Il piacere non segue rigidamente l'ordine cronologico degli avvenimenti. All'inizio ci viene presentato il protagonista, il giovane conte Andrea Sperelli, che in un pomeriggio di dicembre (1886) attende nel suo raffinato appartamento in cima a piazza di Spagna, a Roma, la sua antica amante, la «divina Elena» che dopo il "gran gran commiato» della primavera dell'anno precedente ha casualmente incontrato, ricevendone la promessa di un abboccamento. Ma Andrea non ottiene da quest'incontro quel che sperava. Segue, giustificata dai dialoghi e dalle rievocazioni dei due protagonisti, la narrazione retrospettiva del loro precedente rapporto, che occupa i due primi "libri": l'incontro ad un ricevimento mondano; i convegni d'amore in contesti di sofisticata raffinatezza, l'improvviso congedo di Elena che, vedova del duca di Scemi, si è risposata per calcolo con lord Heathfield. Andrea quindi, ossessionato dai ricordi, si stordisce nella dissipazione erotica; e viene gravemente ferito in duello da un rivale. Durante la convalescenza in una villa al mare, in casa dl una cugina, conosce
un'amica di questa, Maria Ferres (che con la sua bambina vi trascorre un periodo di vacanza), la cui spirituale bellezza lo affascina e della quale poi si innamora. Anche Maria - come apprendiamo dal suo diario - é conquistata dalle raffinate qualità di Andrea, che con squisito dilettantismo alterna le prove poetiche a quelle di incisore. Ma con l'autunno entrambi lasciano la villa. Ritornato a Roma (libro III). Andrea riprende la sua vita di disincantato piacere: incontra intanto Elena (è l'incipit sopra citato). Anche Maria è ora a Roma e Andrea con interiore ambiguità e freddezza incalza e circuisce l'una e l'altra. Alla passione sincera e profonda dì Maria risponde il raffinato e allucinato gioco erotico di Sperelli che utilizza Maria Ferres come sostitutivo e sdoppiamento di Elena Aiuti, traendo da questa operazione immaginativa nuove e tormentose eccitazioni». Quando nella prima notte d'amore con Maria, Andrea, nell'impeto della passione, si lascia sfuggire I'invocazione a Elena, tutto crolla: Maria inorridita fugge.
Andrea Sperelli è (è stato) il personaggio più noto e divulgato fra i tanti creati da D'Annunzio ed è il risultato di un'abile contaminazione fra esperienza biografica dell'autore (periodo della "Roma bizantina") e sollecitazioni culturali straniere. Egli rappresenta la versione italiana dell'eroe decadente e D'Annunzio non trascura occasione per mettere in luce la sua aristocratica ascendenza, la sua bellezza e gagliardia fisica, la preziosa raffinatezza del contesto in cui si muove, il suo strenuo impegno per dare alla vita una dimensione estetica. La singolarità dei gusti di Andrea Sperelli, il suo distacco dalla norma, sono tutte caratteristiche dell'eroe. decadente. europeo. ma D'Annunzio si sofferma a precisare delineando cosi una figura di artista non priva di implicazioni autobiografiche - che Sperelli è anche, con snobistico distacco quasi, un artista: «eleggeva nell'esercizio dell'arte gli strumenti difficili, esatti, perfetti. incorruttibili: la metrica e l'incisione. Il suo spirito era essenzialmente formale. Più che il pensiero amava l'espressione. I suoi saggi letterari erano esercizi, giuochi, studi, ricerche, esperimenti tecnici, curiosità». Anche per Sperelli valeva cioè quanto il suo creatore aveva dichiarato qualche anno prima in un sonetto dell'Isotteo: «divina è la parola / ne la pura Bellezza il ciel ripose / ogni nostra letizia; e il Verso è tutto» (il Binni d'altra parte ritiene che «tutti i romanzi di D'Annunzio valgono più che altro come documenti della sua poetica»). Nel suo primo romanzo quindi «D'Annunzio riversò, come in una profonda miniera, e in modo ben diverso da quel che aveva già fatto Huysmans con A ritroso, tutto il grande fiume del decadentismo europeo. E ancora oggi sembra quasi incredibile la capacità di assorbimento dimostrata in pochi anni di apprentissage da quel giovane di venticinque anni».
