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pp. 29-30 

 

 

Ma è soprattutto in Apuleio che viene evidenziato «quel viluppo tra erotismo e sangue, che caratterizza Empusa, unitamente al riemergere del motivo stregonesco. Siamo all'inizio delle Metamorfosi e Lucio, che non ha ancora assunto l'asinina sembianza, ascolta con diletto la storia straordinaria del primo dei suoi compagni di cammino, un certo Aristomene. Costui si trovò coinvolto nella vendetta di due maghe, una delle quali era stata amata e poi abbandonata da un tal Socrate, amico di Aristomene. La scena si svolge nottetempo e Aristomene guarda con terrore gli armeggi delle due streghe, non più nel fior degli anni, sul corpo della lor vittima - Socrate - che al momento giace in preda ad un sonno profondo. Una gli immerge sino all'elsa una spada nel collo e raccoglie il sangue che sgorga dallo squarcio in un otre; l'altra tampona la ferita pronunciando delle parole magiche che faran sì che il malcapitato, in seguito, si sveni del tutto. Il dramma, infatti, non si conclude subito, giacché la mattina appresso sul collo di Socrate non si vede traccia alcuna di ferita ed egli dice solamente d'aver sognato che lo sgozzavano. L'azione di queste lamiae - così denomina Apuleio le due maghe - si maschera, allora, da visione onirica o meglio da cauchemar, salvo poi rivelarsi egualmente letale: Socrate non sopravviverà che poche ore alle manomissioni delle lamiae» (46) - o maghe che dir si voglia! Quanto, poi, al personaggio mitico di Lamia, Diodoro Siculo narra che essa «era una regina libica di non comune bellezza e che poi, a causa della crudeltà del suo cuore, il suo aspetto subì un mutamento, divenendo bestiale. Tutto ciò era accaduto perché le erano morti tutti i figli e Lamia, invidiosa delle felicità delle altre madri, aveva ordinato che tutti i bimbi appena nati fossero immediatamente uccisi. Tale "strage degli innocenti" conosceva, però, qualche tregua ogniqualvolta la regina s'ubriacava» (47). Esiste tuttavia «un'altra versione, quella proposta dagli scolii ad Aristofane che, letta assieme a quella di Diodoro Siculo, spiega meglio il perché della crudeltà di Lamia. Anche secondo questa fonte Lamia è figlia di un re Libico, ma, in più, di lei s'invaghisce lo stesso Zeus. La liaison non sfugge ad Hera, che, gelosa quant'altre mai, si vendica uccidendole man mano i figli avuti dal suo infedele consorte. Al che ne segue la voluttà per l'infanticidio, come in Diodoro Siculo. Né qui finisce l'efferatezza di Hera: costei, perché Lamia maggiormente si crucciasse, la rese insonne. Zeus, allora, presala a compassione, fece sì che Lamia potesse togliersi gli occhi a suo piacimento, concedendole, per soprammercato, di mutarsi in tutte le forme che voleva» (48).

 

 


 

 

pp. 78-79


 


Tornando ora a Elena ed Achille, nelle parole di Filostrato «non era stata destinata loro alcuna terra sotto il sole per la vita eterna e le Echinadi, le isole poste di fronte a Eniade e all'Acarnania, erano già infette - Alcmeone, uccisa la madre, abitò alla foce dell'Acheloo in una terra più recente del delitto -; Teti supplicò Poseidone di far emergere dal mare un'isola in cui i due potessero abitare». E così, «dopo aver considerato la grandezza del Ponto e il fatto che, non essendovi alcuna isola, veniva navigato come inabitabile, il dio fece sorgere l'isola di Leuke». Infatti lui «aveva il dominio su tutte le acque, e considerato che i fiumi Termodonte, Boristene e Istro si riversano nel Ponto con immense e perenni correnti, ammucchiò il limo che i fiumi trascinano in mare a cominciare dalla Scizia, e forgiò l'isola», dove «Achille ed Elena si videro per la prima volta e si abbracciarono; celebrarono le loro nozze Poseidone in persona e Anfitrite e le Nereidi tutte e i fiumi e i demoni, che giungono alla palude Meotide e al Ponto» (56).

L'isola, assai accogliente, è abitata da «candidi uccelli, che sono però acquatici e odorosi di mare; Achille li ha resi suoi servi in quanto gli riordinano il recinto sacro con il soffio delle ali; fanno ciò volando rasoterra e sollevandosi di poco» (57). Naturalmente a quanti «percorrono la distesa del mare è consentito penetrare nell'isola - essa infatti sta come un focolare ospitale per le navi -, ma è proibito a tutti fare di essa la propria dimora, sia ai naviganti sia agli abitanti delle coste del Ponto, Greci o barbari che siano. Infatti coloro che approdano qui, dopo aver fatto i sacrifici, al calare del sole, devono risalire sulle navi senza pernottare a terra; se spira un vento favorevole devono levare l'ancora, altrimenti, ormeggiata la nave, riposare nella stiva» (58).

Ma ecco il particolare più sorprendente: poiché si narra che allora Achille ed Elena «bevano insieme e si mettano a cantare: celebrano il reciproco amore, i poemi omerici su Troia e Omero stesso. Achille loda ancora il dono dell'arte poetica che ricevette da Calliope (59) e vi si dedica con maggiore impegno, dal momento che non è più impegnato nella guerra. Il carme in onore di Omero è stato da lui composto in modo divino e veramente poetico» (60).