Questo componimento testimonia un aspetto importante del Pascoli poeta: la sua vocazione "narrativa", che si esprime in testi che egli stesso definì «poemetti» e, in maniera pili articolata e ambiziosa, nei Poemi conviviali.
Sul piano formale merita attenzione l'uso della terzina dantesca: Pascoli nella sua produzione dà prova di una grande disponibilità a utilizzare tutte le forme metriche della tradizione, anche le forme più "chiuse" e più rigidamente strutturate, com'è il caso appunto della terzina. Ma all'interno di questa scelta egli introduce la sua novità, la sua specificità: in questo consiste il suo sperimentalismo, in questo egli è, secondo la felice definizione dei Contini, «un rivoluzionario nella tradizione». Si veda qui, ad esempio, come la solida struttura della terzina venga per così dire insidiata e frantumata dalla frequenza delle cesure (v. 1; 4; 39; 42, ecc.) e degli enjambements (vv. 1-2; 2-3; 7-8, ecc.) dovuti al fatto che l'andamento sintattico (logos) non coincide con la misura metrica (melos): si creano così misure metriche nuove, inedite, all'interno dell'endecasillabo.
Il componimento ci sembra di particolare interesse perché esprime con chiarezza, nella sua struttura narrativa di exemplum o di apologo, un caposaldo dell'ideologia pascoliana, cioè la sua aspirazione a un rapporto di pace e d'amore fra gli esseri umani, il suo vagheggiamento di un mondo fatto di fratelli (è significativo che il vocativo Uomini del v. 39 diventi alla strofe seguente fratelli; legati, l'uno e l'altro termine, dalla collocazione chiastica di pace). Alla base di questa conclusione - o meglio, di questa aspirazione - c'erano parecchie cose: la sua personale esperienza dei frutti della violenza, la paura del mondo contemporaneo con il progressivo accentuarsi della competitività, ecc.
Qui questa aspirazione alla fraternità e alla pace sociale nasce da una sorta di smarrimento cosmico: nulla sappiamo del destino dell'uomo (vv. 34-35: ombra... silenzi cupi), povera ed effimera cosa è, in una prospettiva di eternità, la sua vicenda (vv. 36-38). Siamo di fronte a un umanitarismo, a un solidarismo che prescinde dalle risposte che a questi problemi fornisce la religione. In una lettera a padre Semeria, cui dedicò questo componimento, Pascoli scrive: «Io penso molto all'oscuro problema che resta... oscuro. La fiaccola che lo rischiara è in mano della nostra sorella grande Morte! Oh! sarebbe pur dolce cosa il credere che di là fosse abitato! Ma io sento che le religioni, compresa la più pura di tutte, la cristiana, sono per così dire, Tolemaiche. Copernico, Galileo le hanno scosse».
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