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pp. 26-28 

 

 

…Penelope «sa essere bella e accendere il desiderio, come Elena, ma a Elena è superiore per quelle stesse doti che distinguono Odisseo da Achille: l'intelligenza, la scaltrezza, la metis» […]. Ecco perché, ben prima dell'incontro finale, Penelope è impegnata ad assecondare l'azione del suo sposo come per una «connivenza», una «complicità segreta», un «agire a ritmo alterno ma concorde, preludio a un riconoscimento ormai scontato» (42). Ed è anche questa la ragione per cui, nel libro ventitreesimo, essa celebra il suo trionfo di sposa avveduta e fedele (43) - quella sposa inobliabile che l'accorto Odisseo ha saputo pregiare ancor più di dèe fascinose: Circe e Calipso, o di avvenenti fanciulle: Nausicaa, figlia di re e per di più giovanissima (44).

 

 

 

 

p. 49


 

E tuttavia, a dispetto di tanto violenti attacchi, per Filostefano (mitografo di Cirene del tempo di Tolomeo Evergete) la virtù e la bellezza dell'indomita regina sono tali da renderla preferibile a tutte le altre donne, compresa Elena benché figlia di Zeus (25); mentre, parallelamente, l'immagine di una Penelope dignitosa e casta viene riproposta nelle massime, negli epigrammi votivi e funerari. Così, per addurre solo qualche esempio, un epigramma votivo di Leonida di Taranto, della prima metà del terzo secolo a. C., rigorosamente associa alla castità il nome della figlia d'Icario: «Di Filolàida e Nico tre sono le figlie, cretesi: Autònoma, Boìscio e Melitea. Diede la prima quel fuso che vortica e fabbrica i fili, l'altra il paniere vigile nell'ombra, l'altra la spola operosa che tesse le trame sottili, la guardiana del letto di Penelope - doni recati ad Atena, la dea di chi fila, nel tempio, poiché i travagli smisero d'Atena» (AP 6. 289, trad. di F. M. Pontani).

Per quanto concerne invece gli epigrammi funerari - i quali dall'età ellenistica vanno moltiplicandosi, ora non più riservati a personaggi famosi bensì accessibili a tutti, uomini e donne, poveri e ricchi - in essi «la vertu de Pénélope à laquelle on compare celle de la défunte revient à plusieurs reprises dans des épitaphes dont la diversité géographique montre bien le caractère populaire de la légende». Così per esempio nel Peloponneso «à Cléonae, au IIe ou Ier siècle avant J. C., comme à Panticapée de la même époque, l'héroïne du Péloponnèse sert de la même façon à célébrer la morte. Aucun effort d'ailleurs pour particulariser cette vertu désignée sous le terme général d'arété

 

 

 

 

pp. 122-123


 

Da allora a oggi, tuttavia, un'enorme distanza di secoli - e di tenaci traguardi - assegna ormai alla donna la «capacità di stare da signora in questo mondo senza starci veramente, cioè senza sottostare alle sue condizioni» (81). Il che significa poter creare un nuovo orizzonte di senso; aprire lo sguardo alle nuove contraddizioni tra i generi; non auspicare di necessità l'inclusione in qualcosa che, alla donna, non sa dire nulla di sé; segnalare al contrario che la differenza, il «desiderio femminile, è imprendibile, e in questo consiste il suo di più che può creare mondo» (82): significa infine avere un «senso forte del "possibile", inteso come un poter-essere rispondente al richiamo del desiderio più che a quello della imposizione (all'amore più che alla legge), pronto perciò a rimpiazzare il dover-essere e non meno efficace del potere fine a se stesso» (83).

Ecco perché la stessa acquiescente Itacese da talune/i (84), oggi, può esser presa a simbolo della femminile capacità di (auto)conoscenza-coscienza - quindi di esistenza: può cioè divenire simbolo dell'«autenticità soggettiva» - per dirla con Christa Wolf - della donna, ovvero della sua autentica libertà.

La quale, al contempo, è autentica libertà degli/delle altri/e (85).