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pp. 6-7 

 

 

Un modello concettuale e culturale di assai lunga durata, che invade per esempio le pagine di Cornelio Tacito incarnandosi tra l’altro in Agrippina Minore madre di Nerone(7) – princeps per le sue arti se è vero che, dopo il matrimonio da lei contratto con Claudio, tutto cambia nel governo dell’Urbe: «Da quel momento l’ordine della città fu sovvertito, e tutto si piegò dinnanzi ad una donna, che, tuttavia, non si prendeva gioco delle cose di Roma con dissoluta sfrenatezza, come aveva fatto Messalina. Agrippina impose un rigido servaggio con energia quasi virile; una palese austerità e più spesso un’arrogante superbia; in casa nessuna dissoluta inverecondia se non quanta potesse esserle utile a dominare. Giustificava poi la sua sfrenata brama di oro col pretesto di provvedere di mezzi lo Stato»(8).

Come si può vedere, non negando minimamente la natura “femminile” di Agrippina, lo storico latino la rappresenta però “maschilmente” asservita a un superiore progetto dispotico: non per caso, implacabilmente braccata dal centurione inviato da Nerone a ucciderla, essa si espone al pugnale gridando: «Colpisci al ventre»(9). Ecco allora: «Il luogo della maternità, che per Agrippina è stata il tramite di un potere esercitato attraverso il figlio, diventa per una sorta di contrappasso, anche il luogo della ferita mortale»(10). Per matricidio cioè cade la proterva Augusta, ma di una maniera che sottolinea il suo essere donna e, innanzi tutto, il suo essere madre anche se decisamente fuori dall’ordinario. D’altronde – suprema prova del suo carattere «fortissimo» – perfino il prezzo della vita risulta «spendibile pur di assicurare il potere al figlio: tra pietà, orrore, dramma è ancora l’ammirazione di Tacito a chiudere la partita»(11).

In verità – è sempre lo storico romano a ribadirlo quando, con rapido cenno, traccia la vita e il destino di Agrippina Maior, moglie di Germanico e madre di Agrippina Minor(12) – una linea di continuità unisce i «comportamenti delle donne Giulio-Claudie: c’è tutto un gineceo», a cominciare da Livia, (terza) sposa amatissima di Augusto, per finire appunto con Agrippina Minore, che esce «prepotentemente alla ribalta … imponendosi all’attenzione e dettando una nuova verifica del codice ‘sessuale’ invalso»(13).

Di siffatta natura allora, la contrapposizione che nella Latinità decostruisce il tràdito rapporto uomo/donna.






pp. 10-11




Arrivando adesso ai tre ritratti, il primo riproduce una figura regale che, è cosa nota, si colloca a mezzo tra verità e finzione. 

Si tratta di Semiramide – fulgida sovrana(25) per certi aspetti assimilabile a Ishtar/Astarte, l’eccelsa dea adorata anzi tutto a Uruk ma venerata pure nella rimanente Mesopotamia, le cui attribuzioni sono l’amore, sia sacro sia profano, e la guerra. Identificata nel culto astrale con Afrodite/Venere, ben presto assimilata alla sumerica Inanna – divinità della terra-madre feconda – al pari della bellicosa e astuta Potenza anche Semiramide promana misteriosa fascinazione.

Esaltata quanto discussa, amata e in pari misura odiata – non di rado presente nella letteratura tragica moderna: basti pensare alla rielaborazione voltairiana, da cui trae origine il libretto musicato da Gioacchino Rossini – è ricordata per il non comune ingegno dagli autori antichi, tra i quali, nel secolo quinto a.C., pure Erodoto di Alicarnasso esprime convinti apprezzamenti: «Molti certo furono i re di Babilonia(26) dei quali farò menzione nella trattazione sugli Assiri, e che eressero le mura e i templi, e fra gli altri anche due donne. Quella che regnò per prima, vissuta 5 generazioni prima della seconda, aveva nome Semiramide, ed eresse nella pianura argini degni di esser visti; prima invece il fiume soleva inondare tutta la pianura»(27).

A dispetto della positiva valutazione però, a dire del medesimo storico la grandezza di Semiramide è superata da quella di Nitocris (o Nitocri)(28), omonima di una sovrana egizia forse identificabile con Net-aker-ti, vissuta attorno al 2200 a.C. al termine della sesta dinastia(29).

