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CANTO TREDICESIMO
[ Riassunto ]
1
Ma cadde a pena in cenere l'immensa machina espugnatrice de la mura, che 'n sé novi argomenti Ismen ripensa perché piú resti la città secura; onde a i Franchi impedir ciò che dispensa lor di materia il bosco egli procura, onde contra Sion battuta e scossa torre nova rifarsi indi non possa.
2
Sorge non lunge a le cristiane tende tra solitarie valli alta foresta, foltissima di piante antiche, orrende, che spargon d'ogni intorno ombra funesta. Qui, ne l'ora che 'l sol piú chiaro splende, è luce incerta e scolorita e mesta, quale in nubilo ciel dubbia si vede se 'l dí a la notte o s'ella a lui succede.
3
Ma quando parte il sol, qui tosto adombra notte, nube, caligine ed orrore che rassembra infernal, che gli occhi ingombra di cecità, ch'empie di tema il core; né qui gregge od armenti a' paschi, a l'ombra guida bifolco mai, guida pastore, né v'entra peregrin, se non smarrito, ma lunge passa e la dimostra a dito.
4
Qui s'adunan le streghe, ed il suo vago con ciascuna di lor notturno viene; vien sovra i nembi, e chi d'un fero drago, e chi forma d'un irco informe tiene: concilio infame, che fallace imago suol allettar di desiato bene a celebrar con pompe immonde e sozze i profani conviti e l'empie nozze.
5
Cosí credeasi, ed abitante alcuno dal fero bosco mai ramo non svelse; ma i Franchi il violàr, perch'ei sol uno somministrava lor machine eccelse. Or qui se 'n venne il mago, e l'opportuno alto silenzio de la notte scelse, de la notte che prossima successe, e suo cerchio formovvi e i segni impresse.
6
E scinto e nudo un piè nel cerchio accolto, mormorò potentissime parole. Girò tre volte a l'oriente il volto, tre volte a i regni ove dechina il sole, e tre scosse la verga ond'uom sepolto trar de la tomba e dargli il moto sòle, e tre co 'l piede scalzo il suol percosse; poi con terribil grido il parlar mosse:
7
-- Udite, udite, o voi che da le stelle precipitàr giú i folgori tonanti: sí voi che le tempeste e le procelle movete, abitator de l'aria erranti, come voi che a le inique anime felle ministri sète de li eterni pianti; cittadini d'Averno, or qui v'invoco, e te, signor de' regni empi del foco.
8
Prendete in guardia questa selva, e queste piante che numerate a voi consegno. Come il corpo è de l'alma albergo e veste, cosí d'alcun di voi sia ciascun legno, onde il Franco ne fugga o almen s'arreste ne' primi colpi, e tema il vostro sdegno. -- Disse, e quelle ch'aggiunse orribil note, lingua, s'empia non è, ridir non pote.
9
A quel parlar le faci, onde s'adorna il seren de la notte, egli scolora; e la luna si turba e le sue corna di nube avolge, e non appar piú fora. Irato i gridi a raddoppiar ei torna: -- Spirti invocati, or non venite ancora? onde tanto indugiar? forse attendete voci ancor piú potenti o piú secrete?
10
Per lungo disusar già non si scorda de l'arti crude il píú efficace aiuto; e so con lingua anch'io di sangue lorda quel nome proferir grande e temuto, a cui né Dite mai ritrosa o sorda né trascurato in ubidir fu Pluto. Che sí?... che sí?... -- Volea piú dir, ma intanto conobbe ch'esseguito era lo 'ncanto.
11
Venieno innumerabili, infiniti spirti, parte che 'n aria alberga ed erra, parte di quei che son dal fondo usciti caliginoso e tetro de la terra; lenti e del gran divieto anco smarriti, ch'impedí loro il trattar l'arme in guerra, ma già venirne qui lor non si toglie e ne' tronchi albergare e tra le foglie.
