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Venezuela: dove i comunisti gettano la maschera

Si continua a dire che il comunismo è morto. Il Venezuela dimostra, invece, che il comunismo è vivo e vegeto. Prima di tutto il Venezuela è governato da un presidente, Hugo Chavez, che è comunista nel senso tradizionale del termine. Una volta eletto ha compiuto tutti quei passi utili a trasformare una società aperta in un Paese totalitario: ha nazionalizzato le industrie, ha ordinato la collettivizzazione delle terre, ha sostituito gli insegnanti (anche quelli delle scuole private) che non rispondevano all'ideologia comunista, ha imbavagliato i media indipendenti scomodi, ha fatto riscrivere i testi scolastici per "educare alla resistenza contro la globalizzazione", ha sostituito i giudici della Corte Suprema con suoi seguaci e infine ha creato delle milizie politiche che rispondono solo a lui e al partito. Le stesse cose, insomma, che erano successe a Cuba e nel Nicaragua dopo la presa del potere da parte dei comunisti, tanto per restare nello stesso continente. Anche la politica estera del Venezuela, rivela chiaramente la natura rivoluzionaria e totalitaria del nuovo regime: l'isolamento dal resto del continente sudamericano, l'alleanza con Cuba, l'uso delle esportazioni petrolifere come arma politica ed economica contro gli Stati Uniti, l'appoggio di movimenti armati comunisti all'estero (soprattutto le FARC in Colombia), l'ospitalità politica concessa a ricercati dall'FBI, l'uso dell'esercito come strumento di indottrinamento della popolazione locale nelle missioni all'estero, sono tutte caratteristiche tipiche della politica estera di un regime comunista. Senza contare che, per realizzare i suoi progetti di "riforma" della società venezuelana, Chavez ha chiesto a Cuba, alla "casa madre", di inviargli consiglieri civili e militari: la stessa cosa che succedeva regolarmente ai tempi dell'Unione Sovietica.


Cosa vuol dire tutto questo? Che nel 2000, a undici anni dalla caduta del muro di Berlino e a nove anni dalla dissoluzione dell'URSS, nell'America Latina, sotto gli occhi degli Stati Uniti, è nato un nuovo regime comunista ortodosso. Ora questo regime è ancora al potere. E non sembra nemmeno un fenomeno isolato, dato che in Brasile, quest'anno, si è insediato al potere un comunista dichiarato, Lula, che non ha ancora incominciato ad agire concretamente, ma le cui dichiarazioni rivoluzionarie fanno temere per il peggio. Il Brasile, è bene ricordarlo, in fatto a risorse e popolazione, è una potenza. Si teme anche per l'Argentina, dove la crisi di uno Stato socialista e protezionista, invece di suscitare nella popolazione un'ondata rivoluzionaria per il libero mercato, sta spingendo alla scelta di regimi paternalistici. Non è da escludersi una futura leadership comunista anche in Argentina, cosa che farebbe cadere nel comunismo buona parte dell'America Latina.