Quanto a Nitocri di Babilonia – «più avveduta di quella che aveva regnato prima» – essa, secondo Erodoto, lasciò pregevoli monumenti «e inoltre, vedendo che l’impero dei Medi era grande e non manteneva la pace, ma aveva già conquistato molte città e fra esse perfino Ninive, prese tutte le precauzioni possibili. Anzi tutto rese tortuoso il fiume Eufrate, che prima scorreva diritto e attraversava nel mezzo la città, scavando canali a monte di Babilonia»; quindi «innalzò un argine lungo entrambe le rive del fiume, degno di ammirazione per quanto è grande e alto. Assai a monte(30) … fece poi scavare un bacino per un lago, di poco scostandosi dal fiume, facendolo scavare … profondo sempre fino al livello dell’acqua», con un perimetro di «420 stadi. La terra estratta … la usò spargendola lungo le rive del fiume. Dopo che lo scavo fu terminato, fece portare pietre e fece costruire tutto intorno un parapetto»(31).

Non solo. Una volta fortificata la città, sempre nelle parole di Erodoto la fantomatica Nitocris «compì anche un lavoro accessorio. Essendo la città formata da due parti, con il fiume al centro, al tempo dei re precedenti quando qualcuno voleva passare da una parte all’altra doveva fare la traversata in barca, e ciò era, a quanto io ritengo, fastidioso». Ecco perché, scavato il bacino lacustre, la sovrana «fece tagliare pietre assai grandi, e quando le pietre furono pronte e lo scavo finito, fatta deviare tutta la corrente del fiume verso il luogo che aveva scavato, quando questo si fu riempito allora, disseccatosi l’antico letto, fece costruire con mattoni cotti allo stesso modo delle mura le rive del fiume lungo la città e le uscite che portavano dalle porticine al fiume; e inoltre, quasi esattamente nel centro della città, fece costruire con le pietre che aveva fatto estrarre un ponte, saldando le pietre con ferro e piombo. Su di esso quando era giorno faceva distendere travi quadrate, sulle quali i Babilonesi passavano; di notte invece queste tavole le ritiravano, perché non andassero in giro a derubarsi l’un l’altro. Quando poi il bacino scavato fu trasformato in uno stagno pieno delle acque del fiume e furono terminati i lavori riguardanti il ponte, fece ricondurre il fiume Eufrate dallo stagno nel suo antico letto»(32).

Con tutto ciò, non ancora contenta di così geniali intraprese Nitocris/Nabucodonosor «macchinò anche il seguente tranello: sopra la porta più frequentata della città si era fatta costruire una tomba elevata» sulla quale «fece scolpire una iscrizione che diceva: “Se qualcuno di coloro che diverranno dopo di me re di Babilonia mancherà di denari, apra la tomba e prenda quanti denari vuole; ma se non ne avrà bisogno non apra per altro motivo, perché non sarebbe bene per lui”». Il sepolcro rimase intatto fino al regno di Dario: il quale, avido quanto improvvido, lo aprì e – sorpresa ben grama – «trovò non i denari, ma il cadavere, e una scritta che diceva così: “Se tu non fossi insaziabile di ricchezze e amante di turpi guadagni non avresti aperto le tombe dei morti”. Tale dunque – conclude con palpabile soddisfazione lo storico di Alicarnasso – si narra sia stata questa regina»(33).

Per quanto riguarda in vece Semiramide – con ogni probabilità identificabile con Sammuramat, moglie del sovrano assiro Shamshi Adad V e reggente per il figlio dall’811 all’808 a.C. – essa per le fonti antiche è sposa (magari in seconde nozze) di Nino, saggio re quanto intrepido conquistatore.






pp. 26-27




Dopo la celebrazione pizaniana della comunque dibattuta sovrana mesopotamica, il secondo ritratto, di gruppo, che tengo a presentare raffigura le Amazzoni (o Amazzonidi) – leggendaria popolazione di donne cacciatrici e guerriere. Nelle discussioni degli antichi sulle problematiche discordanze tra mito e storia, l’esistenza o meno delle Amazzoni è comprensibilmente un tema fondamentale – considerato tra l’altro che la subalternità maschile alla componente muliebre torna a forte argomentazione e contrario.

