LETTERATURA ITALIANA :     ANALISI DEL NOVECENTO

CARLO  LEVI

Nato a Torino nei 1902, Carlo Levi si è laureato in medicina, manifestando però ben presto spiccati interessi politici: frequentò Piero Gobetti e scrisse su «Rivoluzione liberale» e sul «Baretti», fu tra i fondatori a Parigi del movimento di Giustizia e Libertà, venne più volte incarcerato e nel 1935-36 confinato per motivi politici in Lucania: in Cristo si è fermato a Eboli ha descritto appunto questa esperienza. Accompagnando l'attività dì scrittore a quella di pittore, ha pubblicato nel 1950 L'orologio, che - più vicino dell'opera precedente alle strutture del genere romanzesco - costituisce un bilancio lucidamente critico della società italiana dell'immediato dopoguerra. Negli scritti raccolti nel volume Le parate stano pietre (1955), reportages di alto livello di viaggi e incontri in Sicilia, sono fermamente denunziate la violenza e l'offesa della dignità umana perpetrate sulle classi subalterne. Cronache di viaggio ricche di illuminanti intuizioni delle varie realtà sono: N futuro ha un cuore antico, 1956 (Russia); 1a coppia notte dei tigli, 1959 (Germania); Tutto il miele è finito, 1964 (Sardegna). È morto a Roma ciel 1975.

Un mondo negato olia storia

Cristo si è fermato ad Eboli - un libro che sfugge ad ogni classificazione di genere letterario ed è assieme diario, saggio storico e sociologico, galleria di scene di vita di provincia - diede inizio, al suo apparire, ad un interesse per il Sud che avrebbe avuto larga eco nella letteratura e si sarebbe esteso alla pittura e al cinema.

CRISTO SI E' FERMATO A EBOLI

Un'avventua al principio del tempo
Scritto in prima persona, senza che l'autore si curi di interporre mediazione alcuna fra se stesso e il narratore, il racconto trae spunto dall'esperienza vissuta da Levi durante il suo confino in Lucania, a Grassano prima e ad Aliano (Gagliano nel libro) poi, dall'estate del '35 alla primavera del '36. E si apre con una pagina che suona insieme da giustificazione e consuntivo, dove la frase di cui nel titolo, ripresa da un detto allora diffuso presso i contadini di quei paesi, si rivela come la chiave per comprendere lo spirito e il significato della testimonianza che viene trasmessa, su una terra dimenticata da Dio e dagli uomini, in cui tutto è rimasto «come tremila anni prima di Cristo», in cui non è mai «arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la Ragione e la Storia». Una terra dunque chiusa nel bozzolo di un'antichissima, «immobile», «oscura» civiltà, percorsa ancora da presenze magiche e stregonesche, popolata da persone, animali e cose che partecipano come di un'uguale «indifferenziata» natura, orgogliosa nello scontare con «vuota pazienza», con ostinata e cupa rassegnazione, una sofferenza «senza peccato e senza redenzione». Una terra che «Nessuno ha toccato... se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo», e cui lo stesso Levi si accosta, dapprima, con un misto di stupore e diffidenza: corteggiato dai «signori» del paese, divisi fra loro da vecchi e perduranti rancori, spesso insigniti di un qualche incarico politico o poliziesco, e occhieggiato da lontano dalla «massa» contadina, che per istinto riconosce in lui un potenziale alleato, che lo accomuna al suo cane Barone in una spontanea riverente ammirazione. Fino a che si diffonde nel paese la sua fama di medico e pittore: per la quale molti, vincendo la naturale ritrosia, si rivolgono a lui in cerca di cure, o gli si stringono intorno come spinti da un'ulteriore insopprimibile curiosità. E se dai maggiorenti egli impara subito a guardarsi, per non soggiacere a certi meschini giochi di potere, con gli altri non manca di entrare, ben presto, in un rapporto scambievole di amicizia e rispetto, in una sorta come di pudica, sotterranea confidenza. Avviene così che l'intellettuale illuminato, pure spettatore da un'infinita "razionale" distanza dei segreti e dei misteri del mondo contadino, si trovi tuttavia esposto a una progressiva inevitabile fascinazione, e giunga in ultimo a scoprirlo come parte di sé, imperscrutabile e arcaico sedimento che agisce, anzi, al fondo di ogni uomo. Una strana malinconia perciò lo coglie nel momento in cui, amnistiato, si prepara a partire: e sul treno che lo riporta a casa, a un futuro che gli appare «nuvola incerta nel cielo sterminato», è con «affettuosa angoscia», venata già di nostalgia, che ripensa alla «nera civiltà» appena abbandonata.

