È questa la poesia d'apertura del ciclo di Finisterre, ideale prosecuzione delle Occasioni, che vide la luce nel 1943 a Lugano (perché, «con quell'epigrafe di D'Aubigné, che flagella i prìncipi sanguinarii», come Montale stesso ha ricordato, «era impubblicabile in Italia, nel '43») e poi confluì nella successiva raccolta La bufera e altro (1956). È il testo che nel circuito delle angosciate riflessioni esistenziali montaliane segna l'irruzione di un catastrofico sconvolgimento storico (la bufera, appunto), che suona a conferma e intensificazione di quell'angoscia. Come ha scritto Fortini: «le "bufere" della barbarie fascista, della guerra e [poi] della catastrofe atomica sono [...] interpretate come mere intensificazioni di una unica potenza intrinsecamente malvagia, l'esistenza». Sempre Fortini giudica che nei versi di Finisterre siano contenute «alcune delle più ardue e splendide opere» di Montale.
Due luci compaiono in questa lirica. La luce del lampo della bufera e il tenue bagliore negli occhi di Clizia (grana di zucchero che brucia negli occhi di Clizia: Clizia che ancora tien desta un'immagine del passato e soprattutto il poeta che tien desta un'immagine di Clizia). La luce della bufera rimanda immediatamente ai lampi della guerra, a uno sconvolgimento storico e per estensione cosmico (la guerra «di sempre e di tutti»). La luce di Clizia è una luce potenzialmente capace di rigenerare, qualunque sia l'ulteriore significato (ora esistenziale ora espressamente religioso) da attribuire ad essa. Ma in questo caso c'è un nesso fra le due luci: l'eternità d'istante che Clizia porta in sé è «manna» e « distruzione», tra l'estrema tragicità degli eventi e il messaggio salvifico di Clizia (il varco che si apre nel disordine dell'esistenza) c'è una paradossale coincidenza. Così il tenue bagliore di Clizia, il ricordo di lei si manifesta nel momento stesso del lampo terribile della bufera. Come già in Arsenio, è forse proprio nel momento del massimo disordine storico e cosmico, nel momento in cui il non senso della realtà si mostra in tutta la sua iperbolica interezza, che può soggettivamente aprirsi l'imprevedibile varco per il poeta, l'incontro con il fantasma che può salvarlo?
La bufera e altro è il momento di massima apertura di Montale verso l'ipotesi di un varco che metta nel mezzo di una verità, che dia senso al non senso. L'arco di tempo che va dalla guerra mondiale alla guerra fredda è anche il momento in cui Montale dà più esplicitamente all'immagine del varco e al problema della liberazione dall'angoscia dell'esistere un significato religioso, per quanto dichiaratamente a-confessionale e eterodosso: La bufera e altro, dove per la prima volta viene pronunciata la parola «Dio», ha scritto
l'Antonielli, «o si legge in chiave di reale tensione religiosa o non si legge. Montale ha dato voce al dramma dell'uomo religioso senza religione, del cristiano storico senza Chiesa. Cristiano errante, nestoriano smarrito che lo si voglia chiamare, è indubbiamente fra coloro che meglio hanno tentato di approfondire la turbata coscienza del nostro tempo». Esplicitamente a proposito di un'altra poesia, Iride, in cui si definisce «povero Nestoriano smarrito», Montale aveva affermato che Clizia, «che aveva lasciato l'Oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell'eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la conosce è il Nestoriano, l'uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido astratto monofisita». II nestoriano è l'eretico che crede alla natura umana di Cristo, cioè che il divino si possa manifestare attraverso persone umane (Clizia, in Montale).
Il nesso tra la bufera storica e la luce di Clizia allora potrebbe alludere esplicitamente al necessario «eterno sacrificio cristiano»: necessità della catastrofe perché vi sia
rigenerazione.
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