pp. 43-44
Così dunque 2Re. In modo del tutto analogo, con maggiore o minore ampiezza ed esibita indignazione anche altri passi della Bibbia marchiano a fuoco gli idolatri: così per esempio nel secludere la violenta requisitoria di Sapienza 13-15, dove si sgrana una minuta discriminazione tra i peccatori che adorano la natura divinizzata, le sue forze, i suoi elementi (1-9) e quanti prediligono gli idoli fabbricati dall’uomo e gli animali (13.10-15. 19). E tuttavia: mentre nella pur vigorosa condanna dei primi traluce una certa indulgenza, perché essi possono in qualche modo conoscere il Creatore (e magari avvicinarsi a Lui) per tramite della bellezza e bontà delle creature, più severo, addirittura inflessibile risuona il giudizio nei confronti di quanti adorano amuleti e manufatti i più vari in legno, pietra, metalli preziosi. Apice della polemica, i vibranti versetti a 14. 22-31: «Celebrando riti di iniziazione infanticidi o misteri occulti / o banchetti orgiastici secondo strane usanze, / non conservano puri né la vita né il matrimonio, / ma uno uccide l’altro a tradimento o l’affligge con l’adulterio. / Tutto vi è mescolato: / sangue e omicidio, furto e inganno, / corruzione, slealtà, tumulto, spergiuro, / sconcerto dei buoni, dimenticanza dei favori, / corruzione di anime, perversione sessuale, / disordini nei matrimoni, adulterio e impudicizia. / L’adorazione di idoli innominabili / è principio, causa e culmine di ogni male. / Infatti coloro che sono idolatri / vanno fuori di sé nelle orge o profetizzano cose false / o vivono da iniqui o spergiurano con facilità. / Ponendo fiducia in idoli inanimati, / non si aspettano un castigo per aver giurato il falso. / Ma, per l’uno e per l’altro motivo, li raggiungerà la giustizia, / perché concepirono un’idea falsa di Dio, rivolgendosi agli idoli, / e perché spergiurarono con frode, disprezzando la santità. / Infatti non la potenza di coloro per i quali si giura, / ma la giustizia che punisce i peccatori / persegue sempre la trasgressione degli ingiusti».
Di cotale maniera dunque, in una infiammata climax d’intolleranza persecutoria e sanguinaria, vuoi il Primo o Antico Testamento vuoi i libri profetici bollano d’infamia qualsivoglia culto idolatrico – ossia a dire, qualsiasi alternativa al credo religioso d’Israele.
Una condanna assoluta, a inchiodare per sempre l’adorazione blasfema dei simulacri, falsi benché vaghi. E va di conserva con la dannazione – pur se meno rigida e definitiva – che investe le pratiche magiche, denotando nel Primo Testamento un atteggiamento bensì ambivalente (141), ma in ogni modo di più accentuato e frequente segno negativo (142).
pp. 69-70
Strega. Dal lat. striga, a sua volta da strix (2).
In via preliminare, a circoscrivere l’aspetto che, anche metaforicamente, identifica la “caccia alle streghe” – ossia la “persecuzione del diverso”, dove la parola “diverso” può semplicemente valere “non conforme”, “non allineato” al costume sociale dominante, ovvero “non prono” alle autorità spirituali ufficialmente riconosciute – richiamo due testi fondamentali: abbastanza recente anche se non recentissimo il primo, di età lontana anche se non lontanissima il secondo.
Il primo è un testo filmico di altissimo livello, fondamentale per il messaggio che intende veicolare. Del 1934, s’intitola Vredens dag (Dies irae): una dolente parabola sull’intolleranza e la superstizione, che non per caso l’immenso regista Carl Theodor Dreyer gira nei giorni in cui i nazisti invadono il suo paese, la Danimarca.
La vicenda del film – che riprende in modo variato la tematica già affrontata in La passion de Jeanne d’Arc, girato in Francia dal medesimo cineasta tra il 1927 e il 1928 – si ambienta nell’Europa del Nord, l’anno è il 1623: Marte, accusata di stregoneria e braccata dalla folla, si rifugia nella canonica del villaggio presso la seconda giovane moglie del pastore Absalon Pederssön, Anne; malgrado le suppliche di Anne però, Absalon rifiuta di difendere Marte, la quale – simbolo dell’umanità ferita, ingiuriata, violata – viene torturata e arsa viva: se la sofferenza è il tramite per la salvezza, la Storia entra con tutto il suo orrore tra le pieghe del racconto. Quanto ad Anne, essa apprende che lo stesso Absalon ha salvato dall’accusa di stregheria sua madre, per ottenere in cambio la mano della figlia: di qui, una repentina propensione per le arti magiche e l’inizio della relazione con Martin, figlio di primo letto del pastore. Scoperto il tradimento Absalon muore d’infarto, ma la madre-suocera, che odia da sempre Anne, imputa il decesso a un suo maleficio: abbandonata anche da Martin, la giovane si autoaccusa di ogni crimine e si avvia al rogo, circondata da chierichetti salmodianti.