12
Il mago, poi ch'omai nulla piú manca al suo disegno, al re lieto se 'n riede: -- Signor, lascia ogni dubbio e 'l cor rinfranca ch'omai secura è la regal tua sede, né potrà rinovar piú l'oste franca l'alte machine sue come ella crede. -- Cosí gli dice, e poi di parte in parte narra i successi de la magica arte.
13
Soggiunse appresso: -- Or cosa aggiungo a queste fatte da me ch'a me non meno aggrada. Sappi che tosto nel Leon celeste Marte co 'l sol fia ch'ad unir si vada, né tempreran le fiamme lor moleste aure, o nembi di pioggia o di rugiada, ché quanto in cielo appar, tutto predice aridissima arsura ed infelice;
14
onde qui caldo avrem qual l'hanno a pena gli adusti Nasamoni o i Garamanti. Pur a noi fia men grave in città piena d'acque e d'ombre sí fresche e d'agi tanti, ma i Franchi in terra asciutta e non amena già non saranlo a tolerar bastanti; e pria dómi dal cielo, agevolmente fian poi sconfitti da l'egizia gente.
15
Tu vincerai sedendo, e la fortuna non cred'io che tentar piú ti convegna. Ma se 'l circasso alter che posa alcuna non vuole e, benché onesta, anco la sdegna, t'affretta come sòle e t'importuna, trova modo pur tu ch'a freno il tegna, ché molto non andrà che 'l Cielo amico a te pace darà, guerra al nemico. --
16
Or questo udendo il re, ben s'assecura, sí che non teme le nemiche posse. Già riparate in parte avea le mura che de' montoni l'impeto percosse; con tutto ciò non rallentò la cura di ristorarle, ove sian rotte o smosse. Le turbe tutte, e cittadine e serve, s'impiegan qui: l'opra continua ferve.
17
Ma in questo mezzo il pio Buglion non vòle che la forte cittade in van si batta, se non è prima la maggior sua mole ed alcuna altra machina rifatta. E i fabri al bosco invia che porger sòle ad uso tal pronta materia ed atta. Vanno costor su l'alba a la foresta, ma timor novo al suo apparir gli arresta.
18
Qual semplice bambin mirar non osa dove insolite larve abbia presenti, o come pave ne la notte ombrosa, imaginando pur mostri e portenti, cosí temean, senza saper qual cosa siasi quella però che gli sgomenti, se non che 'l timor forse a i sensi finge maggior prodigi di Chimera o Sfinge.
19
Torna la turba, e misera e smarrita varia e confonde sí le cose e i detti ch'ella nel riferir n'è poi schernita, né son creduti i mostruosi effetti. Allor vi manda il capitano ardita e forte squadra di guerrieri eletti, perché sia scorta a l'altra e 'n esseguire i magisteri suoi le porga ardire.
20
Questi, appressando ove lor seggio han posto gli empi demoni in quel selvaggio orrore, non rimiràr le nere ombre sí tosto, che lor si scosse e tornò ghiaccio il core. Pur oltra ancor se 'n gian, tenendo ascosto sotto audaci sembianti il vil timore; e tanto s'avanzàr che lunge poco erano omai da l'incantato loco.
21
Esce allor de la selva un suon repente che par rimbombo di terren che treme, e 'l mormorar de gli Austri in lui si sente e 'l pianto d'onda che fra scogli geme. Come rugge il leon, fischia il serpente, come urla il lupo e come l'orso freme v'odi, e v'odi le trombe, e v'odi il tuono: tanti e sí fatti suoni esprime un suono.
22
In tutti allor s'impallidír le gote e la temenza a mille segni apparse, né disciplina tanto o ragion pote ch'osin di gire inanzi o di fermarse, ch'a l'occulta virtú che gli percote son le difese loro anguste e scarse. Fuggono al fine; e un d'essi, in cotal guisa scusando il fatto, il pio Buglion n'avisa:
23
-- Signor, non è di noi chi piú si vante troncar la selva, ch'ella è sí guardata ch'io credo (e 'l giurerei) che in quelle piante abbia la reggia sua Pluton traslata. Ben ha tre volte e piú d'aspro diamante ricinto il cor chi intrepido la guata; né senso v'ha colui ch'udir s'arrischia come tonando insieme rugge e fischia. --
24
Cosí costui parlava. Alcasto v'era fra molti che l'udian presente a sorte: l'uom di temerità stupida e fera, sprezzator de' mortali e de la morte; che non avria temuto orribil fèra, né mostro formidabile ad uom forte, né tremoto, né folgore, né vento, né s'altro ha il mondo piú di violento.