Nella rappresentazione di Andrea Sperelli c'è però da parte del narratore una certa ambiguità, una sorta di oscillazione di prospettiva sulla quale è opportuno soffermarsi. Partiamo da un riferimento concreto: ad un certo punto del romanzo, di fronte ai tumulti avvenuti a Roma il 2 febbraio 1887 in conseguenza della strage di Dogali, Andrea Sperelli esprime il suo fastidio con la frase «Per quattrocento bruti, morti brutalmente!» diventata famosa per le risentite polemiche che provocò (la citò con riprovazione, a distanza di decenni, persino Croce nella sua Storia d'Italia del 1928). Ma alle critiche l'autore rispose dichiarando: «quella frase è detta da Andrea Sperelli, non da Gabriele D'Annunzio, e sta bene in bocca di quella specie di mostro. Studiando quello Sperelli io ho voluto studiare, nell'ordine morale. un mostro». In realtà i giudizi di valore negativo sul protagonista e sull'ambiente da lui frequentato («malignità'». «indiscreta leggerezza». «cinica indifferenza») non sono assenti nel Piacere, e nella lettera dedicatoria a Francesco Paolo Michetti D'Annunzio definiva il romanzo «questo libro nel quale io studio, non senza tristezza, tanta corruzione e tanta depravazione e tante sottilità e crudeltà vane»: Se è vero che queste dichiarazioni per un verso trovano conferma in qualche valutazione come quelle sopra citate, è però altrettanto vero che il tono dominante, l'angolazione da cui D'Annunzio rappresenta il personaggio e il suo ambiente sono complessivamente ben altre. Vogliamo dire che la volontà, le intenzioni di analisi distaccata e di giudizio il più delle volte cedono il posto alla immedesimazione e alla complicità fra narratore e personaggio; personaggio nel quale vengono proiettate esperienze biografiche e gusti, atteggiamenti intellettuali che da una Infinità di testimonianze sappiano appartenere aD'Annunzio. A lettura finita, più che i giudizi di valore su protagonisti e ambiente, restano nella memoria del lettore gli indugi del narratore nel dipanare la vicenda «fra ville storiche, sale affrescate, concerti, preziosi oggetti di antiquariato» o il fatto che «i tratti fisici dei personaggi, i loro abiti, i paesaggi e gli interni vengono connotati il più delle volte mediante il confronto con opere d'arte; [e che] la citazione letteraria è un elemento costante dei dialoghi». Cioè quei personaggi e quell'ambiente sono realizzata esemplificazione di quella contaminazione tra arte e vita, di quell'estetismo che fu una costante del decadentismo. Né d'altra parte devono sorprendere, alla luce dei risultati, le dichiarazioni della lettera dedicatoria al Michetti: lo scarto fra intenzioni dichiarate e realizzazioni, fra poetica e poesia non è poi così raro nella storia letteraria e le oscillazioni tra velleità di giudizio e adesione, tra distacco e complicità non sono infrequenti (si pensi - ed è un riferimento che ci sembra particolarmente calzante per D'Annunzio - alla produzione di un regista come Visconti o alla conflittuale coesistenza di condanna e attrazione verso il "peccato" in scrittori di matrice religiosa come Fogazzaro o Tommaseo o Mauriac).
Proprio a questa trasfigurazione (o travestimento?) della realtà (di una realtà fra l'altro socialmente e storicamente individuabile) è finalizzato lo stile nel quale il ricorso al termine desueto o arcaico (renunziazione, serenare, palvese, transparenze, ecc.) svolge la stessa funzione che nella descrizione di un volto o di un atteggiamento svolge il richiamo all'opera d'arte famosa: nobilita, equipara la vita all'arte; lo stesso dicasi per le «gittate melodiche» che ricorrono spesso in questa prosa e per certe descrizioni paesistiche di tono pîù lirico che descrittivo.
Per quanto riguarda le tecniche narrative merita attenzione il fatto che nel romanzo coesistono il ricorso al narratore esterno e quello al narratore interno. Nella rappresentazione di Andrea Sperelli, D'Annunzio corre alla prima di queste tecniche e ciò gli permette un certo (relativo) distacco nei riguardi del protagonista, una possibilità di giudizio; invece la vicenda di Maria Ferres, i suoi turbamenti il suo innamoramento sono rappresentati anche col ricorso (libro II) al diario intimo che essa tiene (e quindi l'adozione della prima anziché della terza persona). Soluzione questa - «facile e già propria dei romanzi ameni», secondò E. De Michelis - che permette l'idoleggiamento del personaggio, l'insistenza alquanto manierata sulla sua squisita spiritualità, sulla sua "bontà".
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