Una poesia in dialetto è per definizione possibile solo quando esiste una lingua nazionale comune, rispetto alla quale, per ragioni diverse che variano da caso a caso, essa tende a distinguersi. La storia linguistica italiana è assai peculiare sotto questo aspetto: abbastanza presto si crea una lingua letteraria egemone, fondata sulla preminenza del dialetto tosco-fiorentino, che però solo con il Cinquecento, in epoca classicistica e bembiana, si impone definitivamente. Fino al Cinquecento troviamo documenti letterari che presentano spiccate caratteristiche dialettali, che però non vengono sentite come alternative o addirittura oppositive alla lingua letteraria nazionale. È nel Cinquecento che l'Ariosto decide di toscanizzare l'Orlando furioso, che acquista fortuna la versione toscanizzata (ad opera del Berni) dell'Orlando innamorato, che infine si può parlare di testi letterari coscientemente alternativi a quelli redatti in toscano (o italiano, ormai), come accade polemicamente nel caso del Ruzante. Questa opposizione si accentua nel Seicento, in un'epoca di regressione del classicismo (si pensi ad esempio al Basile del Cunto de li cunti) e permane, sia pure nuovamente attenuata, nel Settecento (si pensi al Goldoni dialettale o al Meli). Non possiamo naturalmente ripercorrere qui tutta la storia della poesia in dialetto della letteratura italiana, né è nostra intenzione. Bastino questi brevi cenni retrospettivi.
Piuttosto - per capire per quali scopi spesso i poeti in dialetto scelgono di esprimersi così - converrà ricordare che la situazione linguistica italiana è anomala rispetto ad altre realtà europee soprattutto per il fatto che accanto alla lingua letteraria nazionale (divenuta cioè patrimonio comune dei ceti letterati, che sono sempre una ristretta élite), sussistono nell'uso sociale quotidiano un'infinità di dialetti o vere e proprie lingue alternative (come il veneziano, che è lingua di Stato per tutta la durata della Serenissima). Questo fenomeno dura almeno sino all'unità d'Italia, come pure abbiamo visto; e basti qui ricordare che anche un letterato coltissimo come il Manzoni per gli usi non letterari specialmente orali utilizzava di preferenza il milanese o il francese, o le difficoltà dei parlamentari del Regno d'Italia ad esprimersi oralmente in toscano. Questo fatto determina una sostanziale opposizione fra dialetti (parlate dell'uso quotidiano) e lingua nazionale (dell'uso scritto, prevalentemente letterario), che da molti è sentita anche come un'opposizione tra vita, realtà da un lato e letteratura dall'altro. Si giustificano così, specialmente nell'Ottocento, le scelte del dialetto come lingua letteraria in scrittori che vogliono dare un più preciso e forte contenuto di realtà vissuta e viva al proprio esercizio letterario: basti qui ricordare i casi del Porta e del Belli a suo luogo esaminati proprio in una prospettiva di "realismo dialettale", in consonanza con alcuni espliciti dettami della poetica romantica.
Nel Novecento le cose si complicano ulteriormente: la lingua italiana tende a diventare progressivamente la lingua anche dell'uso comune, ma non in modo omogeneamente diffuso almeno sino ad anni a noi molto vicini. Si aggiunga il fenomeno della dialettofobia, diffusosi soprattutto nel ventennio fascista, ma in qualche misura fenomeno connaturato allo sforzo da parte delle istituzioni del nuovo Stato unitario di unificare di fatto la lingua degli italiani. Ciò, da un lato, fino a metà Novecento almeno, rende ancora attuali le scelte del dialetto in polemica con la lingua letteraria nazionale sentita come artificiosa ed elitaria, ancora in parte estranea alla realtà della vita vissuta. È forse il caso di Giacomo Noventa, che ricorre alla "corposità" e alla "naturalità" del dialetto con un preciso intento polemico nei riguardi del linguaggio della contemporanea poesia ermetica, rarefatto e libresco (e almeno oggettivamente, come scelta alternativa ai dettami del regime). Da un altro lato, tuttavia, si aprono più consistenti spazi e occasioni per altre motivazioni, più personali e intime, della scelta linguistica dialettale. L'insoddisfazione nei confronti della lingua letteraria nazionale, aristocratica e limitata nei registri espressivi, può determinare l'opzione per il dialetto come una lingua vergine e istintiva, come lo strumento più adatto per dare voce al fondo autentico del proprio io. È questo il caso, per fare un solo esempio, delle poesie in friulano di Pasolini (Poesie a Casarsa, 1942), volte alla rappresentazione - aspetti, sentimenti, primigenie esperienze della realtà - di un mondo di natura non contaminato ancora dalla storia: una sorta di regressione nell'infanzia, di lontana ascendenza decadente. Ragioni più complesse, ma non totalmente dissimili da queste, determonano e legittimano la scelta del dialetto in alcuni testi di un poeta come Andrea Zanzotto.