25
Crollava il capo e sorridea dicendo: -- Dove costui non osa, io gir confido; io sol quel bosco di troncar intendo che di torbidi sogni è fatto nido. Già no 'l mi vieterà fantasma orrendo né di selva o d'augei fremito o grido, o pur tra quei sí spaventosi chiostri d'ir ne l'inferno il varco a me si mostri. --
26
Cotal si vanta al capitano, e tolta da lui licenza il cavalier s'invia; e rimira la selva, e poscia ascolta quel che da lei novo rimbombo uscia, né però il piede audace indietro volta ma securo e sprezzante è come pria; e già calcato avrebbe il suol difeso, ma gli s'oppone (o pargli) un foco acceso.
27
Cresce il gran foco, e 'n forma d'alte mura stende le fiamme torbide e fumanti; e ne cinge quel bosco, e l'assecura ch'altri gli arbori suoi non tronchi e schianti. Le maggiori sue fiamme hanno figura di castelli superbi e torreggianti, e di tormenti bellici ha munite le rocche sue questa novella Dite.
28
Oh quanti appaion mostri armati in guardia de gli alti merli e in che terribil faccia! De' quai con occhi biechi altri il riguarda, e dibattendo l'arme altri il minaccia. Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda, qual di leon che si ritiri in caccia, ma pure è fuga; e pur gli scote il petto timor, sin a quel punto ignoto affetto.
29
Non s'avide esso allor d'aver temuto, ma fatto poi lontan ben se n'accorse; e stupor n'ebbe e sdegno, e dente acuto d'amaro pentimento il cor gli morse. E, di trista vergogna acceso e muto, attonito in disparte i passi torse, ché quella faccia alzar, già sí orgogliosa, ne la luce de gli uomini non osa.
30
Chiamato da Goffredo, indugia e scuse trova a l'indugio, e di restarsi agogna. Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse o gli ragiona in guisa d'uom che sogna. Diffetto e fuga il capitan concluse in lui da quella insolita vergogna, poi disse: -- Or ciò che fia? forse prestigi son questi o di natura alti prodigi?
31
Ma s'alcun v'è cui nobil voglia accenda di cercar que' salvatichi soggiorni, vadane pure, e la ventura imprenda e nunzio almen piú certo a noi ritorni. -- Cosí disse egli, e la gran selva orrenda tentata fu ne' tre seguenti giorni da i piú famosi; e pur alcun non fue che non fuggisse a le minaccie sue.
32
Era il prence Tancredi intanto sorto a sepellir la sua diletta amica, e benché in volto sia languido e smorto e mal atto a portar elmo o lorica, nulla di men, poi che 'l bisogno ha scorto, ei non ricusa il rischio o la fatica, ché 'l cor vivace il suo vigor trasfonde al corpo sí che par ch'esso n'abbonde.
33
Vassene il valoroso in sé ristretto, e tacito e guardingo, al rischio ignoto, e sostien de la selva il fero aspetto e 'l gran romor del tuono e del tremoto; e nulla sbigottisce, e sol nel petto sente, ma tosto il seda, un picciol moto. Trapassa, ed ecco in quel silvestre loco sorge improvisa la città del foco.
34
Allor s'arretra, e dubbio alquanto resta fra sé dicendo: -- Or qui che vaglion l'armi? Ne le fauci de' mostri, e 'n gola a questa devoratrice fiamma andrò a gettarmi? Non mai la vita, ove cagione onesta del comun pro la chieda, altri risparmi, ma né prodigo sia d'anima grande uom degno; e tale è ben chi qui la spande.
