta dei
nostri militari, necessari per proteggere proprio la sicurezza di uomini e
materiali inviati in Iraq. La scusa era la contrarietà alla missione militare
senza il cappello dell’ONU (che ormai, detto per inciso, serve sempre meno alle
ragioni della pace): la verità era invece il rifiuto dogmatico di votare
un’iniziativa del governo di centrodestra presa, meritoriamente, in modo
unilaterale mostrando sollecitudine verso l’emergenza umanitaria di un paese
straziato da decenni di ignobile regime.
Se nel popolo pacifista ci sono
alcuni animati da sinceri sentimenti umanitari; se ci sono alcuni profondamente
convinti della bontà dei principi del pacifismo assoluto; se ci sono alcuni che
credono all’immagine dell’America prepotente che aggredisce i deboli, che sono
felici della liquidazione di Saddam ma continuano a pensare che la si poteva
ottenere con le bandiere arcobaleno e con le «parole alate» delle anime belle;
se queste persone esistono (e credo che esistano) sono un bel gruppo di uomini
imbrogliati dal «catechismo» velenoso dei tanti, troppi cattivi maestri che
hanno saputo abilmente spacciare la merce falsa del loro buonismo, di un
pacifismo che ha fatto e farà sempre il gioco dei dittatori e dei criminali. Non
so se mi fanno più rabbia o più pena.
Perché i pacifisti non hanno
aperto bocca quando Saddam Hussein sterminava migliaia e migliaia di Iracheni o
di Iraniani con le armi chimiche? Perché non si sono incazzati quando Castro ha
fucilato quei disperati che cercavano la libertà nelle coste statunitensi? È un
fatto accaduto proprio nei giorni in cui la guerra in Iraq stava finendo. Perché
si stracciano le vesti di fronte ai morti e ai mutilati che i media sbattono
davanti agli occhi di tutti e sono rimasti in silenzio quando i soliti poveracci
morivano lontano dai riflettori, per colpa della violenza di un criminale che le
bandiere arcobaleno hanno difeso? Semplicemente perché la sinistra comunista –
non perché l’ha detto Berlusconi – subisce il fascino delle dittature: non per
le intemperanze di qualche matto isolato, no; ma per inclinazione naturale, per
carattere ideologico. Del resto tutto l’armamentario culturale, l’apparato
iconografico, il linguaggio del popolo arcobaleno sono comunisti: con
consistenti spruzzate di cattolicesimo degenerato nella pratica del
cristianesimo sociale.
Ma a guerra finita la sinistra italiana ci ha
riservato una sorpresa, forse in parte prevedibile ma comunque rivelatrice della
deriva ideologica che accompagna lo sgretolamento del comunismo storico: ebbene
la sinistra si è – forse irrimediabilmente – spaccata proprio quando le ragioni
dell’emergenza umanitaria si sono scontrate con gli imperativi della battaglia
politica. Il gruppo comunista è rimasto arroccato sulle sue posizioni; la parte
che si sforza di diventare riformista sul serio non ha ovviamente potuto reagire
negativamente alle esigenze di intervento immediato che la tragedia sbatte sul
tavolo.
Non che ci sia da fidarsi molto
nemmeno di quella sinistra che si è affrettata a saltare sul carro del vincitore
dopo aver sputato veleno su chi ha fatto fuori il boia di Baghdad. Pacifisti in
piazza prima, poi di colpo ragionevolmente sensibili alle esigenze contingenti:
trasformati repentinamente in saggi esponenti di una matura forza di governo. Ne
prendiamo atto con soddisfazione, nutrendo qualche speranza di vedere anche in
Italia la nascita di una vera sinistra riformista e moderata. Ma in qualunque
momento questi signori potrebbero cedere ancora al fascino del richiamo
massimalista, potrebbero essere almeno in parte fagocitati di nuovo nel gorgo
torbido dei movimenti di piazza, rapiti una volta di più dalla sbornia degli
slogan, tentati dall’itemperanza dello sfogo extraparlamentare. Perché
Berlusconi ancora governa, non dimentichiamolo: e lui resta comunque il nemico.
La guerra della sinistra italiana continua. Ma speriamo che tutto questo non
accada e intanto registriamo una frattura evidente, inequivocabile, tra le due
anime della sinistra; forse sarà possibile, in un giorno benedetto, far cadere i
muri ideologici che da noi sono ancora in piedi e finalmente ghettizzare quell’ideologia
comunista che ancora pretende una immeritata cittadinanza nel mondo civile.
Intanto queste poche pagine testimoniano gli atteggiamenti, le
espressioni, le azioni del popolo pacifista, o meglio pacifondaio. Non si tratta
di un diario di guerra, né di un percorso cronologico attraverso i mesi del
conflitto. È un volo di uccello sui cortei dei tarantolati antiamericani; è lo
sguardo di uno che ha visto da vicino i marciatori della pace antioccidentale; è
l’esercizio di lettura di chi ritaglia le pagine dei giornali. In parte è un
atto di accusa; in parte è una testimonianza; in parte è un cumulo di
riflessioni: senza paura, senza ipocrisie e senza rispetto per chi non lo
merita. Gli amici dei pacifondai sono i dittatori, gli amici di chi ama la
libertà e la democrazia sono gli USA; i pacifondai glissano colpevolmente sulle
malefatte dei terroristi, mentre chi vuole un mondo dove si possa vivere in
sicurezza li combatte senza riserve; chi strumentalizza la pace per i propri
fini politici manifesta solo quando gli fa comodo, ma chi la ama sa che talvolta
la si conquista anche con la lotta, anche con gli orrori della guerra. Con
quella guerra che non piace a nessuno; ma a chi la pace la vuole davvero il
pacifismo dei pacifondai piace ancora meno.
Amici e nemici,
Queste righe sono contro il pacifismo ideologico, cioè contro la
strumentalizzazione del nobile ideale della pace a fini politici. Perciò sono
righe non contro i pacifisti, perché non erano pacifisti veri quelli che hanno
sfilato, urlato, inveito, spaccato vetrine, tagliato recinzioni militari e
compiuto altre simili amenità nelle settimane convulse che hanno accompagnato i
giorni della guerra irachena all’inizio di questo anno 2003; non erano
pacifisti, erano - e sono - piuttosto «pacifondai». Vale a dire gente che vuole
«fondare» un mondo pacificato, non pacifico: un mondo cioè che vive nell’ordine
immobile e standardizzato garantito dall’affermazione universale di un’ideologia
egualitaria e omologante, che rende ogni uomo simile agli altri perché priva la
persona delle sue irripetibili e individuali qualità. Questa ideologia antiumana
si chiama comunismo. Marx ne è lo sciagurato padre; criminali come Lenin,
Stalin, Mao, Pol Pot, Fidel Castro e compagnia bella ne sono i fedeli
realizzatori sul piano politico; molti cattivi maestri dei nostri giorni sono i
sacerdoti che tengono viva la fiamma di questa religione senza Dio, resistendo
alla storia che fa crollare i suoi mostruosi santuari.
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