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pp. 108-111 

 

 

Mogli, concubine, meretrici, etère: tutte donne assoldate, o comunque mantenute, dagli uomini con ruoli diversi, ma con l'identica funzione di accrescere le piacevolezze della propria esistenza e, nello specifico del simposio, di rendere più solleticante e trasgressivo il suo svolgersi.

Dei diversi statuti, quello dell'etèra (239) «oscilla di continuo tra la prostituta (porne) da un lato e la concubina (pallaké) dall'altro. Questa seconda via, che al limite può condurre al matrimonio, e significa l'ascesa sociale, è segnata da tappe progressive: l'affrancamento e la cessazione dell'attività». Quanto alla concubina, il suo «è un modo di essere qualitativamente diverso da quello dell'etera, e più vicino, semmai, a quello della moglie (dámar o gyné): la legge sull'omicidio legittimo (phonos díkaios) pone sullo stesso piano dámartes e pallakái, in quanto co-generanti dell'uomo, e procreatrici di figli liberi (eléutheroi paides). Viceversa, a discriminare i due statuti sta la legittimità della prole ... Porne, hetáira, pallaké: i confini sono fluttuanti, anche perché la posizione della concubina è accessibile tanto alle straniere quanto alle cittadine (astái)» (240).

Tra i numerosi esempi possibili, basti il caso di una cortigiana quale Neera di Corinto, ex schiava, convivente more uxorio con il cittadino ateniese Stefano (241): prostituta «alla ricerca di una collocazione onorevole all'interno, in senso materiale-locale ma anche metaforico, della città, intesa come koinonía ton politón: asté tra le astái, ricca quel che basta, e ambiziosa quel tanto che le serve per raggiungere, a mezzo della figlia (242), le mete più alte concesse ad una asté» (243).

O, meglio ancora, basti la vicenda della più leggiadra tra le etère, Aspasia, originaria di Mileto, amatissima dal grande Pericle - la quale, eccezionale per intelligenza e fascino, giunge a prendere il posto della sposa legittima, ripudiata a dispetto dei vincoli di parentela con lo statista e la duplice maternità. Di fatto, a stare alle fonti Aspasia «dovette svolgere un ruolo notevole nella vita culturale ateniese e in particolare all'interno della cerchia socratica: Platone nel Menesseno finge che Socrate abbia appreso da lei l'eloquenza. Stimata quindi, secondo Senofonte e Platone, da Socrate, fu attaccata invece dai poeti comici: Aristofane arriva a presentarla come una prostituta, tenutaria di un bordello (Acarnesi, vv. 526-527) e non fu risparmiata neppure da Cratino (Chironi, fr. 241K) e da Eupoli (Demi, fr. 99K). Come si ricava dal Catalogo laerziano, su di lei scrisse anche Antistene in termini forse non molto elogiativi. Le fonti positive e negative sulla figura di Aspasia si trovano in parte combinate e riassunte nel capitolo 24 della Vita di Pericle di Plutarco» (244). Così nella medesima opera, tra i celebri processi avverso donne figura in primo luogo l'azione contro l'etèra, accusata di empietà nella evidente speranza di colpire, per suo tramite, l'uomo di stato. Ricorda Cantarella: «Su iniziativa del poeta comico Ermippo, amico del demagogo Cleone, grande avversario di Pericle, Aspasia era stata accusata di tenere un bordello. Meglio, di aver trasformato la sua casa in un bordello nel quale si prostituivano donne libere, dei cui favori avrebbe goduto lo stesso Pericle. Ma, come narra Plutarco, Pericle assunse personalmente la difesa della sua concubina e perorò la causa con tale passione da giungere a versare in giudizio vere lacrime di dolore. Colpiti da un simile spettacolo i giudici assolsero Aspasia» (245).

Dopo la seduttrice milesia, un altro dei più noti giudizi coinvolge Frine - «cortigiana di così straordinaria bellezza da essere più volte rappresentata come Afrodite» - accusata di empietà a seguito di un bagno «preso nel mare di Eleusi, presso il tempio di Poseidone. In un luogo sacro, dunque. E per di più, prima di entrare nelle acque, ella si era denudata, mostrando forme di tale bellezza che, secondo la leggenda, Apelle - che l'avrebbe vista - si sarebbe ispirato a lei per rappresentare Venere "uscente dalle acque"» (246). Anche Frine per altro, ricorda ancora Cantarella, «ebbe un difensore di qualità. Ella, si diceva, era stata l'amante di Prassitele, che l'aveva a sua volta rappresentata come Afrodite Cnidia. Ma al momento del bisogno accanto a lei stava Iperide, il logografo che la voce popolare voleva fosse perdutamente innamorato di lei, e che in quell'occasione diede una prova rimasta proverbiale della sua abilità: vedendo che la posizione processuale di Frine era tutt'altro che semplice, con un vero e proprio coup de théâtre, Iperide tolse la veste alla sua cliente, consentendo ai giurati di ammirare lo straordinario spettacolo e - inutile dirlo - inducendoli così ad assolverla da ogni accusa» (247).

