Corrado Govoni nacque a Tàmara (Ferrara) nel 1884 da una famiglia di mugnai e agricoltori. Dopo aver trascorso, senza compiere studi regolari, diversi anni nel paese natale entrò nel 1895 in un collegio di salesiani a Ferrara, dove però rimase poco tempo. Proseguì le letture e gli studi da autodidatta. Nel 1903 si trasferisce per qualche tempo a Firenze, dove conosce Papini e dove pubblica nello stesso anno la sua prima raccolta di versi, Le fiale, di ispirazione dannunziana. Seguono a breve scadenza altre raccolte poetiche: Armonia in grigio e in silenzio (1903), che segna l'adesione ai modi e ai toni del crepuscolarismo, Fuochi d'artifizio (1905) e Gli aborti (1907), che progressivamente esauriscono questa fase crepuscolare. Tra Roma, dove pure soggiorna, e Firenze entra in contatto con i principali ambienti letterari del tempo e conosce e stringe rapporti d'amicizia con Corazzini, Palazzeschi, Marinetti, Novaro e vari altri intellettuali e letterati. Collabora a svariate riviste («Poesia», «Riviera ligure», «Lacerba», ecc.) e matura l'adesione al movimento futurista: a questa nuova fase appartengono Poesie elettriche (1911), Rarefazioni e parole in libertà (1915), L'inaugurazione della primavera (1915). Nel 1914 si trasferisce a Milano, centro principale del movimento futurista, ma l'anno successivo è costretto a tornare a Ferrara, dove si impiega presso l'ufficio dello Stato civile. Partecipa alla guerra e quindi si trasferisce a Roma. Segue un relativamente lungo silenzio poetico interrotto solo nel 1924 dalla raccolta Quaderno dei sogni e delle stelle (ma frattanto compone prose liriche e romanzi), cui ne seguiranno però molte altre tra le due guerre e nel secondo dopoguerra (ad esempio, fra le più importanti: A bocca chiusa, 1938, e Govonigiotto, 1943), nelle quali egli conduce una ricerca poetica originale, ma ormai in gran parte estranea ai grandi movimenti che tracciano le linee portanti dello sviluppo letterario novecentesco. Muore a Roma nel 1965.
Nel Govoni futurista è fin troppo facile constatare come, al di là di certe audacie analogiche un po' eccessive, in fondo si tratta del Govoni di sempre, col suo gusto degli oggetti e dei colori, il suo impressionismo vivacissimo, la sua prontezza d'intuizione analogica. È vero che ci sono cose tipicamente futuriste, come il «fulmine», simbolo della velocità e della potenza dell'elettrico, la «bicicletta», meno veloce del fulmine ma molto più moderna, il «treno in corsa», i «fonografi», ma prevalgono come sempre gli oggetti naturali, e ancora una volta i fiori, le erbe, i sentori della primavera. È molto caratteristico come la città, luogo deputato di tutta la poetica futurista perché oppone le macchine all'arcadia immutabile della campagna, venga qui ricondotta alla misura del «giardino», che è in fondo un brano di campagna in città. Malgrado tutto, Govoni resta uno strano rappresentante, unico nel suo genere, di futurismo "agreste" e paesano, con un'autentica contraddizione in termini: questo tanto più testimonia come il futurismo sia stato per il poeta molto più che un implesso ideologico-programmatico un impulso ad accelerare le correlazioni analogiche, una spinta alla più ampia libertà immaginativa.
Immediatamente influente, se non altro sul piano dei motivi, sui crepuscolari più tipici (da Corazzini al conterraneo Moretti), Govoni contrappone tuttavia al loro programmatico grigiore una vivezza coloristica e un dinamismo che lo differenziano dalla «scuola»; ma è soprattutto il gusto per il caleidoscopio delle parvenze, e una libertà nell'associare le immagini che ha fatto parlare di «barocco» e non molto più appropriatamente di surrealismo avanti lettera, a costituire il minimo comune denominatore fra il Govoni pre-futurista e quello futurista. Al futurismo egli aderì con l'entusiasmo un po' acritico che lo contraddistingueva ma anche, come lui stesso ebbe a ricordare più tardi («Meridiano di Roma» del 14 marzo 1937), con una sorta di giocosa irresponsabilità, raggiungendo in ogni caso anche nella nuova maniera risultati assai cospicui, inferiori solo a quelli dell'altro outsider Palazzeschi. Ma in verità, nonostante l'ortodossia di alcune liriche (per esempio Fotografia medianica del temporale) o taluni tratti evolutivi come certo intellettualizzarsi delle immagini (quali «i bequadri diabolici dei fulmini» o «de incandescenti vertebre dei fulmini»), si può dire che quanto vi è in lui di futuristico preesistesse già in sostanza alla fase futurista vera e propria, così come in questa egli conservò senza tanti problemi vistosi residui dannunzianeggianti, liberty,
crepuscolari. |