Quanto alle testimonianze, di speciale rilievo, nel secolo primo a.C., la posizione straboniana(96): «Sui monti sopra l’Albania dicono che abbiano dimora anche le Amazzoni(97). Teofane(98), il commilitone di Pompeo, che è stato anche tra gli Albani, dice che tra le Amazzoni e gli Albani vivono gli Sciti Gelai e Leges; il fiume Mermadalis attraverserebbe sia le loro terre che quelle delle Amazzoni. Altri, tra cui Metrodoro di Skepsis(99) e Ipsicrate(100) … dicono ch’esse vivrebbero al confine con i Gargareis(101), sulle propaggini settentrionali dei monti del Caucaso, i cosiddetti Monti di Tuono. Per il resto del tempo si occuperebbero esse stesse di ciascun lavoro, dall’aratura alle piante ai pascoli, e soprattutto si dedicherebbero ai cavalli, mentre le più gagliarde farebbero grandi cacce e si eserciterebbero nelle arti guerresche. Tutte, poi, fin da piccole si cauterizzerebbero il seno destro, in modo da utilizzare liberamente il braccio per ogni esigenza, e in primo luogo per lanciare il giavellotto. Userebbero anche l’arco, la sagaris(102) e la pelta(103); dalle pelli delle fiere ricaverebbero caschi, pellicce e cinture. Per due mesi, in primavera, lascerebbero queste attività per salire sulla vicina montagna che le separa dai Gargareis. Questi ultimi salgono anch’essi, secondo un’antica usanza, e insieme alle donne fanno sacrifici e si accoppiano allo scopo di prolificare. In segreto, e al buio, ognuno prende quella che capita(104), e quando le hanno messe incinte le mandano via. Se partoriscono una femmina, le donne la tengono con loro, mentre portano i maschi agli uomini perché li allevino, e ciascuno, ignorando come siano andate le cose, adotta il singolo bimbo, ritenendolo come suo figlio»(105).

Tale, volutamente particolareggiata, la descrizione di Strabone che tranquillamente accoglie la tradizione del seno bruciato o comunque sacrificato. Una notizia per altro non avallata dall’iconografia e che vive versa «compare per la prima volta in Ippocrate, Arie, acque e luoghi, 17, dove si racconta che le donne dei Sarmati, discendenti delle Amazzoni, si privano della mammella per irrobustire il braccio destro»(106).

Tornando a Strabone, «la letteratura sulle Amazzoni – egli prosegue – ha avuto una vicenda singolare; infatti, negli altri racconti l’aspetto storico e quello mitologico sono distinti, e chiamano miti le tradizioni antiche, false e prodigiose. Invece la storia, sia essa recente o antica, richiede la verità, e in essa di prodigioso vi è poco o nulla. Ma riguardo alle Amazzoni, ora come un tempo, vengono fatti gli stessi discorsi prodigiosi e incredibili. Del resto, chi crederebbe che un esercito, una città o una nazione di donne possa sopravvivere senza uomini? E, oltre a sopravvivere, addirittura abbia attaccato la terra altrui, giungendo a dominare non soltanto i vicini, in modo da arrivare fino all’attuale Ionia, ma anche a inviare una spedizione marittima fino all’Attica? Sarebbe proprio come se qualcuno dicesse che gli uomini di allora erano donne, e le donne uomini! E tuttavia, ancor oggi si dicono cose del genere su di esse, aumentandone così la singolarità; in tal modo si finisce per credere più alle cose vecchie che a quelle attuali»(107).

Così, senza mezzi termini, il narratore di Amasia manifesta il suo lucido scetticismo.

E ulteriormente rincara, con dubbiosità via via crescente: «Dicono addirittura che avrebbero fondato o dato il nome a città»(108) come per esempio Efeso – dove, secondo la tradizione, sotto un faggio innalzano un simulacro ad Artemide e le offrono sacrifici; poi eseguono la danza degli scudi e un’altra danza tutte in cerchio, battendo all’unisono il terreno con il piede al suono di zufoli; successivamente attorno al simulacro erigono, di una magnificenza tale da essere annoverato tra le sette meraviglie, il santuario di Artemide Efesia circondato da due rivi, chiamati entrambi Seleno, che scorrono in opposte direzioni.






pp. 51-52




Lo sfondo del terzo medaglione che barbaglia nella prestigiosa galleria riproduce, in mezzo al deserto di Siria, una città cosmopolita e sfarzosa chiamata Palmira.