Suonatrici, ballerine, cortigiane, filles de joie. Tutta una sciccheria di donne le quali, non che emblemi di virginale auroralità, sono al contrario abili nel fascinare o comunque nel piacere, imbellettate di ciprie e rossetti, fragranti di profumi, magari adorne di gioielli costosi (248), sempre abbigliate ad arte con vesti succinte o intessute di fili sottilissimi, perciò volutamente trasparenti (249). Di cotale genere, per esempio, le variegate presenze che abitano i frammenti di Anacreonte ...




pp. 130-133



Per ritornare adesso ai Tusci e al loro specifico conviviale, «è senz'altro indubbio» - secondo Torelli - che essi «abbiano appreso dai Greci il complesso cerimoniale del simposio ... Si creda o meno con Peruzzi nella lettura dionisiaca dell'ormai celeberrima iscrizione della tomba 48 dell'Osteria dell'Osa, che con il suo testo in cui si legge euoin, e cioè il grido bacchico di euhoè, proverebbe l'esistenza di rituali di tipo dionisiaco già all'inizio dell'VIII sec. a.C., la documentazione archeologica prova che nel corso dell'VIII sec. a.C. il cerimoniale simposiaco via via si struttura in Grecia come in Etruria, con una tappa decisiva alla fine dell'VIII sec. a.C.» - quando per l'appunto nel Sud dell'Etruria «si stabiliscono ceramisti greci impegnati a produrre per le aristocrazie etrusche avide di lusso intere panoplie di vasi, che con la loro forma e funzione scandiscono momenti e ruoli fondamentali della festa simposiale». Nella fattispecie, i ceramisti greco-tarquiniesi assumono a modello «le produzioni protocorinzie e creano due forme fondamentali, l'oinochoe ... e lo skyphos ... che segnano i due momenti fondamentali del rituale, e cioè rispettivamente l'attingitura e il trasporto del vino il primo, il vaso per bere dei simposiasti il secondo» (22). Quanto alla presenza del lebete, come documentano «le lastre delle regiae della metà del VI sec. a.C. ... la panoplia simposiaca è completata dal vaso centrale, che resterà a lungo il grande calderone di bronzo su sostegno o su alto piede, ben attestato dalle tombe principesche orientalizzanti, che tuttavia ha probabilmente avuto anche un uso altro da quello di pezzo centrale del simposio» (23).

Se allora è vero che, una volta adeguatamente introiettato, «il cerimoniale simposiaco greco resterà incontrastato per oltre tre secoli» ­ dall'inizio del VII a.C. fino ad almeno tutto il V ­ «nelle sale delle grandi case aristocratiche d'Etruria e Lazio» la cosa non sembra incompatibile con «l'esistenza di una primitiva ritualità nel consumo del vino, anteriore all'introduzione delle forme conviviali greche», risalente cioè «a un'antichità assai alta, almeno al IX sec. a.C., se non alla fase del Bronzo Finale»: una ritualità - dunque una cultura - sostenuta dalla documentazione «protostorica etrusco-laziale», oltre che «denunciata dalla presenza nel lessico latino più antico di una parola indigena specifica per il vino, temetum (24) (e dalla coppia oppositiva degli aggettivi abs-temius, "sobrio" e tem-ulentus, "ubriaco") (25), che non a caso compare fra i lemmi di Festo» (26).

In realtà, ribadisce Torelli, quanto si evince «dalle associazioni di materiali in tombe delle necropoli laziali e villanoviane ... risulta perfettamente congruente con l'esistenza di questo antichissimo vino latino (ed etrusco) e di una ben precisa ritualità ad esso connessa», centrata su due essenziali forme vascolari. Delle quali la più antica, presente in tombe sia maschili sia femminili di ogni livello sociale, «è ben nota ai protostorici, che la definiscono "capeduncola con ansa bifora", erede a sua volta di una forma dell'età del Bronzo Finale»: sorta di «tazza-attingitoio ... usata per assumere liquidi e dunque non solo il vino, ma anche l'acqua o il latte». Quanto all'altra forma, pochi - assicura lo studioso - «possono essere i dubbi sullo stretto legame» enoico dell'anforetta a spirale, «vero e proprio fossile-guida delle necropoli laziali e sud-etrusche di età orientalizzante: l'imitazione del suo esito di VI sec. a.C., l'anforetta attica detta nicostenica (27) ... che presenta costantemente raffigurazioni di tipo dionisiaco, ne connota inequivocabilmente l'uso in rapporto al vino» (28).

Si tratta, in somma, di forme ambedue «avite della tradizione etrusco-laziale, del tutto sconosciute» alla Grecità, le quali non solamente possono vantare «una lunga storia in ambiente etrusco dalla prima età del Ferro fino alla piena età storica», ma risultano addirittura prodotte «dagli ateliers attici di ceramisti di epoca arcaica e classica proprio per il ricchissimo mercato etrusco, che evidentemente attribuiva a queste forme vascolari significati particolari di natura rituale e ideologica sopravvissuti e finalmente perfettamente integrati nell'ambito del sistema simposiale greco» (29).