35
Pur l'oste che dirà, s'indarno i' riedo? qual altra selva ha di troncar speranza? Né intentato lasciar vorrà Goffredo mai questo varco. Or s'oltre alcun s'avanza, forse l'incendio che qui sorto i' vedo fia d'effetto minor che di sembianza; ma seguane che pote. -- E in questo dire, dentro saltovvi. Oh memorando ardire!
36
Né sotto l'arme già sentir gli parve caldo o fervor come di foco intenso; ma pur, se fosser vere fiamme o larve, mal poté giudicar sí tosto il senso, perché repente a pena tocco sparve quel simulacro, e giunse un nuvol denso che portò notte e verno; e 'l verno ancora e l'ombra dileguossi in picciol ora.
37
Stupido sí, ma intrepido rimane Tancredi; e poi che vede il tutto cheto, mette securo il piè ne le profane soglie e spia de la selva ogni secreto. Né piú apparenze inusitate e strane, né trova alcun fra via scontro o divieto, se non quanto per sé ritarda il bosco la vista e i passi inviluppato e fosco.
38
Al fine un largo spazio in forma scorge d'anfiteatro, e non è pianta in esso, salvo che nel suo mezzo altero sorge, quasi eccelsa piramide, un cipresso. Colà si drizza, e nel mirar s'accorge ch'era di vari segni il tronco impresso, simili a quei che in vece usò di scritto l'antico già misterioso Egitto.
39
Fra i segni ignoti alcune note ha scorte del sermon di Soria ch'ei ben possede: -- O tu che dentro a i chiostri de la morte osasti por, guerriero audace, il piede, deh! se non sei crudel quanto sei forte, deh! non turbar questa secreta sede. Perdona a l'alme omai di luce prive: non dée guerra co' morti aver chi vive. --
40
Cosí dicea quel motto. Egli era intento de le brevi parole a i sensi occulti: fremere intanto udia continuo il vento tra le frondi del bosco e tra i virguiti, e trarne un suon che flebile concento par d'umani sospiri e di singulti, e un non so che confuso instilla al core di pietà, di spavento e di dolore.
41
Pur tragge al fin la spada, e con gran forza percote l'alta pianta. Oh meraviglia! manda fuor sangue la recisa scorza, e fa la terra intorno a sé vermiglia. Tutto si raccapriccia, e pur rinforza il colpo e 'l fin vederne ei si consiglia. Allor, quasi di tomba, uscir ne sente un indistinto gemito dolente,
42
che poi distinto in voci: -- Ahi! troppo -- disse -- m'hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti. Tu dal corpo che meco e per me visse, felice albergo già, mi discacciasti: perché il misero tronco, a cui m'affisse il mio duro destino, anco mi guasti? Dopo la morte gli aversari tuoi, crudel, ne' lor sepolcri offender vuoi?
43
Clorinda fui, né sol qui spirto umano albergo in questa pianta rozza e dura, ma ciascun altro ancor, franco o pagano, che lassi i membri a piè de l'alte mura, astretto è qui da novo incanto e strano, non so s'io dica in corpo o in sepoltura. Son di sensi animati i rami e i tronchi, e micidial sei tu, se legno tronchi. --
44
Qual l'infermo talor ch'in sogno scorge drago o cinta di fiamme alta Chimera, se ben sospetta o in parte anco s'accorge che 'l simulacro sia non forma vera, pur desia di fuggir, tanto gli porge spavento la sembianza orrida e fera, tal il timido amante a pien non crede a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.
45
E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso da vari affetti che s'agghiaccia e trema, e nel moto potente ed improviso gli cade il ferro, e 'l manco è in lui la tema. Va fuor di sé: presente aver gli è aviso l'offesa donna sua che plori e gema, né può soffrir di rimirar quel sangue, né quei gemiti udir d'egro che langue.
46
Cosí quel contra morte audace core nulla forma turbò d'alto spavento, ma lui che solo è fievole in amore falsa imago deluse e van lamento. Il suo caduto ferro intanto fore portò del bosco impetuoso vento, sí che vinto partissi; e in su la strada ritrovò poscia e ripigliò la spada.
