LETTERATURA ITALIANA DEL NOVECENTO

Italo Calvino:  Dal neorealismo a Marcovaldo

Calvino neorealista

« Il "neorealismo" non fu una scuola» scrive Calvino nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno del 1964, ma « un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie», in un momento storico in cui «la rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare» e per gli scrittori fu anche sensazione di «un'immediatezza di comunicazione» con il proprio pubblico. I più giovani poi, dice Calvino, dopo l'esperienza bellica e resistenziale non si sentivano «schiacciati, vinti, "bruciati", ma vincitori» e «depositari esclusivi della sua eredità».

Il sentiero dei nidi di ragno: il fiabesco

In questo clima, di sostanziale fiducia nella storia e di generale fervore creativo, Calvino concepisce il suo romanzo neorealista, di un neorealismo sui generis, come si è anticipato, per la componente fantastica e più precisamente fiabesca che lo caratterizza (rilevata già da Pavese). Il Sentiero narra una storia resistenziale che ha per protagonista un ragazzo e un gruppo di partigiani un po' sbandati. Ed è proprio l'adozione del punto di vista del ragazzo Pin che determina il carattere fiabesco della narrazione: « il motivo del gioco, dell'incantesimo, della fiaba [...] e in genere i motivi del meraviglioso, del misterioso e dell'incantato (aggettivi questi che tornano con martellante regolarità) sono tutti motivi evocati dallo sguardo infantile di Pin» (Calligaris).

L'adozione dell'ottica straniante e fiabesca di Pin consente a Calvino « di ridurre realtà a sogno senza che la prima perda consistenza e nettezza di linee» ed evidenzia il suo sentirsi in sintonia con la storia: la Resistenza diventa per Pin una fiaba a lieto fine, quando, dopo varie disavventure, egli fa ritorno dai partigiani e presa la mano «soffice e calma», «quella gran mano di pane» di Cugino, rassicurato si avvia con lui «nella notte, in mezzo alle lucciole» per la strada della vita. Ma il proposito di Calvino è più complesso: l'abbassamento dell'epos della resistenza a una dimensione mitico-fiabesca che ha per protagonisti dei partigiani sbandati e politicamente inconsapevoli mira ad evitare la troppo scoperta retorica celebrativa e un facile populismo, senza far perdere all'evento narrato la sua pregnanza di significati storici. Il pericolo del populismo è in realtà solo in parte evitato: si manifesta soprattutto nell'unico capitolo narrato al di fuori dell'ottica di Pin, in cui il commissario Kim espone le ragioni ideali della lotta partigiana mostrando un'ingenua fiducia (tale apparirà poco più tardi a Calvino stesso) di essere nel giusto e di avere la storia dalla propria parte: «qui si è nel giusto, là nello sbagliato [...] noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall'altra».

Ma, oltre a ciò, bisogna osservare che Calvino attua qui per la prima volta il procedimento della semplificazione delle forme narrative, mediante l'adozione di modelli facilmente fruibili, nella «convinzione che un testo per essere veramente rappresentativo debba poter venir gustato anche da un lettore ingenuo», come osserva la Benussi, che accanto al motivo fiabesco e a quello picaresco può rilevare nell'opera vari echi di romanzi americani (i più vicini, allora, a un modello di narrativa popolare) e persino di fumetti e film assai diffusi. Se ora la scelta ha motivazioni ideologiche storicamente ben comprensibili (la volontà di una letteratura "popolare" in uno scrittore politicamente impegnato), in seguito, caduto quel tipo di impegno e assuntone uno etico-conoscitivo, Calvino sperimenterà altre forme espressive, contaminando vari modelli colti e popolari, dall'allegoria alla fantascienza, dal racconto filosofico alla fiaba, dal racconto d'avventura al giallo, senza però venir meno al principio di mirare a un pubblico vasto e a molteplici livelli di lettura, a realizzare il quale cooperano anche il linguaggio e lo stile sempre limpidi ed eleganti, concreti e razionali, sobri ed incisivi.

