Benedetto Croce, nato a Pescasseroli (L'Aquila) nel 1866, perdette nel 1883 i genitori e la sorella, vittime del terremoto di Casamicciola, e visse da allora presso lo zio Silvio Spaventa, patriota del Risorgimento e uomo politico. Interrotti gli studi di giurisprudenza all'Università di Napoli, si dedicò per tutta la vita ai suoi studi, spaziando dalle ricerche erudite all'estetica (Estetica, 1902; Problemi di estetica, 1910; La poesia, 1936) e alla filosofia (Logica, 1908; Filosofia della pratica, 1908); dalla riflessione storiografica (Teoria e storia della storiografia, 1917; La storia come pensiero e come azione, 1938) alla storiografia (Storia d'Italia dal 1879 al 1915, 1928; Storia d'Europa nei secolo XIX, 1932) e alla critica letteraria (i sei volumi della Letteratura della nuova Italia che raccolgono i saggi singolarmente pubblicati su «La Critica»; La poesia di Dante, 1920; Poesia e non poesia, 1923; Poesia popolare e poesia d'arte, 1933).
II magistero di Croce sulla cultura italiana è stato profondo e duraturo, e specie «tra il 1925 e il 1940 [egli] fu coscienza morale dell'antifascismo italiano, non tanto come restauratore dell'idealismo [...j quanto come filosofo della libertà» (Bobbio); un magistero che esercitò con gli studi e i saggi, ma anche attraverso la rivista «La Critica» pubblicata ininterrottamente come bimestrale dal 1903 al 1944: il suo prestigio intellettuale ne rese impossibile al fascismo la soppressione.
In questa vita di totale dedizione agli studi e di severa disciplina intellettuale-che è anzitutto, al di là di ogni polemica, un alto esempio etico- ci fu posto solo due volte per l'attività pubblica: nel 1920 Croce fu ministro della Pubblica Istruzione in un governo Giolitti, e nel 1943-47 fu presidente del Partito Liberale, e partecipò ai governi Badogho e Bonomi e alla Costituente. Mori a Napoli nel 1952.
Manifesto degli intellettuali antifascisti
In risposta al manifesto degli intellettuali fascisti Croce su invito di Giovanni Amendola redasse questo manifesto che fu pubblicato su «Il Mondo» del 1° maggio 1925, corredato da numerose adesioni.
Rimandando all'apparato didattico alcune osservazioni, per ora ci sembra opportuno piuttosto fornire un chiarimento. Non è qui il caso di soffermarci su un problema che la storiografia contemporanea ha largamente dibattuto - l'ambiguo atteggiamento iniziale di Croce nei riguardi del fascismo e il ruolo sostanzialmente conservatore, nella cultura e nelle implicazioni politiche, della sua opera - ma è necessario precisare che con questo manifesto il Croce superava nei riguardi del fascismo la posizione di attesa, a volte benevola, sino allora tenuta («il fascismo non poteva e non doveva essere altro, a mio parere, che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale... Bisogna dar tempo allo svolgersi del processo di trasformazione del fascismo» dichiarava sul «Giornale d'Italia» del 9 luglio 1924). Ora la posizione è ben diversa.
I due testi si possono esaminare da molteplici punti di vista e suggeriscono una vasta gamma di problemi; ci limitiamo perciò a richiamare l'attenzione su alcuni aspetti che ci sembrano fondamentali.
1) Notevolmente divergente è nei due testi la concezione dello Stato. Per Gentile - che avrebbe in seguito approfondito l'argomento nella voce "Fascismo" dell'Enciclopedia Italiana Treccani - lo Stato è un'entità che ingloba in sé gli individui e che è artefice non solo della legge ma anche della moralità. In seguito infatti, recuperando posizioni hegeliane, egli avrebbe parlato di "Stato etico". Questa concezione, anche se non è specificamente formulata in un preciso passo del Manifesto, tuttavia lo pervade e lo anima. Da essa nascono sia la polemica contro lo Stato liberale sia il «carattere religioso» dal Fascismo più volte ribadito.
2) Proprio questo «carattere religioso» legittima la violenza: «questo carattere religioso e perciò intransigente» (rr. 30-31); qui Gentile istituisce una serie di rapporti (religiosità --> intransigenza --> violenza) che, per usare un eufemismo, sono assai opinabili.
3) La concezione che ha Croce dello Stato è invece quella del liberalismo classico, e va sottolineato il passo in cui egli pone un problema fondamentale: le forme di Stato autoritario e "totalizzante" teorizzate da Gentile sono le più adatte a favorire la crescita degli individui? Profondamente convinto della validità del sistema liberale (e ciò risulterà più evidente nella Storia d'Italia dal 1870 al 1915), Croce oppone come soluzione politica alternativa al fascismo la restaurazione pura e semplice degli ordinamenti e dei metodi del vecchio Stato liberale; considerando il fascismo come una casuale diversione, come un incidente nel meccanismo statuale liberal-borghese, Croce non si pone il problema dei rapporti fra questo Stato liberale e il fascismo, che proprio delle carenze di tale Stato - quale almeno si era configurato in Italia - era figlio, come tanta storiografia posteriore dimostrerà: il fascismo era «l'autobiografia della nazione», come il venticinquenne Gobetti - vedendo ben più a fondo del maturo maitre à penser- aveva scritto.
4) Le rr. 8-17 meritano particolare attenzione perché in esse viene enunciata una concezione della cultura (come ricerca che non si contamina con la politica, come attività che ripudia ogni impegno di lotta) che avrà larghissima incidenza sugli atteggiamenti degli intellettuali durante il ventennio
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