Una pellicola per molti aspetti sconvolgente, Dies irae. E non avalla la formulazione di giudizi certi – risultando ogni personaggio, e quello di Anne in primo luogo, contraddittorio e ambiguo, calato com’è in un universo limitato e asfittico dove la religiosità, pur se vissuta sinceramente, si confonde con il fanatismo e provoca, inevitabile, l’incinerirsi di ogni slancio vitale in una gelida pulsione di morte. L’unica certezza è la dannazione al soffrire e il peso insostenibile dell’orrore – di cui per altro tutti si confermano, insieme, vittime e responsabili.
Un microcosmo umano che torna a specchio di valori assoluti già nel titolo.
pp. 183-184
Questa l’animata narrazione della serva.
La quale, come prevedibile, desta in Lucio il desiderio di assistere con i propri occhi agli incantesimi di Panfile, «ad esempio quando fa appello agli dèi o almeno quando si muta in altra forma». Perciò un bel giorno Fotide, «tutta commossa e agitata», avvisa il focoso amante che la signora «voleva la notte seguente trasformarsi in un pennuto uccello, visto che con gli altri suoi sortilegi non riusciva sino allora a far alcun passo innanzi nei suoi affari di cuore; in tal forma sarebbe poi andata a trovare volando l’oggetto del suo amore». Ed ecco, uno spettacolo indimenticabile si presenta all’esterrefatto Lucio: «Dapprima Panfile si spoglia di tutte le vesti, poi apre un bauletto e ne estrae alcuni vasetti, leva il coperchio a uno di essi, ne estrae fuori una pomata, se ne sfrega a lungo le palme e si unge tutta, dalle unghie dei piedi alla cima dei capelli; quindi, dopo un lungo e segreto colloquio con la lucerna (43), è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente. Al tremito sottentra poi un lieve palpitare, mentre sul corpo spunta una molle peluria, crescono delle robuste penne, il naso si incurva e si indurisce, le unghie s’ispessiscono e si fanno adunche. E così Panfile diviene un gufo. Emette uno stridulo lamento, spicca piccoli salti sul pavimento per provar le sue capacità, poi s’innalza e vola via al di fuori con l’ali spiegate» (44).
Una trasformazione perfettamente riuscita (45), come si vede. Quanto all’antidoto, per riprendere le sembianze originarie bastano, a dire di Fotide, talune erbe di «modesto» valore: appena «un po’di aneto (46) con qualche foglia di alloro messo a macerare in un bicchiere d’acqua sorgiva in quantità sufficiente per bagnarsi il corpo e per berne» (47).
Né d’altra parte è solo l’assatanata Panfile a gustare l’ebrezza del volo – essendo per esempio l’esaltante esperienza accreditata, in ambito ellenico, pure dal Samosatense per bocca di Glicera. La quale, assieme a Taide, sparla velenosamente di Gorgona: «E tu, Taide, credi che l’Acarnano si sia innamorato della sua bellezza? Non sai che Crisario, la madre, è una strega che sa certi canti tessali e tira giù la luna? Dicono di lei che anche voli la notte. È lei che ha fatto impazzire l’uomo versandogli da bere dei filtri, e ora se lo vendemmiano» (48).
Ma non basta. Poiché, sempre per esemplificare, ancor prima di Apuleio e di Luciano il prolifico Ovidio dedica versi sorpresi bensì venati di scetticismo alle mirabolanti mutazioni magiche di Dipsas, sopra accennate (49): «C’è una vecchia (chiunque voglia conoscere una ruffiana / ascolti), c’è una vecchia di nome Dipsas. / Il nome le viene dai fatti: non vide mai da sobria / la madre del nero Mémnone sui rosei cavalli (50). / Ella conosce le arti magiche e gli incantesimi di Eea e con la sua arte / fa ritornare i fiumi verso la loro sorgente; / conosce bene il potere delle erbe, dei rapidi lacci / sulla trottola che vortica (51), il liquido della cavalla in foia (52). / A suo piacimento si addensano le nubi in tutto il cielo, / a suo piacimento il giorno risplende in puro / cerchio. Vidi, se mi credete, astri stillanti sangue, / purpureo di sangue era il volto della Luna. / Sospetto che costei trasformata volteggi per le ombre notturne, / e ricopra di piume tutto il corpo senile; / lo sospetto, ed è fama: anche negli occhi le lampeggia una doppia / pupilla, e dal duplice cerchio s’irradia una luce (53). / Evoca proavi e atavi dagli antichi sepolcri, e con lunga / cantilena spacca persino la solida terra» (54).
Già nelle opere degli antichi, in somma, è attestata la credenza nel volo magico, che «cominciò a diffondersi presso le classi popolari proprio nel II sec. d.C., quando il mondo greco-romano iniziò a risentire dell’influsso di religioni filosofico-iniziatiche quali il mitraismo, che accordavano ampio spazio alla magia e all’astrologia» per poi «divenire oggetto nel IV secolo degli aspri attacchi di Agostino, Gregorio, Ambrogio e Girolamo» (55). A dispetto dei quali, non serve ripeterlo, tenace fu la sua sopravvivenza e ampia la diffusione in tutta l’Europa, a un livello folklorico-popolare (e non).