Ultimo viene il corvo

L'altra opera narrativa di Calvino che si inscrive nel clima neorealistico è la raccolta di racconti che ha per titolo Ultimo viene il corvo. NIa si notano in quest'opera evidenti segni di crisi ideologica e formale: Calvino, pur abbandonando per lo più l'ottica infantile del Sentiero, si mantiene nell'ambito del modello formale della fiaba; sennonché si è incrinata ormai in lui la fiducia nella storia, e il fîabesco appare percorso da motivi di inquietudine e in sostanza snaturato; di qui anche l'impressione di manierismo che lasciano questi racconti per altro singolarmente talora assaí felici. «Sono storie di paure, di morte, di disagi e di squallori cui manca sempre la mano calda e "fatta di pane" di Cugino con cui mettersi in cammino. La fiaba si manierizza perché non ha più niente di fiabesco da dire: la stessa Resistenza si colora ormai di una luce nuova e minacciosa che è il colore di un sangue che si teme sparso invano» (Calligaris). Sono in effetti gli anni in cui la concordia resistenziale lascia il posto alle contrapposizioni ideologiche violente tra democristiani e comunisti, dando a questi la sensazione che lo spirito della Resistenza sia stato tradito. E sono gli anni in cui Calvino matura il suo distacco dal neorealismo, cui concede però ancora il romanzo "operaio", artisticamente fallimentare, de I giovani del Po, che terrà a lungo nel cassetto e non raccoglierà in volume.

Oltre il neorealismo: l'allegoria

L'invito di Vittorini ad abbandonarsi alla sua vena di affabulatore segna una svolta nella carriera narrativa di Calvino, come s'è detto. Calvino scrive Il visconte dimezzato (1952), racconto d'impianto fantastico ma denso di significati storici, pubblici e privati, che si manifestano in forma allegorico-simbolica: tale forma consente una fruizione immediata e ingenua, che si appaghi della semplice dinamica narrativa superficiale, e una fruizione di secondo livello, che rilevi i significati profondi del testo. La storia di Medardo, diviso in due da una palla di cannone durante una crociata, che ritorna in patria sdoppiato, verte soprattutto sugli scempi compiuti sia dal Gramo che dal Buono, per opposti fini, finché un chirurgo ricucendo insieme le due metà non riporta le cose alla loro normalità fatta di commistione di bene e di male, L'interpretazione della fabula e dei suoi motivi particolari naturalmente non è univoca: dietro al terna del dimezzamento stanno probabilmente riferimenti molteplici alla scissione tra privato e pubblico, tra speranza e realtà, tra etica e ideologia, tra blocchi ideologicamente contrapposti (siamo negli anni della Guerra fredda), con la sensazione che nessuno sia in possesso di verità risolutive e senza più la certezza di aver la storia dalla propria. «Passato il momento eroico in cui era la storia a spingerci a una scelta obbligata, Calvino comincia impercettibilmente a declinare le proprie responsabilità di intellettuale impegnato a indicare, come dice Fenoglio, "the right side", la parte giusta» (Benussî).

La forma allegorico-simbolica è mantenuta nei due successivi tomi della trilogia dei Nostri antenati, che disegnano l'itinerario ideologico-culturale di Calvino in questa fase centrale della sua carriera. In breve, Cosimo, cioè il protagonista del Barone rampante (1957), che per protesta contro l'autoritarismo paterno sceglie di salire sugli alberi e trascorrervi la vita senza più mettere piede a terra e che dichiara che «chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria», è in questo e in molti altri suoi connotati (ad esempio la cultura razionalistica ed enciclopedica: siamo nel Settecento) un alter ego di Calvino che abbandona il Pcr e la concezione della letteratura come strumento di impegno politico. Per conoscere il mondo è opportuno svincolarsi da troppo rigidi condizionamenti (ideologici e politici) e porsi semplicemente al servizio della ragione. IL barone rampante in questo senso vuol essere, come rileva la Benussi, il Bildungsroman (romanzo di formazione) della generazione degli anni difficili: «Capisco tante cose che prima non capivo, guardandole con una prospettiva meno immediata», dichiarerà Calvino stesso più tardi. Ma questo motivo non esaurisce certo il significato del testo, che come sempre vive anche per la felicissima autonomia delle invenzioni narrative e fantastiche e per molti motivi particolari qui non riassumibili.

Quando poi nel 1959 scrive Il cavaliere inesistente, la storia di Agilulfo, cavaliere privo di corpo, ma tutto pensiero e razionalità, immesso in un intricato contesto di vicende cavalleresche, sembra indicare un incupirsi del pessimismo di Calvino se non altro perché lo scrittore alla fine fa suicidare il suo protagonista: si può vivere di sola razionalità? che posto ha la ragione nel contesto della vita reale fatta di spinte molteplici, irrazionali, biologiche, economiche, politiche? c'è ancora posto per l'intellettuale rigoroso che è salito sugli alberi per osservare la terra da distante e capirla meglio, o questi non rischia di dissolversi nel nulla? La metafora del suicidio di Agilulfo e i problemi che tutto il libro pone annunciano che un'ulteriore svolta nella carriera letteraria di Calvino è imminente.

 

TORNA A CALVINO (C) 2000 Luigi De Bellis 900: ALTRO ARGOMENTO