Motivi dominanti
Composto nel dicembre 1943 al luglio 1944, dopo che la Resistenza aveva illimpidito, «come per un processo di cristallizzazione amorosa», la memoria del soggiorno lucano, il libro si muove lungo due direttrici fondamentali: quella emotiva e psicologica, su base anche irrazionale, e quella saggistico-documentaria, di forte marcatura ideologica. Per la prima strada si realizza la discesa in verticale nell'universo magmatico, precristiano, barbaramente innocente della società contadina, il disvelamento della sua «buia» nobiltà, la rivendicazione appassionata del suo diritto a continuare a esistere nei modi che le sono propri. E se per un verso il punto d'arrivo si rispecchia nel mito, condiviso da molti intellettuali del tempo, del «subumano come più umano», per un altro esso rimanda alla concezione tipicamente leviana, espressa già in Paura della libertà, dell'«indistinto originario, comune agli uomini tutti» di cui quel mondo sarebbe esemplare, ma di cui ognuno di noi conserva in sé almeno una traccia, un barlume, costretto a tratti da «un'oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui». Alla componente invece saggistica fa capo la denuncia che l'autore produce delle colpe intrinseche a una gestione statuale e governativa che nei secoli, e in ogni suo assetto, ha sempre esercitato violenza sul «popolo sparso» dei contadini, servendosene ai propri scopi e però ignorandone le caratteristiche e i problemi specifici, e venendone a sua volta riconosciuta come estranea e nemica. A peggiorare ulteriormente la situazione è poi l'inettitudine, quando non addirittura l'aperta corruzione, delle amministrazioni politiche locali, affidate a una piccola borghesia fisicamente e moralmente degenerata, cui lo Stato permette di perpetuare nel tempo soprusi e angherie di «imbastardita» feudale tradizione. Da qui la periodica esplosione di rivolte che non sortiscono di norma esito alcuno, ma che nascono «da un'elementare volontà di giustizia, dal nero lago del cuore», e che replicano nelle loro manifestazioni quelle della sola guerra, «senz'ordine militare e senza speranza», che rimaneva «in cima al cuore di tutti, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio». Un fenomeno che Levi, in un'ottica storica, «liberale e progressista», non può non condannare, e che tuttavia giustifica, nel suo «accesso di eroica follia, di ferocia disperata, ... sanguinosa e suicida», come il naturale tentativo della civiltà contadina di difendere se stessa «contro la Storia e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti», contro «l'altra civiltà... che, senza comprenderla, eternamente l'assoggetta». E se la questione meridionale, che ha risvolti politici, sociali ed economici, che ha le sue radici nella coesistenza di due culture diversissime. «nessuna delle quali è in grado di assimilare l'altra», potrà domani trovare soluzione non sarà certo, per l'autore, all'interno di uno stato comunque «unitario, centralizzato e lontano»: sarà piuttosto, forse, in virtù di un apparato statale improntato a «una organica federazione», che attraverso l'istituzione del «comune rurale autonomo» garantisca ai contadini il rispetto della loro identità, un coinvolgimento diretto nella vita collettiva, e di seguito l'accesso a una coscienza di classe, l'affrancamento da ogni ingiusta soggezione, fino a un concreto miglioramento, anche e soprattutto, delle loro condizioni economiche.

