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il dante testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere storiche in prosa e versi,
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Tradotto da Francesco Personi
I
[ Dante Alighieri a Giovanni del Virgilio ]
Vedemmo in ner su bianco foglio impressi
Carmi, dal sen delle Pierie suore
Dolcemente spremuti, e a noi diretti.
Io stava a caso allor con Melibeo
Sotto una quercia, le pasciute capre
Annoverando: e Melibeo bramava
Meco sciogliere il canto. E che vuol Mopso,
Titiro mio, che vuol? sponlomi, disse.
Rideami, o Mopso, ed ei più sempre instava
Vinto alfin dal mio amor per lui, frenando
A stento il riso: che vaneggi, o stolto?
Chieggon più tosto te le tue caprette,
Che son la tua cura, dissi; sebben molto
La scarsa cena da pensar ti dia.
Tu ignori i paschi, i quai Menalo adombra
Celando il sol con la sua cima, pinti
A color varii di mill'erbe e fiori.
Un ruscelletto umìl sotto le frondi
De' salici nascosto, che dall'acque
Nate in cima del monte da se stesso
Strada si fe', per cui vassene lento
Irrigando le rive dalla fonte,
Con le sue linfe perenni lo circonda.
In questi Mopso, mentre i buoi sen vanno
scherzando per le molli erbette, lieto
Degli uomin l'opre, e degli Dei contempla.
Quindi racchiude nelle gonfie canne
Gl'interni gaudii sì, che il dolce canto
Seguon gli armenti; giù dal monte al piano
Ammansati i leon corrono; indietro
Tornano i fiumi, e le foreste e i monti
Di Menalo inchinar soglion la fronte.
Allor rispose: O Titiro, se Mopso
In erbe ignote a me canta sovente,
Indicandomi tu, suoi carmi ignoti
Alle erranti mie capre insegnar posso.
Che potea farmi sì focosa istanza?
Mopso ai monti d'Aonia, o Melibeo,
Mentre dettan nel foro altri le leggi,
Da ben lunga stagion donò se stesso,
E impallidì del sacro bosco all'ombra.
Bagnato egli dell'acque, onde i poeti
Han vita, e pieno di canoro latte
Le viscere e la gola, all'alma fronde
Prodotta in riva di Penèo m'invita.
Or che farai, rispose? Andrai pastore
Pe' paschi ognor privo di lauro il crine?
O Melibeo, de' vati il serto e il nome
Stesso è svanito, e il vigilante Mopso
Tal le Muse formar seppero a pena.
Io avea ciò detto, quando in cotal guisa
Parlò il mio sdegno: Quanto i colli e i prati
Rumor faran, se in verdeggiante chioma
Desterò con la cetra inni febei?
Ma pavento le selve, e insiem de' Numi
Le scordevoli ville. E non fia meglio,
Ch'io m' orni e copra sotto il trionfale
Serto le chiome, ove alla patria io torni,
Che saran bianche, e bionde eran su l'Arno?
Ed ei: Chi'l porrà in forse? Or dunque guarda,
Titiro mio, sì come il tempo vola:
Imperocchè invecchiar già le caprette,
Che noi demmo per madri a figliar gl'irchi.
A cui risposi: quando celebrati
Fian dal mio canto i corpi che s'aggirano
Intorno al mondo, ed i celesti spirti,
Sì come or sono di sotterra i regni;
Allor mi gioverà d'edra e di lauro
Cigner la fronte. Che il conceda Mopso?
Che Mopso, l'altro allor? Non vedi lui
Disapprovar le comiche parole,
Sì perchè suonan quai comuni e basse
Dal labbro femminil, sì perchè n'have
Rossor di accorle il buon castalio Coro?
Tal diei risposta, e i versi tuoi rilessi,
O Mopso. Quegli allor strinse le spalle,
E disse: Or che farem per distor Mopso?
Meco ho, risposi, quella che tu sai
Pecorella carissima, che a pena
Al peso regge delle mamme, tanto
Di latte abbonda. Or sotto una gran balza
Stassi l'erbe pasciute ruminando:
A nessun gregge unita ella, a nessuno
Ovile accostumata, da sè suole
Alla secchia venir senza oprar verga.
Or questa aspetto a munger prontamente:
Di questa n'empierò dieci vaselli,
E manderolli a Mopso. Ma tu intanto
Studia aver cura de' lascivi capri,
E aver buon dente a roder l'altrui pane.
Così sotto una quercia Melibeo,
Ed io con lui cantava, mentre il farro
La piccola capanna a noi cocea.
II
[ Dante Alighieri a Giovanni del Virgilio ]
Spogliato già de' velli aurei di Coleo
Traeva il chiaro sol l'agile Eoo
E seco gli altri corridori alati.
L'orbita allor, che a declinar dall'alto
Incominciò, dall'una all'altra parte
Tenea le rote eguali, e la splendente
Vampa, che vinta suol esser dall'ombre,
L'ombre vinceva, e fea bollir le ville.
