APRILE 1814
 

 


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È una canzone incompiuta, composta in seguito alla caduta di Napoleone dopo la battaglia di Lipsia e alla cacciata degli austriaci dall'Italia.


Fin che il ver fu delitto, e la Menzogna
     Corse gridando, minacciosa il ciglio:
     «Io son sola che parlo, io sono il vero»,
     Tacque il mio verso, e non mi fu vergogna.
     5 Non fu vergogna, anzi gentil consiglio;
     Chè non è sola lode esser sincero,
     Nè rischio è bello senza nobil fine.
     Or che il superbo morso
     Ad onesta parola è tolto alfine,
     10 Ogni compresso affetto al labbro è corso;
     Or s’udrà ciò che, sotto il giogo antico,
     Sommesso appena esser potea discorso
     Al cauto orecchio di provato amico.

Toglier lo scudo de le Leggi antique
     15 E le da lor create, e il sacro patto
     Mutar come si muta un vestimento;
     O non mutate non serbarle, e inique
     Farle serbar benchè segrete, e in atto
     Di chi pensa, tacendo, al tradimento;
     20 E novi statuir padri alla legge,
     E, perchè amici ai buoni,
     Sperderli a guisa di spregiato gregge:
     Questi de’ salvatori erano i doni;
     Questo dicean fondarne a civil vita;

     25 Qual se Italia, al chiamar d’esti Anfioni,
     Fosse dei boschi e de le tane uscita.

Anzi, fatta da lor donna e reina
     La salutaro, o fosse frode o scherno:
     D’armi reina, io dico, e di consigli;
     30 Essa che ai piè de la imperante inchina
     Stavasi, e fea di sue ricchezze eterno
     Censo agli estrani, e de gli estrani ai figli;
     Che regger si dovea con l’altrui cenno;
     Che ogni anno il suo tesoro
     35 Su l’avara ponea lance di Brenno.
     È ver; tributo nol dicean costoro,
     Men turpe nome il vincitor foggiava.
     Ma che monta, per Dio! Terra che l’oro
     Porta, costretta, allo straniero, è schiava.

E svelti i figli ai genitor dal fianco,
     E aprir loro le porte, ed esser padre
     Delitto, e quasi anco i sospir nocenti;
     E tratti in ceppi, e noverati a branco,
     Spinti ad offesa d’innocenti squadre
     45 Con cui meglio starieno abbracciamenti.
     Oh giorni! oh campi che nomar non oso!
     Deh! per chi mai scorrea
     Quel sangue onde il terren vostro è fumoso?
     O madri orbate, o spose, a chi crescea
     50 Nel sen custode ogni viril portato?
     Era tristezza esser feconde, e rea
     Novella il dirvi: un pargoletto è nato!

Nè gente or voglio cagionar dei mali
     Che lo stesso bevea calice d’ira,
     55  Nè infonder tosco ne le piaghe aperte;
     Ma dico sol ch’è da pensar da quali
     Strette il perdono del Signor ne tira,
     Perchè sien maggior grazie a Lui riferte.
     Chè quando eran più l’onte aspre ed estreme,
     60  E, al veder nostro, estinto

     Ogni raggio parea d’umana speme;
     Allor fuor de la nube arduo ed accinto,
     Tuonando, il braccio salvator s’è mostro;
     Dico che Iddio coi ben pugnanti ha vinto;
     65  Che a ragion si rallegra il popol nostro.

Bel mirar da le inospiti latebre
     Giovin raminghi al sospirato tetto
     Correr securi, ed a le braccia pie;
     E quei che in ferri astrinse ed in tenebre
     70  L’odio potente, un motto od un sospetto
     Al soavi tornar colloquj e al die;
     E un favellar di gioja e di speranza,
     E su le fronti scolta
     De’ concordi pensier l’alma fidanza;
     75  E il nobil fior de’ generosi a scolta
     Durar ne l’armi e vigilar, mostrando
     Con che acceso voler la patria ascolta
     Quando libero e vero è il suo dimando;

E quel che a dir le sue ragioni or chiama
     80  Lunge da basso studio e da contesa,
     Parlar per lei com’ella è desiosa,
     E l’antica far chiara itala brama;
     Che sarà, spero, a quei possenti intesa
     Cui par che piaccia ogni più nobil cosa.
     85  Vedi il drappello che al governo è sopra,
     Animoso e guardingo,
     Al ben di tutti aver rivolta ogni opra;
     E i ministri di Dio dal mite aringo
     Nel dritto calle ragunar la greggia.
     90  Molte e gran cose in picciol fascio io stringo.
     Ma qual parlar sì belle opre
pareggia?              

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