47
Pur non tornò, né ritentando ardio spiar di novo le cagioni ascose. E poi che giunto al sommo duce unio gli spirti alquanto e l'animo compose, incominciò: -- Signor, nunzio son io di non credute e non credibil cose. Ciò che dicean de lo spettacol fero e del suon paventoso, è tutto vero.
48
Meraviglioso foco indi m'apparse, senza materia in un istante appreso, che sorse e dilatando un muro farse parve, e d'armati mostri esser difeso. Pur vi passai, ché né l'incendio m'arse, né dal ferro mi fu l'andar conteso. Vernò in quel punto ed annottò; fe' il giorno e la serenità poscia ritorno.
49
Di piú dirò: ch'a gli alberi dà vita spirito uman che sente e che ragiona. Per prova sollo; io n'ho la voce udita che nel cor flebilmente anco mi suona. Stilla sangue de' tronchi ogni ferita, quasi di molle carne abbian persona. No, no, piú non potrei (vinto mi chiamo) né corteccia scorzar, né sveller ramo. --
50
Cosí dice egli, e 'l capitano ondeggia in gran tempesta di pensieri intanto. Pensa s'egli medesmo andar là deggia (che tal lo stima) a ritentar l'incanto, o se pur di materia altra proveggia lontana piú, ma non difficil tanto. Ma dal profondo de' pensieri suoi l'Eremita il rappella, e dice poi:
51
-- Lascia il pensier audace: altri conviene che de le piante sue la selva spoglie. Già già la fatal nave a l'erme arene la prora accosta e l'auree vele accoglie; già, rotte l'indegnissime catene, l'aspettato guerrier dal lido scioglie; non è lontana omai l'ora prescritta che sia presa Sion, l'oste sconfitta. --
52
Parla ei cosí, fatto di fiamma in volto, e risuona piú ch'uomo in sue parole. E 'l pio Goffredo a pensier novi è vòlto, ché neghittoso già cessar non vòle. Ma nel Cancro celeste omai raccolto apporta arsura inusitata il sole, ch'a i suoi disegni, a i suoi guerrier nemica, insopportabil rende ogni fatica.
53
Spenta è del cielo ogni benigna lampa; signoreggiano in lui crudeli stelle, onde piove virtú ch'informa e stampa l'aria d'impression maligne e felle. Cresce l'ardor nocivo, e sempre avampa piú mortalmente in queste parti e in quelle; a giorno reo notte piú rea succede, e dí peggior di lei dopo lei vede.
54
Non esce il sol giamai, ch'asperso e cinto di sanguigni vapori entro e d'intorno non mostri ne la fronte assai distinto mesto presagio d'infelice giorno; non parte mai che in rosse macchie tinto non minacci egual noia al suo ritorno, e non inaspri i già sofferti danni con certa tema di futuri affanni.
55
Mentre li raggi poi d'alto diffonde, quanto d'intorno occhio mortal si gira, seccarsi i fiori e impallidir le fronde, assetate languir l'erbe rimira, e fendersi la terra e scemar l'onde, ogni cosa del ciel soggetta a l'ira, e le sterili nubi in aria sparse in sembianza di fiamme altrui mostrarse.
56
Sembra il ciel ne l'aspetto atra fornace né cosa appar che gli occhi almen ristaure: ne le spelonche sue Zefiro tace, e 'n tutto è fermo il vaneggiar de l'aure; solo vi soffia (e par vampa di face) vento che move da l'arene maure, che, gravoso e spiacente, e seno e gote co' densi fiati ad or ad or percote.
57
Non ha poscia la notte ombre piú liete, ma del caldo del sol paiono impresse, e di travi di foco e di comete e d'altri fregi ardenti il velo intesse. Né pur misera terra, a la tua sete son da l'avara luna almen concesse sue rugiadose stille, e l'erbe e i fiori bramano indarno i lor vitali umori.
