LETTERATURA ITALIANA :     ANALISI DEL NOVECENTO

GIUSEPPE UNGARETTI:   L' ALLEGRIA

L'Allegria, o la poesia della parola

«La poesia di Ungaretti offre il più radicale esempio di rinnovamento formale sperimentato dalla lirica del nostro secolo» (Sanguineti). Alle novità formala; che fanno dell'Allegria (1918) un libro-chiave della storia letteraria italiana del Novecento e che vanno nel senso della scarnificazione del discorso a parola pura e nuda, colta nello spessore della sua evocatività, corrispondono almeno in buona parte - l'esperienza della guerra e la riduzione del vissuto ai fattori essenziali e originari: una tragica e concreta materialità da cui si staccano, come repentine illuminazioni, ricordi, fantasie care, grumi di sensazioni e sentimenti dimenticati, tensioni e aspirazioni liberatorie. Ha scritto Gianfranco Contini che l'«Allegria si segnala per il totale abbandono della componente estetizzante, in consonanza alla rigorosa riduzione dell'uomo di pena [...] nei confini d'una vitalità spoglia e rudimentale, spesso coincidente con la natura, che nell'universale naufragio incontra lo spunto per un quasi fisiologico ottimismo».

II comun denominatore dei testi è la presenza di una concreta fenomenologia bellica - che va dalle più nette immagini di violenza e morte in Veglia alla distruzione materiale in Pellegrinaggio e in San Martino del Carso - o dei suoi riflessi morali in Fratelli («aria spasimante», «fragilità») e in Sono una creatura (pietrificazione interiore, pianto silenzioso, morte in vita). Sono insomma testi di oggettiva denuncia delle lacerazioni prodotte dalla guerra. I due componimenti in cui le immagini materiali della guerra sono assenti appaiono anche (con San Martino del Carso) i più desolati: l'esperienza della tragedia bellica è quasi sempre resa da Ungaretti in termini di riflessi intimi, di moti dell'animo. Ungaretti, insomma, non è un poeta espressionista che si compiace della violenza delle immagini (si vedano Benni e anche Rebora di Voce di vedetta morta). Un accenno di espressionismo c'è però in Veglia, legato alla serie di participi (buttato, massacrato, digrignata, penetrata) che rappresentano la situazione con crudezza di significati e asprezza fonica, e che, in assenza di un verbo finito, generano un clima di tesa sospensione drammatica (evocativo dell'interminabile lunghezza della notte). Accentua la potenza tragica della rappresentazione la scansione, come spessissimo accade in Ungaretti, in versicoli «"scandalosamente" brevi» (Contini), che pone in risalto, stagliandoli sullo sfondo bianco della pagina e, per analogia, su un abisso di silenzio, proprio alcuni dei termini più aspri (massacrato, digrignata, penetrata). Ma, per contrasto, all'esperienza della morte fa riscontro il sorgere prepotente di un istinto vitale, quasi primordiale: la sospensione e la tensione si sciolgono quando la comparsa della proposizione principale (ho scritto /lettere piene d'amore) significa il bisogno di pensare all'amore e subito dopo il viscerale attaccamento alla vita. È questo un movimento ricorrente nell'Allegria (in singoli testi e nel complesso della raccolta), che possiamo cogliere anche in un altro dei componimenti che rappresentano con crudezza realistica la condizione di guerra: in Pellegrinaggio l'immagine del «seme / di spinalba» apre una prospettiva sull'infanzia alessandrina del poeta (cfr. la nota) e crea un moto di reazione (illusione, coraggio, mare) nell'uomo di pena.

Sul linguaggio dell'Allegria proponiamole osservazioni, come sempre illuminanti, di Mengaldo.