Libro di memoria o romanzo-saggio?
Il quesito è impegnativo: Perché il Cristo, che prima di diventare «apertamente racconto» era stato «esperienza, e pittura e poesia, e poi teoria e gioia di verità», è passibile di entrambe le definizioni, e di alcune altre ancora, ma da tutte egualmente rifugge, per la libertà strutturale che lo caratterizza, per la difficoltà di sceverare in esso, con chiarezza, il dato memoriale da quello sociologico, 1a notazione introspettiva da quella realistica, la confessione dalla denuncia. L'isolamento e l'immobilismo storicamente accertati, del mondo contadino meridionale sono infatti per Levi elementi costitutivi di un vissuto personale, diretto: quello per il quale si era trovato, nei mesi del confino, dal rifugio di una stanza come «una tenda in un deserto», a misurare i propri giorni su «un semplice variare di nuvole e di sole», «via dalla Storia e dal tempo». Un meccanismo perciò di identificazione spontanea, profonda, interviene a sanare lo scarto fra oggettivo e soggettivo, e il racconto prende forma in uno spazio composito, palesemente ambiguo, elusivo di ogni preciso criterio di "genere" e tramato però da un sottile, diffuso lirismo, atteggiato, in ultima analisi, in funzione simbolica. Lo stesso andamento periodale, a segmenti abitualmente paralleli («I
ragazzi correvano, i cani abbaiavano, tutto era movimento», p. 160), conferisce alle immagini un duplice spessore, fisico e metafisico, documentario e mitico; mentre l'uso prevalente dell'imperfetto, o la comparsa a tratti di un presente di assoluta perentoria evidenza, bloccano la vicenda in un tempo «chiuso», «fermo», emblematico di quello che trascorre monotono e uniforme, in terra lucana, che vive ancora nella memoria di Levi, che appartiene forse, come vogliono alcuni, al suo subconscio. Ma è soprattutto il lessico, giocato su pochi termini che ricorrono spesso, che si caricano sempre di una sfumatura diversa, a dischiudere il racconto allo stesso "doppio senso" che la fantasia contadina attribuisce a ogni evento, creatura od oggetto. E al suo interno specialmente gli aggettivi, «nero» «fosco» «chiuso» «fermo» «remoto» tra i più frequenti, in tutte le loro possibili varianti, che non solo valgono a connotare l'aspetto e l'atteggiamento psicologico dei contadini, l'intera civiltà di cui sono espressione, ma riportano anche all'area semantica cui attinge l'autore nel parlare di sé: «Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo... Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza di un albero».

Su scala più vasta, l'allusività che distingue la prosa del Cristo, e che trova nella similitudine e nella metafora le sue "figure" fondamentali, acquista particolare risalto in certi paesaggi, fissati come sulla tela di un quadro, dove i colori si impongono sul disegno e ne dilatano i contorni, dove all'osservazione attenta della realtà si sovrappone l'impressione, o la coscienza che ne conserva Levi: «Vennero le piogge, lunghe, abbondanti, senza fine: il paese si copri di nebbie biancastre che stagnavano nelle valli: le cime dei colli sorgevano da quello sfatto biancore, come isole su un informe mare di noia. Le argille cominciarono a sciogliersi... grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto». Analogamente il ritratto dei vari personaggi, quando non degrada in caricatura per l'ostilità dell'autore nei loro confronti, si delinea per una serie di rimandi progressivi, rapidissimi, dalle caratteristiche somatiche a quelle interiori, e da queste ancora a una segreta "ulteriore" verità: nel viso di Giulia, per esempio, la strega contadina, tra il balenio degli occhi neri e dei denti «bianchissimi, potenti come-qtze li di un o», si leggeva «una fredda sensualità, una oscura ironia, una crudeltà naturale...» ma anche «un'antichità p" misteriosa e crudele», una «consapevolezza passiva» «senza pietà o giudizio morale», che la rendeva «... come le bestie, uno spirito della terra».

 

  (C) 2000 Luigi De Bellis 900: ALTRO ARGOMENTO