58
Da le notti inquiete il dolce sonno bandito fugge, e i languidi mortali lusingando ritrarlo a sé no 'l ponno; ma pur la sete è il pessimo de' mali, però che di Giudea l'iniquo donno con veneni e con succhi aspri e mortali piú de l'inferna Stige e d'Acheronte torbido fece e livido ogni fonte.
59
E il picciol Siloè, che puro e mondo offria cortese a i Franchi il suo tesoro, or di tepide linfe a pena il fondo arido copre e dà scarso ristoro; né il Po, qualor di maggio è piú profondo, parria soverchio a i desideri loro, né 'l Gange o 'l Nilo, allor che non s'appaga de' sette alberghi, e 'l verde Egitto allaga.
60
S'alcun giamai tra frondeggianti rive puro vide stagnar liquido argento, o giú precipitose ir acque vive per alpe o 'n piaggia erbosa a passo lento, quelle al vago desio forma e descrive e ministra materia al suo tormento, ché l'imagine lor gelida e molle l'asciuga e scalda e nel pensier ribolle.
61
Vedi le membra de' guerrier robuste, cui né camin per aspra terra preso, né ferrea salma onde gír sempre onuste, né domò ferro a la lor morte inteso, ch'or risolute e dal calore aduste giacciono a se medesme inutil peso; e vive ne le vene occulto foco che pascendo le strugge a poco a poco.
62
Langue il corsier già sí feroce, e l'erba che fu suo caro cibo a schifo prende, vacilla il piede infermo, e la superba cervice dianzi or giú dimessa pende; memoria di sue palme or piú non serba, né piú nobil di gloria amor l'accende: le vincitrici spoglie e i ricchi fregi par che quasi vil soma odii e dispregi.
63
Languisce il fido cane, ed ogni cura del caro albergo e del signor oblia, giace disteso ed a l'interna arsura sempre anelando aure novelle invia; ma s'altrui diede il respirar natura perché il caldo del cor temprato sia, or nulla o poco refrigerio n'have, sí quello onde si spira è denso e grave.
64
Cosí languia la terra, e 'n tale stato egri giaceansi i miseri mortali, e 'l buon popol fedel, già disperato di vittoria, temea gli ultimi mali; e risonar s'udia per ogni lato universal lamento in voci tali: -- Che piú spera Goffredo o che piú bada, sí che tutto il suo campo a morte cada? --
65
Deh! con quai forze superar si crede gli alti ripari de' nemici nostri? onde machine attende? ei sol non vede l'ira del Cielo a tanti segni mostri? de la sua mente aversa a noi fan fede mille novi prodigi e mille mostri, ed arde a noi cosí che minore uopo di refrigerio ha l'Indo e l'Etiopo.
66
Dunque stima costui che nulla importe che n'andiam noi, turba negletta, indegna, vili ed inutil alme, a dura morte, perch'ei lo scettro imperial mantegna? Cotanto dunque fortunata sorte rassembra quella di colui che regna, che ritener si cerca avidamente a danno ancor de la soggetta gente?
67
Or mira d'uom c'ha il titolo di pio providenza pietosa, animo umano: la salute de' suoi porre in oblio per conservarsi onor dannoso e vano; e veggendo a noi secchi i fonti e 'l rio, per sé l'acque condur fa dal Giordano, e fra pochi sedendo a mensa lieta, mescolar l'onde fresche al vin di Creta. --
68
Cosí i Franchi dicean; ma 'l duce greco, che 'l lor vessillo è di seguir già stanco, -- Perché morir qui? -- disse -- e perché meco far che la schiera mia ne vegna manco? Se ne la sua follia Goffredo è cieco, siasi in suo danno e del suo popol franco; a noi che noce? -- E senza tòr licenza, notturna fece e tacita partenza.
69
Mosse l'essempio assai, come al dí chiaro fu noto; e d'imitarlo alcun risolve. Quei che seguír Clotareo ed Ademaro e gli altri duci ch'or son ossa e polve, poi che la fede che a color giuraro ha disciolto colei che tutto solve, già trattano di fuga, e già qualcuno parte furtivamente a l'aer bruno.
