«L'Allegria di Naufragi [il primitivo titolo dell'Allegria] è la presa di coscienza di sé, è la scoperta che prima adagio avviene, poi culmina d'improvviso in un canto scritto il 16 agosto 1916, in piena guerra,
alla trincea, e che s'intitola I fiumi. Vi sono enumerate le quattro fonti che in me mescolarono le loro acque, i quattro fiumi il cui moto dettò i canti che allora scrissi» (Ungaretti).
Mi pare di averlo già accennato, ma meglio di quanto potrei dirlo io in questo momento
l'hanno detto i miei Fiumi, che è il vero momento nel quale la mia poesia prende insieme a me chiara coscienza di sé: l'esperienza poetica è esplorazione d'un personale continente d'inferno, e l'atto poetico, nel compiersi, provoca e libera, qualsiasi prezzo possa costare, il sentire che solo in poesia si può cercare e trovare libertà. Continente d'inferno, ho detto, a causa dell'assoluta solitudine che l'atto di poesia esige, a causa della singolarità del sentimento di non essere come gli altri, ma in disparte, come dannato, e come sotto il peso d'una speciale responsabilità, quella di scoprire un segreto e di rivelarlo agli altri. La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella d'essere un uomo d'oggi, ma anche un uomo favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata dall'Eden: nel suo gesto d'uomo, il vero poeta sa che è prefigurato il gesto degli avi ignoti, nel seguito di secoli impossibile a risalire, oltre le origini del suo
buio.
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