Va detto che la scelta del dialetto diventa nel corso del secondo Novecento sempre più spesso una libera opzione per uno strumento espressivo efficace e pienamente dominato dallo scrivente, anche senza intenti polemici o regressivi, proprio in relazione al fatto che mano a mano che ci si avvicina al presente anche sul piano sociale e culturale i dialetti hanno riconquistato una loro piena dignità espressiva e culturale, non sono più ostracizzati come era accaduto in passato (e anzi sono stati in anni recentissimi, nell'ultimo trentennio all'incirca, fortemente rivalutati su tutti i piani). Sono lontani i tempi in cui il De Sanctis (qui preso come esponente di una pedagogia ottocentesca) poteva dichiarare che il dialetto era «una malerba che la scuola dovrebbe provvedere a sradicare» o i tempi delle idiosincrasie del fascismo. L'insieme di queste considerazioni fa si che non sia oggi neppure da porre il problema di una graduatoria di valori tra la poesia (o letteratura) in lingua e la poesia in dialetto. Quest'ultima si è ormai emancipata dal rango di letteratura minore o capace di trattare solo temi minori (il bozzetto paesano, il facile scherzo...). Rimane invece, inevitabilmente, il fatto della difficoltà e della limitata possibilità di circolazione di una poesia o letteratura in dialetto, accentuato anzi paradossalmente proprio dal progressivo imporsi della lingua nazionale come lingua della comunicazione ordinaria presso tutti i ceti e in tutte le aree geografiche d'Italia e dal fenomeno del distacco dal dialetto da parte delle giovani generazioni (anche in ambito locale sono sempre meno i giovani che mantengono una buona competenza del dialetto dei genitori e delle generazioni più anziane).
Ci soffermeremo ora solo su alcuni dei molti poeti dialettali del Novecento che a nostro giudizio si possono considerare - sia pure per differenti ragioni - tra i più rappresentativi.
Questa rapida rassegna non può che iniziare con Salvatore Di Giacomo (1860-1934), la cui produzione si colloca cronologicamente fra Ottocento e Novecento (la sua prima raccolta di Sunette antiche è del 1884, l'ultima di Canzoni e Ariette nuove è del 1916) e tematicamente rispecchia in certo qual modo prima l'attenzione veristica alla vita popolare, al colore locale (la vita napoletana dei ceti subalterni) - e, dopo il superamento di questi orizzonti e la conquista di una dimensione più propriamente lirica centrata sull'indefinibile caleidoscopio dei sentimenti (l'amore, soprattutto), sulle malinconie esistenziali, sul complesso e mutevole rapporto fra l'animo umano e le suggestioni paesistiche. In questo ambito tematico Di Giacomo ha una grazia e una levità settecentesche, alle quali contribuisce certamente l'adozione di forme metriche che in vario modo si rifanno alle suggestioni del Metastasio (ariette appunto e canzonette), e supera il bozzettismo dialettale e folkloristico rappresentando esemplarmente aspetti perenni della condizione umana: il finire dei sentimenti e delle cose («Chest'è! Nziemme a sti fronne/ ca fa cadé l'autunno,/ quant'ate cose a 'o munno/ pe forza hanna cadé!») o l'improvvisa e indefinibile malinconia suggerita da una vecchia musica («Nu pianefforte 'e notte/ sona luntanamente,/ e 'a museca se sente/ pe ll'aria suspirà. [...] Ma sulitario e lento/ more 'o mutivo antico;/ se fa cchiù cupo 'o vico/ dint'a ll'oscurità. [...]»).