Ripetutamente contesa da Assiri, Babilonesi, Persiani, nel 114 d.C., sotto il regno di Traiano, la “città dei palmizi” entra a far parte dei domini imperiali divenendo presto la più importante delle oasi carovaniere. Più tardi, verso la metà del secolo terzo d.C., profittando della nota crisi che attanaglia la Romanità i Persiani tentano di annettersi Palmira non più adeguatamente presidiata, ma interviene un giovane e valoroso nobile locale, Settimio Odenato, che, a ricompensa dei suoi meriti, viene legittimato sul trono di Palmira e s’impegna a mantenere rapporti amichevoli con i Romani. Le cose per altro cambiano alla morte del corrector totius Orientis (secondo il titolo concesso da Gallieno) – ucciso nel 267 assieme al figlio di primo letto Vaballato (che a sua volta può fregiarsi dei titoli di Imperator e Augustus) – quando cioè viene alla ribalta la seconda moglie Bath-zabbai ovvero Settimia Zenobia, che vanta in primis la discendenza da Semiramide Didone Cleopatra, ma anche da Antioco di Siria. Nelle parole di Marirì Martinengo, per la nuova regina «l’autorizzazione data da donne non si ferma qui: un arazzo fiammingo, del XVII secolo, che fa parte della magnifica serie di arazzi Aureliano e Zenobia, conservati a Lucca, nel Palazzo Mansi, raccogliendo una tradizione, rappresenta la madre di Zenobia che, cingendo in un abbraccio la figlia e lo sposo Odenato, li unisce in matrimonio; a parte, un sacerdote, affiancato da un’assistente, compie dei gesti rituali»(211).

Nelle convinzioni di Martinengo, si tratta di una investitura di cifra femminile, che legittimamente include la sovrana in una “genealogia di genere” e sconfessa le valutazioni non sempre lusinghiere della storiografia ufficiale (sia dell’epoca sia posteriore) ovviamente maschile: se infatti la compilazione nota come Historia Augusta(212), nella sezione che s’intitola Triginta Tyranni (per la precisione in Vita Zenobiae 30. 1-22) propone della Palmirena un’immagine e un giudizio «estremamente positivi, quasi il ritratto di una perfetta tra i principi», al contrario in Vita Aureliani 26-30 essa è svilita alla stregua di donna «arrogante e prepotente»; dal canto suo lo storico Zosimo nel secolo quinto «sminuisce la grandezza della regina attribuendo a Cassio Longino e al generale Zabda il disegno e la realizzazione dell’autonomia e della magnificenza palmirene»(213).

Di divergente segno, come si vede, le valutazioni degli storici. Al di là delle quali incontrovertibile resta che, alla scomparsa di Settimio Odenato, Zenobia assume il governo, si attribuisce i titoli del marito e inizia una politica antiromana.

Donna di grandi ambizioni e di prontissima azione, impegnata a favorire tutta la comunità palmirena senza pregiudizi di etnia o di usanze, possiede altresì una solida cultura che le consente di apprezzare al meglio la letteratura e le arti, inducendola a ospitare a corte molti intellettuali tra cui anche uomini di lettere greci. Spinta da mire espansionistiche – a stare a Flavio Vopisco(214), sulle monete del 272 coniate(215) per sua volontà ad Alessandria d’Egitto compare la scritta Septimia Zenobia Sebaste (cioè “Augusta”) – dopo aver conquistato la Siria e l’Egitto essa sposta l’esercito in Asia Minore e arriva fin quasi al Bosforo, rafforzando la sua influenza anche sulle rotte commerciali verso il Mediterraneo. Nel 270 raggiunge l’apice del potere, tanto che Aureliano deve concludere un trattato a ratifica della nuova situazione: a dispetto di ciò, soltanto un anno dopo la sorte della “regina dei deserti” cambia. Aureliano infatti, finalmente sicuro delle frontiere sul Danubio e sul Reno, decide di eliminarla; per parte sua la Palmirena, informata delle mosse dell’avversario, pone l’embargo sui cereali che devono essere inviati dall’Egitto in Italia. Aureliano ricupera l’Egitto e l’Asia Minore fino al Tauro, sconfigge ripetutamente le truppe palmirene (in maniera definitiva a Emesa) e prende d’assedio la “città dei palmizi”, offrendo a Zenobia salva la vita a patto che si ritiri ai confini dell’impero: come prevedibile, l’impavida sovrana rifiuta sdegnosamente e tenta poi di rifugiarsi presso i Persiani. Raggiunta sulle rive dell’Eufrate dai militi dell’Urbe e condotta prigioniera, nel 274 la già gloriosa regina deve tristemente seguire il trionfo del vincitore, destinata a morire qualche anno dopo, in relegazione con i figli in una villa di Tivoli (secondo una divergente notizia riferita da Zosimo, suicida per fame durante la traversata verso Roma)(216).