70
Ben se l'ode Goffredo e ben se 'l vede, e i piú aspri rimedi avria ben pronti, ma gli schiva ed aborre; e con la fede che faria stare i fiumi e gir i monti, devotamente al Re del mondo chiede che gli apra omai de la sua grazia i fonti: giunge le palme, e fiammeggianti in zelo gli occhi rivolge e le parole al Cielo:
71
-- Padre e Signor, s'al popol tuo piovesti già le dolci rugiade entro al deserto, s'a mortal mano già virtú porgesti romper le pietre e trar del monte aperto un vivo fiume, or rinnovella in questi gli stessi essempi; e s'ineguale è il merto, adempi di tua grazia i lor difetti, e giovi lor che tuoi guerrier sian detti. --
72
Tarde non furon già queste preghiere che derivàr da giusto umil desio, ma se 'n volaro al Ciel pronte e leggiere come pennuti augelli inanzi a Dio. Le accolse il Padre eterno, ed a le schiere fedeli sue rivolse il guardo pio; e di sí gravi lor rischi e fatiche gli increbbe, e disse con parole amiche:
73
-- Abbia sin qui sue dure e perigliose aversità sofferte il campo amato, e contra lui con armi ed arti ascose siasi l'inferno e siasi il mondo armato. Or cominci novello ordin di cose, e gli si volga prospero e beato. Piova; e ritorni il suo guerriero invitto, e venga a gloria sua l'oste d'Egitto. --
74
Cosí dicendo, il capo mosse; e gli ampi cieli tremaro e i lumi erranti e i fissi, e tremò l'aria riverente, e i campi de l'oceano, e i monti e i ciechi abissi. Fiammeggiare a sinistra accesi lampi fur visti, e chiaro tuono insieme udissi. Accompagnan le genti il lampo e 'l tuono con allegro di voci ed alto suono.
75
Ecco súbite nubi, e non di terra già per virtú del sole in alto ascese, ma giú del ciel, che tutte apre e disserra le porte sue, veloci in giú discese: ecco notte improvisa il giorno serra ne l'ombre sue, che d'ogni intorno ha stese. Segue la pioggia impetuosa, e cresce il rio cosí che fuor del letto n'esce.
76
Come talor ne la stagione estiva, se dal ciel pioggia desiata scende, stuol d'anitre loquaci in secca riva con rauco mormorar lieto l'attende, e spiega l'ali al freddo umor, né schiva alcuna di bagnarsi in lui si rende, e là 've in maggior fondo ei si raccoglia, si tuffa e spegne l'assetata voglia;
77
cosí gridando, la cadente piova che la destra del Ciel pietosa versa, lieti salutan questi; a ciascun giova la chioma averne non che il manto aspersa: chi bee ne' vetri e chi ne gli elmi a prova, chi tien la man ne la fresca onda immersa, chi se ne spruzza il volto e chi le tempie, chi scaltro a miglior uso i vasi n'empie.
78
Né pur l'umana gente or si rallegra e dei suoi danni a ristorar si viene, ma la terra, che dianzi afflitta ed egra di fessure le membra avea ripiene, la pioggia in sé raccoglie e si rintegra, e la comparte a le piú interne vene, e largamente i nutritivi umori a le piante ministra, a l'erbe, a i fiori;
79
ed inferma somiglia a cui vitale succo le interne parti arse rinfresca, e disgombrando la cagion del male, a cui le membra sue fur cibo ed esca, la rinfranca e ristora e rende quale fu ne la sua stagion piú verde e fresca; tal ch'obliando i suoi passati affanni le ghirlande ripiglia i lieti panni.
80
Cessa la pioggia al fine e torna il sole, ma dolce spiega e temperato il raggio, pien di maschio valor, sí come sòle tra 'l fin d'aprile e 'l cominciar di maggio. Oh fidanza gentil, chi Dio ben cole, l'aria sgombrar d'ogni mortale oltraggio, cangiare a le stagioni ordine e stato, vincer la rabbia de le stelle e 'l fato.
EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Torquato Tasso - Gerusalemme liberata",
a cura di Lanfranco Caretti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979
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