Per quanto riguarda il periodo compreso fra le due guerre bisogna tener conto della decisa opposizione ai dialetti perseguita dal regime fascista; e in questa prospettiva non è un caso che i due più notevoli poeti in dialetto di questo periodo, Tessa e Noventa, siano due dichiarati oppositori, due antifascisti.
Di Delio Tessa (1886-1939) - vissuto a Milano, dove esercitò senza troppo successo l'avvocatura va ricordata la raccolta di liriche L'è el dì di mort, alegher!, l'unica da lui curata personalmente e pubblicata nel 1932. Altri componimenti - e tra i suoi migliori - furono pubblicati nella raccolta postuma Poesie nuove ed ultime. Nell'ambiente culturale milanese Tessa visse da spettatore distaccato e negli ultimi tempi, per la sua dignitosa opposizione al fascismo, da isolato. Schematizzando si potrebbe dire che nella sua produzione egli coniuga certe ascendenze tipicamente locali (la Scapigliatura) con la lezione delle esperienze poetiche europee del Novecento; da ciò nascono: una capacità di trasfigurazione allucinata e grottesca della realtà; una violenza espressiva sottesa da una singolare capacità di invenzione di lessico e di immagini; la frequente presenza del tema della morte nei suoi componimenti.
Due di questi in particolare vanno ricordati: quello che dà il titolo alla prima raccolta (e che reca come sottotitolo Caporetto 1917), nel quale il poeta «immagina che gli Austriaci raggiungano Milano, scatenando nel loro cammino terrore e manifestazioni di frenesia popolare, che via via acquistano toni e suoni di una danza macabra e grottesca, da cui la morte esce vincitrice incontrastata» (B. Masi), e La poesia della Olga, nella quale i vari aspetti di una condizione di vita emarginata e declassata vengono resi con modalità poetiche che si possono senz'altro definire espressionistiche. Si aggiunga inoltre che in questi componimenti Tessa realizza una «specie di poemetto narrativo e lirico, che da noi non ha veri precedenti prima del Pascoli» (E. Bonora).
Giacomo Noventa (pseudonimo di Giacomo Ca' Zorzi), nato nel 1898 e morto nel 1960, gobettiano, volontario esule antifascista a Parigi, si decide a raccogliere in volume le sue liriche, conosciute prima solo nella cerchia degli amici, nel 1936. Usa un dialetto veneto un po' particolare, ripulito da eccessi gergali e motiva consapevolmente questo ricorso al dialetto dichiarando «Nei momenti che '1 cuor me se rompe/ mi no' canto che in Venessian» e affermando che «No' gh'è lengua che valga el dialeto/ che una mare nascendo ne insegna». Ma c'è da aggiungere che la produzione di Noventa si inserisce in quella linea antinovecentesca che include parecchi - e notevoli - poeti di questo secolo. Poeta di ampia e variegata tematica, Noventa ha un posto tutto particolare nell'ambito della poesia in dialetto: come ha scritto Fortini, «il linguaggio di Noventa, proprio nel suo essere solo apparentemente dialettale (le strutture sintattiche, gli oggetti medesimi delle liriche non hanno nulla o quasi nulla a che fare con il repertorio affettivo dei dialetti), ha come propria antitesi l'italiano sublime del modernismo ungarettiano e dell'ermetismo».