Il comunismo non è affatto morto, il comunismo è vivo e vegeto e nell'America Latina gode anche di perfetta salute. A sostenere che il comunismo sia morto sono solo i media europei, italiani in particolare, perché fa loro comodo. Nel caso del Venezuela, per esempio, non si è sentito un solo giornalista che abbia parlato di regime comunista. Tutti si nascondo dietro a un dito: Chavez è stato eletto democraticamente. Ma cosa vuol dire? Che la presa del potere di un dittatore sia avvenuta in modo pacifico, in seguito a un'elezione regolare, non cambia la natura totalitaria del regime che si è instaurato quattro anni fa in Venezuela. Anche Hitler ha preso il potere grazie a un'elezione democratica regolare, ma non per questo lo si può definire democratico. Resta il fatto che il regime di Chavez in Venezuela è un regime totalitario comunista, con tutte le caratteristiche per definirlo come tale: giudici non neutrali, controllo dei media, monopolio politico (ancora tendenziale, ma notevole) e controllo totale delle risorse economiche. L'unica differenza che ancora rimane fra il Venezuela e un regime comunista totalitario, come Cuba o la Corea del Nord, è che il regime che si è instaurato in Venezuela è ancora giovane e relativamente debole. Debole perché Chavez è, fortunatamente per i venezuelani, un incapace: ha tentato di nazionalizzare con la forza i sindacati, seguendo l'esempio di Castro, ma non vi è riuscito; ha tentato di censurare completamente i media, ma non vi riesce; compie passi azzardati che non risultano popolari a nessuna organizzazione del Paese, con il risultato che, di volta in volta, si tira tutti contro. Quello del Venezuela è un regime debole anche nel senso che nella società civile venezuelana ci sono ancora gruppi e organizzazioni che non sono ancora controllati dal governo e che vi si oppongono. E c'è una larga maggioranza dell'opinione pubblica che non si rassegna all'idea di finire sotto un regime totalitario, di trovarsi di fronte all'alternativa di piegare umilmente la testa o di scappare su un boat people nei Carabi, di tacere o di rischiare il carcere e la tortura. E resistendo a questo futuro, scende in piazza apertamente e sciopera, rischiando il piombo delle bande armate governative. Una prima insurrezione, in aprile, è fallita. L'esercito aveva appoggiato gli insorti in un primo momento, ma poi ha ritirato il suo appoggio (molto probabilmente per mancanza di solidarietà internazionale alla causa dell'insurrezione) facendo cadere, dopo soli due giorni, il governo democratico provvisorio. Ma il solo fatto che l'esercito abbia partecipato, anche solo per 24 ore, all'insurrezione, ha fatto sì che quella rivolta popolare, che ha coinvolto milioni di persone, venisse bollata come "golpe", sia dalle veline del dittatore comunista venezuelano, sia dalla stampa occidentale per una volta sola unanime. Solo che la popolazione locale non si è rassegnata a un destino comunista e in queste settimane, a otto mesi dal "golpe" ha incominciato uno sciopero generale. Questa volta si tratta di milioni di lavoratori, "proletari", "salariati", che scioperano. Allo sciopero si sono uniti anche i giornalisti, imbavagliati dalla censura del regime. Non ci sono militari che intendono prendere il potere. Anzi: lo Stato Maggiore venezuelano ha appena dichiarato la sua fedeltà al regime. Quindi, questa volta, non si può proprio parlare di "golpe", non si può fingere di non vedere: è una popolazione intera (l'80% dei lavoratori ha aderito allo sciopero) che si sta ribellando a un dittatore, indipendentemente dal suo ceto o dalla sua razza. Si assiste a qualcosa di simile alla "rivoluzione di velluto" cecoslovacca del 1989, alla decennale lotta di Solidarnosc contro il regime di Jaruzelski in Polonia: tutti quei casi, insomma, dove una popolazione intera si è opposta a un regime comunista al potere.


E' in casi come questi che i comunisti gettano la maschera e parlano fuori dai denti, o agiscono secondo la loro natura: con la forza bruta. Il regime di Chavez, come tutti i regimi comunisti, non ammette che i proletari scioperino contro il loro stesso paradiso. E così ha fatto sparare sulla folla dalle sue milizie politiche, ha fatto distruggere le sedi dei media non di regime e ha fatto occupare dalle truppe le pompe di benzina in sciopero. Si è anche arrivati a vedere scene di abbordaggi di petroliere i cui equipaggi erano in sciopero, a cui sono seguiti arresti in massa. Ora Chavez promette di licenziare tutti coloro che non lavorano e minaccia "ogni mezzo necessario" per ristabilire la "legalità". Il regime di Chavez ha gettato la sua maschera e si è fatto vedere per quello che è.


Il problema è anche da noi in Italia. In relazione al Venezuela, la maggioranza assoluta dei nostri giornalisti e opinionisti, che finora hanno sempre negato la natura comunista e totalitaria del regime venezuelano e che hanno liquidato facilmente come "golpe" la rivolta popolare dello scorso aprile, adesso gridano stizziti contro gli operai che osano scioperare contro il presidente comunista. Qualcuno, con immensa spocchia, ha paragonato lo sciopero generale a "quattro negozianti di Montenapoleone (da notare il riferimento alla via più chic di Milano) che incrociano le braccia contro il governo." Ai telegiornali si sente spesso parlare dello sciopero, come di una "minaccia alla legalità", un "ostacolo al lavoro del presidente", un "pericolo di colpo di Stato contro il presidente democraticamente eletto". Oppure non si sente niente: molti giornalisti, imbarazzati nel vedere contestare dal basso un loro esempio di regime no-global realizzato, preferiscono non parlarne. Non è un caso che del Venezuela si parli poco o nulla sulle nostre testate nazionali, nonostante sia un Paese di primaria importanza strategica, essendo una delle principali riserve petrolifere nel mondo. Anche la maggioranza dei nostri giornalisti ha gettato la sua maschera e si è fatta vedere per quella che è.
E poi dicono che il comunismo è morto.

 

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