 

pp. 200-203



Di sicuro, il laidume di tali vezzi è un extremum anche per l'epoca di Giovenale. E tuttavia, inveisce il satirico, troppo fonda e dilagata è la perversione ­ la cui prima origine, ancora una volta, scaturisce dal lusso.

In effetti - si è visto anche nella testimonianza di Tito Livio - già tra il II e il I secolo a.C. il contatto della Città Eterna con il mondo greco, e più in generale con il contesto mediterraneo, determina un rapido cambiamento nei costumi, frutto (e al tempo stesso causa) di parecchie trasformazioni. Ormai i maggiorenti Romani sfoggiano gioielli preziosi e abiti must; rendono le loro domus più grandi e sfarzose; coltivano usanze alimentari sempre più ricercate; mandano con regolarità i figli a studiare in terra d'Ellade o, in alternativa, si procurano maestri greci. Al tempo stesso si perde (o di molto si assottiglia) l'autorità atavica della famiglia patriarcale, ragion per cui le donne ottengono maggiori libertà e tendono a sottrarsi al lavoro di cura.

Anche dal punto di vista patrimoniale e dell'amministrazione dei beni, già agli inizi del saeculum Augustum «si può parlare di una certa uguaglianza» tra i generi, una uguaglianza che è «di natura morale, sociale e giuridica, ma non politica». E, naturalmente, rimane esclusiva dei «cittadini romani. Una tale situazione permetterà alle donne con determinate qualità di dedicarsi alla letteratura, alla filosofia, all'arte e alla scienza; di partecipare pubblicamente alle varie festività, di andare a teatro, ai banchetti e così via. Non essendo più prigioniera tra le mura domestiche, la cittadina romana esce in lettiga, per proteggersi dagli sguardi indiscreti, va al circo, a teatro, in tribunale e perfino nel foro chiassoso» (95).

Avverse a ciò si appuntano le frecce al curaro del «municipale di Aquino venuto nella Roma dei Flavii a cercare fortuna come avvocato, erudizione come retore, felicità come uomo, e ben presto ripiegato su se stesso in una medianità di vita che ambizioni e libidini inconfessate dovevano rendere insopportabile a chi non aveva il coraggio di sposare con eroica viltà la causa del tiranno, né, inversamente, di scontrarsi con la realtà fino al martirio fisico o alla distruzione psichica dell¹emarginazione o dell¹isolamento» (96).

Nella visione di Canali, Giovenale «vegetava e si struggeva in un odio anti-tirannico ed anti-ellenico, cioè, oggettivamente, anti-storico, arroventandolo nel segreto della paura di perdere i modesti agi di cui il suo esteriore conformismo doveva averlo provvisto» (97). Di qui, quanto mai prevedibili, il suo vagheggiare la grandezza del passato, il suo utopico esaltare la purezza dei costumi contadini e plebei - ma, al medesimo tempo, l'incapacità di «lanciare un ponte tra quel tradizionalismo di maniera e un'eventuale condizione di ispiratore di rivolte, o anche soltanto di "critico del presente"; egli si accontentava di svelare gli aspetti più atroci e meschini d'un mondo che da quella grandezza "aristocratica" si andava allontanando per sminuzzarsi in una corrotta mediocrità, nei liquami e nel pattume di quello che appariva, sempre più celermente, un processo "democratico borghese" in atto: ridistribuzione della ricchezza, strappata al privilegio del sangue e conferita agli squali vittoriosi nei pelaghi della competizione speculativa e imprenditoriale, abbassamento della cultura al livello della divulgazione ... perdita collettiva di libertà in un mondo che la libertà non aveva conosciuto altrimenti che nel privilegio e nella tracotanza delle "grandi famiglie" ora depauperate nella emofilica dissipazione di rampolli degeneri, tra la iattanza dei nuovi ricchi, dei potenti liberti, degli astuti ed abili orientali, dei generali abbrutiti in orge vinose nelle bettole e nei lupanari insieme con i carrettieri, i gladiatori, i rivenduglioli, gli usurai, i veri vincitori del nuovo ordine imperiale, gli impuri ma sacrosanti propulsori di quello che comunemente si usa chiamare progresso» (98).

D'altronde, superfluo dirlo, al di là della positiva eccezione costituita da Gaio Mario - modello del civis che sa elevarsi dal contadiname bracciantile fino ai vertici del potere - al di là di questo, «l'atteggiamento vero di Giovenale verso i rozzi e gli indotti, verso il sottoproletariato dei circenses e delle babeliche insulae maleodoranti, ma anche verso il populus e il vulgus, così come verso i mercatores orientali, i clientes prostituiti, i patroni venuti dal nulla, i nobiles emaciati dalle veglie viziose, è quello di un irrevocabile disprezzo» (99). L'unica verità positiva delle Saturae giovenaliane resta quindi il «vagheggiamento della sanità piccolo-contadina, dell'Italia municipale, con le sue festività sobrie, con i suoi strati sociali senza reale spessore discriminatorio, con la struttura patriarcale dell'economia rurale a coltivazione diretta» (100).  

Ciò, allora, a monte della sferzante condanna giovenaliana del lusso e affini ...