Noventa ricorre quindi al dialetto come allo strumento adatto per dare voce ad una pienezza sentimentale che, come qualcuno ha detto, sembra situarsi prima del decadentismo e che assieme alla tenerezza, alla passione, alla commozione per «el saòr del pan, e la luse del ciel», non esclude il sarcasmo (contro la «zente refada», genterella rifatta, come considera i letterati suoi contemporanei, contro «i negri» cioè i fascisti) o lo sdegno civile («Soldi, soldi, vegna i soldi,/ mi vùi venderme e comprar,/ comprar tanto vin che basti/ 'na nazion a imbriagar».
Il poeta comunque che, nell'ambito del dialetto veneto, merita particolare attenzione è Biagio Marin (1891-1985). Nato a Grado, Biagio Marin ha studiato a Vienna, si è laureato a Roma in filosofia con Giovanni Gentile, è stato insegnante e impiegato in varie amministrazioni pubbliche. Più che tentare un'analisi dell'itinerario poetico di Marin dal suo primo volume (Fiuri de Lapo, 1912) all'ultimo (Ultime refolae, 24 liriche, 1975) - passando attraverso 1 canti de l'Isola, 1951; La vita ve fama, 1970 e molte altre raccolte - è qui opportuno sottolineare i risultati di fondo, le conquiste che con un progressivo affinamento egli ha raggiunto. E cioè: un'estrema semplicità, una purezza di linee che dà alle cose, ai paesaggi, ai sentimenti cantati una dimensione rarefatta ed arcana, li scorpora da ogni materialità e da ogni contingente riferimento, li sottrae al tempo e conferisce loro «il sapore dell'eterno» (Bo). L'operazione di Marin quindi è anzitutto quella di semplificare: sul piano del materiale poetabile (circoscritto in gran parte alle stagioni e alle ore e alla elementare vita della terra natia, Grado) e sul piano del materiale linguistico (di «assoluta selettività» ha parlato Pasolini ipotizzando anche che tale selettività possa «essere determinata proprio dalla povertà lessicale del dialetto che egli usa, il gradese, isola linguistica e per di più marginale, parlato per tanti secoli da una piccola comunità di pescatori e basta»).
Ma nel contempo questa riduzione, questa semplificazione emblematizza ogni cosa e la carica di universalità: «La selettività del linguaggio di Marin è dunque in funzione di un ambizioso ingrandimento: fare di Grado il cosmo» (Pasolini).
Un altro poeta dialettale che ha richiamato l'attenzione della critica è Franco Loi, che, nato a Genova nel 1930, si è trasferito con la famiglia nel 1937 a Milano, dove ha sempre vissuto: ha militato fino al 1962 nel PCI, ha lavorato nella pubblicità e attualmente lavora nell'editoria. La dialettalità di Loi è piuttosto particolare, perché sul dialetto milanese (che costituisce certamente il sostrato lessicale di fondo della sua produzione) si innestano apporti linguistici di altri dialetti, da lingue straniere, dall'italiano letterario. Più che nella linea della poesia dialettale, la sua produzione (I cart. 1973: Poesie d'amore, 1974; Stròlegh, 1975; Teater, 1978) andrebbe forse inserita in quella vocazione sperimentalistica che attraversa tutto il Novecento e che negli ultimi tempi è stata particolarmente vistosa nella produzione italiana. Siamo di fronte ad un «linguaggio mescidato ed eccentrico» che ha i caratteri «del più marcato espressionismo» ha scritto P.V. Mengaldo. (Siamo, stilisticamente, proprio agli antipodi della selettività di Biagio Marin.) Servendosi di un siffatto strumento l.oi esprime le attese, le proteste, i rancori della classe subalterna con una gamma di posizioni che vanno dalla cupa accettazione dell'ineliminabile dolore del vivere alla protesta anarchica o al vagheggiamento dell'utopia, in componimenti nei quali la contaminazione è dominante: contaminazione tra realtà e dimensione onirica, fra storia contemporanea (le fucilazioni di Piazzale Loreto) e storia dell'antica Roma. Derivano da tutto ciò risultati che hanno avuto l'apprezzamento incondizionato di critici come Mengaldo («a me pare la personalità poetica più potente degli ultimi anni») e
Fortini.
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