All'inizio l'esperienza di Ungaretti è legata, assai più che alla cultura poetica italiana, a quella francese (e non solo letteraria) recente, fra Guérin e Laforgue, Cendrars, Apollinaire e Reverdy; e certo è stata anche questa extraterritorialità culturale a permettergli, come già in minore a Marinetti, di aggredire i nostri istituti formali con un tale urto rivoluzionario. Strumento fondamentale di questa rivoluzione è la metrica dell'Allegria: che disgrega il verso tradizionale in versicoli, frantumando il discorso in una serie di monadi verbali sillabate quasi come attonite interiezioni liriche (con Contini: «in Ungaretti il discorso nasce successivamente alla parola»). Ne viene dilatata la forza evocativa e impressiva del singolo vocabolo che può essere quindi attinto di norma - a un-lessico del tutto «normale», anti-letterario -, semantizzando anche parole vuote (di, una, come, e possono addirittura costituire da sole un verso) e coinvolgendo nella significazione, ben più profondamente che nella poesia tradizionale, pause di silenzio e spazi bianchi, marcati e resi ancora più polivalenti dall'apollinairiana assenza di punteggiatura. Parola e silenzio stanno l'una all'altro come rivelazione ad attesa di rivelazione: scriveva Ungaretti nel Commiato che chiude Il porto sepolto: «Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso». Ne deriva che il messaggio ungarettiano è sempre di natura potentemente suggestiva, irrazionale, quasi magica: ciò cui contribuisce l'uso su larga scala, e originalissimo, dell'analogismo moderno (tipo «la notte più chiusa / lugubre tartaruga / annaspa») che il poeta svilupperà ulteriormente nel Sentimento e teorizzerà, sulle tracce precise di Reverdy e Breton, come corto circuito sprizzante dall'accostamento inedito di reali nozionalmente distanti. E ne deriva una conseguenza d'ordine generalmente elocutivo, nel senso che l'importanza delle pause e dei suggerimenti intonativi predispone potenzialmente questa poesia alla recitazione o declamazione (decisiva al proposito la straordinaria dizione del poeta stesso); più profondamente ancora: ne disvela l'intima natura teatrale. Annotava De Robertis: « È forse l'estremo grado a cui è arrivata la poesia letta e, nel tempo stesso, il principio, l'embrione di una poesia che domani torni a esser detta»: dove si può anche vedere una concomitanza (altre ce ne sono nel repertorio stilistico) con il contemporaneo futurismo. Per queste e altre ragioni lascia perplessi il tentativo di ricostruire sistematicamente misure tradizionali sottostanti ai versicoli dell'Allegria, così umiliandone gli accapo a puri espedienti grafici, come pure s'è fatto dallo stesso De Robertis e da altri. Certo che un esemplare come «Sorpresa / dopo tanto / d'un amore» dà alla lettura continuata un endecasillabo, e «Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie) un alessandrino (auto-traduzione francese «nous sommes tels qu'en automne sur l'arbre la feuille» : caratteristicamente, un endecasillabo): ma in quest'ultimo caso, ad esempio, è precisamente la scansione molecolare, unita all'inversione sintattica, a imprimere all'enunciato il decrescendo pesante, come di una progressiva caduta, che rinnova drammaticamente «in situazione» l'antichissimo paragone biblico-mimnermiano. Tutt'al più si potrà riconoscere all'immanenza memoriale dei versi della tradizione un ruolo di avvio genetico, e alla loro compresenza virtuale al sillabato ungarettiano un effetto di contrappunto ritmico, stilisticamente pertinente. La metrica franta dell'Allegria non è che l'equivalente prosodico di quella ricerca della parola «nuda» ed essenziale, o «recitativo atroce» (Bonfiglioli), in cui sta la maggior novità, umana prima che stilistica, della raccolta, e che può portare il poeta a enunciati ridottissimi come il famoso (o famigerato?) «M'illumino / d'immenso», dove tutte le presupposizioni e concomitanze situazionali (sinteticamente deferite al titolo) sono bruciate nella pura illuminazione lirica: ricerca che storicamente rappresenta l'esatto rovescio della strategia crepuscolare, riscoprendo all'interno del discorso comune, per forza di sillabazione interiore, l'assoluto quasi religioso della parola vergine, originaria. Ma questa «fraterna nudità» (Sanguineti), se in gran parte è attinta immediatamente alla prima stesura, in parte è anche frutto dell'accanita e capillare elaborazione che l'Allegria - come tutte le poesie successive del resto ha subìto per oltre un ventennio. Il fenomeno rientra nella più generale corrente della poesia moderna che si può denominare da Mallarmé e Valéry per la quale il testo è inteso come progressiva e instabile approssimazione a un valore-limite, ma, al pari che in questi autori o da noi in un altro infaticabile correttore, Cardarelli, va inteso anche come conseguenza operativa di una concezione della poesia come assolutezza sacrale che aspira a sottrarsi alle causalità della storia; e che nel caso dell'Allegria urta dialetticamente alla contingenzialità bruciante delle occasioni storico-biografiche che la generano. Di fatto l'elaborazione dei testi dell'Allegria (andata di conserva a profondi mutamenti, ancora da indagare, nell'ordinamento e nella strutturazione complessiva della raccolta) consiste soprattutto in arte del levare, in successivi processi, quando non di amputazione, di concentrazione dell'enunciato (esemplificabili, poniamo, col passaggio da «Ci spossiamo in una vendemmia di sole» a « Ci vendemmia il sole»), con relativa eliminazione di connettivi logici e divagazioni discorsive (talvolta ancora di timbro crepuscolare-palazzeschiano).