Titiro e Melibeo, di sè e del gregge
Pietade avendo, rifuggir per questo
Nella selva di frassini, di tigli,
E di platani densa: e mentre l'agne
E la capretta in un miste e confuse
Si riposan su l'erba, e respirando
Van per le nari, qui Titiro il vecchio
A un sonnifero odor lasso attendea
Sotto l'ombra d'un acero, e appoggiato
Stava a un nodoso bastoncel, dal ceppo
Svelto d'un pero, perchè Alfesibeo
Pur favelasse, il qual sì prese a dire:
Che l'alme umane agli astri, onde fur tratte
I corpi ad informar, faccian ritorno:
Che ai cigni lieti pel temprato cielo,
E per la valle paludosa, piaccia
Empir de' canti loro il bel Caistro;
Che uniscansi del mare i pesci, e quando
Ne' confini di Nereo entrano i fiumi,
Lascino il mar; che il Caucaso di sangue
Sozzin l'ircane tigri, e con sue squame,
Che il libico serpente ari il terreno,
Stupore alcun non prendo, poichè suole,
O Titiro, ciascuno aver diletto
Di seguir ciò, ch'è al viver suo conforme:
Ma ben mi maraviglio, e meco tutti
Gli altri pastori siculi, che a Mopso
Gli aridi sassi aggradin de' Ciclopi
Là presso l'Etna. Avea egli detto, e in quella
Già caldo, e tardo per l'ansante gola
Melibeo sopraggiunge: ed ecco, o Titiro,
A stento pronunciò. Risero i vecchi
Al suon giovanil, quanto i Sicani
Trar veggendo Sergesto dallo scoglio.
Quindi il canuto crin dal verde cespo
Alzato il vecchio, a lui che respirava
A larghe nari, disse: O giovin troppo,
Qual mai novella occasion ti spigne
Ad affannar con sì veloce corso
I mantici del petto? Egli a rincontro
Nulla rispose: ma com'ebbe unita
Alle tremule labbra la sampogna,
Che in man tenea, da lei giunse agli orecchi
Solo un semplice fischio. Quando poi
S'affatica il fanciul, perchè dia voce
(Mirabil cosa narrerò, ma vera)
La sampogna mandò fuor questo carme:
"Viveami a piè degli irrigati colli
E se Titiro avesse oltre a tre soffi
Animate le canne, avria lenito
Con cento versi i mutoli cultori,
Come ben avvisossi Alfesiben,
Il qual rivolto a Titiro con questi
Detti il rampogna: O venerando veglio,
Oserai tu lasciar le rugiadose
Campagne di Peloro, e del ciclope
Girne allo speco? Ed ei: Di che paventi?
A che mi vai carissimo, tentando?
Ripiglia Alfesibeo: Non senti come
Si fa la tibia per virtù del Nume
Canora, e pari alle già nate avene
Dal mormorio, che palesò le sconce
Tempie del Rege, il qual di Bromio al cenno
Del Pattòlo indorar potè l'arena?
O fortunato veglio, non dar fede
Alla falsa lusinga, che ti chiama
Al lito dagli etnei sassi coverto.
Delle Ninfe del loco e del tuo gregge
Pietà ti prenda. Te lontano i nostri
Colli, le selve, i fiumi piangeranno,
E con meco le driadi ancor temendo
Peggiori cose, e avrà l'invidia fine
Che lo stesso Pachino oggi ci porta:
Nè men sarà l'averti conosciuto
A noi pastor di doglie. O fortunato
Veglio, deh non voler le fonti e i paschi
Dal tuo nome immortal già resi illustri
Abbandonar. Titiro allor rispose:
O più che la metà di questo seno
Meritamente (e il proprio sen toccossi)
Mopso congiunto a me con pari affetto,
Mercè di quelle dee, che paurose
Dal mal saltante Pireneo fuggiro
Del Rubicon su la sinistra riva,
Pensando, ch'io del Po stommi alla destra
Nel suolo u' con Romagna Adria confina,
Mi va del lido etneo lodando i paschi;
E non sa, che noi due qui su l'erboso
Ce ne viviam siciliano monte,
Di cui non v'ha nella Trinacria tutta
A nutrir greggi e armenti il più fecondo.
Ma quantunque non sieno al verdeggiante
Peloro da anteporsi i sassi d'Etna,
Io m'andrei nondimeno a trovar Mopso,
Lasciando il gregge qui, s'io non temessi
Te, Polifemo. E Alfesibeo: Chi mai
In orror non avrà quel Polifemo,
Uso di sangue uman lordarsi il ceffo,
Ahi! fin d'allor, che Galatea lo vide
Le viscere sbranar del misero Aci?
Ella appena scampò. Forse d'amore
Valse punto il poter, mentre tant'oltre
Giunse la bestial rabbia? E ond'è, che a stento
Achemenide l'alma ritenere
Potè, scorgendol sanguinoso tutto
Pel macello crudel de' socii suoi?
Ah, ti prego, mia vita, non ti prema
Voglia sì fiera, ch'abbia il Reno, e quella
Naiade sua cotesto illustre capo,
Cui già lo sfrondator sceglier si affretta
Del sacro lauro le perpetue frondi.
Titiro sorridendo, e divenuto
Favorevole appieno, i saggi detti
Tacito ricevè del gran pastore.
Ma perchè l'aria i bei destrier del sole
Tanto chini fendean, che l'ombra loro
Di gran lunga vincea tutte le cose,
I pastori attergaronsi ai lor greggi,
Lasciando i boschi e la già fredda valle.
Dai molli prati avean fatto ritorno
L'irsute capre, e se ne giano innanzi.
Quivi non lunge intanto erasi ascoso
L'astuto Iola, il qual notò ogni cosa,
Ogni cosa ridisseci. Egli a noi,
E noi, o Mopso, a te la dimostrammo.
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