Ancora sul linguaggio e in particolare sull'elaborazione stilistica progressivamente attuata da Ungaretti nelle diverse stesure della raccolta, ecco ora alcune osservazioni di G. De Robertis:

Hanno parlato in proposito di futurismo. Nel fondo prosastico di certe prime poesie, ve l'abbiamo trovato anche noi: quelle marezzature, quei colori, quegli slogamenti sintattici, quelle piccole libertà. Una realtà bruta trasferita sulla pagina. Ma già in Ungaretti abbiamo subito trovato certe riuscite quasi perfette, quelle inebriate espansioni d'anima, che sarebbero invece il giusto contrapposto del futurismo, sarebbero il salutare ricupero d'una realtà poetica e lirica, da non lasciare adito a nessun dubbio. Ancora in queste Poesie disperse, contro Mattutino e Notturno (l'ultima strofa), Melodia delle gole dell'orco, Tepida vaga mattina, Alba, stanno Poesia, Sono malato, Mandolinata. Si tratterebbe dunque, più che di futurismo d'una esasperazione di quella sua volontà di riduzione e concentrazione che già ai primi anni fruttò a Ungaretti acquisti originali. Solo che, perché questi non restassero un dono gratuito, un portato del semplice istinto, egli diè allora principio alla sua fatica vera, lavorando, si può dire lui solo, per tutta una generazione. Distrusse il verso per poi ricomporlo, e cercò i ritmi per poi costruirne i metri. Tutta la musica della poesia ungarettiana, nelle sue infinite modulazioni, si sprigiona da questo suo farsi graduale, da quest'ascoltazione sempre più all'unisono col proprio animo, di cui le varianti e rielaborazioni sono la storia illustre. Nel distruggere il verso, nel cercare i nuovi ritmi, prima di tutto mirò alla ricerca dell'essenzialità della parola, alla sua vita segreta; e, com'era necessario, a liberare la parola da ogni incrostazione sia letteraria sia fisica. Da troppi mali essa fu insidiata, sul principio: quel crepuscolarismo, quel realismo minuto e scadente, quel colore narrativo e prosastico, quei lezii. Via dunque le cadenze crepuscolari e i modi discorsivi e prosastici («Mi è venuto a ritrovare il mio compagno arabo / che si è suicidato / che quando m'incontrava negli occhi / parlandomi con quelle sue frasi pure e frastagliate / era un cupo navigare nel mansueto blu / È stato sotterrato a Ivry / con gli splendidi suoi sogni / e ne porto l'ombra» = «Mi è venuto a ritrovare / il mio compagno arabo / che s'è ucciso l'altra sera», Chiaroscuro; o ancora: « su Parigi s'addensa / quell'oscuro colore / di pianto / che ci disfa gli edifizi / e ci dà / lo specchio / di una Senna accidiosa / con quel suo / indosso / persistente fastidio / di riflessi di lumi» = «Su Parigi s'addensa / un oscuro colore / di pianto», Nostalgia); via i legamenti che impigliavano il linguaggio analogico («e il clarino coi ghirigori striduli» = «e il clarino ghirigori striduli», Levante; «Sono come / la timida barca / per l'oceano libidinoso» = «Sono come / la misera barca / e come l'oceano libidinoso», Attrito, dov'è un bell'esempio di endiadi, e cioè d'una delle più antiche forme di linguaggio analogico; «tremante parola / nella notte / come una fogliolina / appena nata» = «Parola tremante / nella notte / Foglia appena nata», Fratelli; «eccovi una lastra / di deserto / dove il mondo / si specchia» = «Eccovi un'anima / deserta / uno specchio impassibile», Distacco); via le immagini tarde che toglievano verità e slancio all'aggettivo («e il mare è dolce / trema un po' come gli inquieti piccioni / è cenerino come il loro petto / gonfio d'onda amorosa» = «e il mare è cenerino / trema dolce inquieto / come un piccione», Levante); via le mille determinazioni che impedivano il vago dell'espressione («e nell'imbuto / dei vicoli non si vede / che il tentennamento / delle luci / coperte di crespo» = « nell'imbuto di chiocciola / tentennamenti / di vicoli / di lumi», Levante; «con in cuore un estremo li mio di cicala / strappata all'albero della sua scalmana» - «Nel cuore durava il limio / delle cicale», Silenzio); via tutti gli impacci, per sempre toccare una sintassi fulminea con una fulminea potenza d'invenzione.

Altre liriche da l'AIIegria

Quel movimento di istintiva reazione vitalistica all'orrore della guerra, o di rinfrancamento (il grumo di ricordi che si fa illusione e quindi coraggio), che abbiamo colto nei testi precedenti quasi allo stato embrionale e in dialettica esplicita con le immagini della desolazione, lo ritroviamo sviluppato e variato in molti altri testi dell'Allegria. La parola che dice l'illusione o l'improvvisa illuminazione dell'animo fa retrocedere, non scomparire gli orrori della guerra e i loro tragici riflessi morali; che ancora si annidano nel silenzio (e nello spazzo tipografico bianco) che circonda la parola detta.

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