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pp. 60-62




Un rischio grande, grandissimo sente di correre Plath nell'involontaria ­ pur tenacemente combattuta ­ identificazione con il fantasma materno (e con altri, nefari spettri/antagoniste femminili): si pensi a The Rival (luglio 1961) (93), dove «la descrizione oscilla tra il realismo (la donna fuma, tamburella le dita, viaggia, scrive lettere) e la raffigurazione mitica (assorbe la luce, pietrifica, ha effetto mortifero, è persecutrice). Nel ritratto confluisce probabilmente il ricordo di donne considerate ostili (la cognata Olwyn (94), Dido Merwin, la madre), ma la figura che ne emerge, luminosa e fredda, affascinante e micidiale, ammirata e temuta, non è tanto una donna reale quanto la donna lunare-musa-madre impassibile-strega-medusa che d'ora in poi sarà una delle presenze più ricorrenti»(95) .

Ovvero si pensi a The Other (2 luglio 1962) (96). Che, «al di là delle suggestioni autobiografiche e dell'oscurità di alcune allusioni», delinea il malevolo «ritratto di "un doppio, un odiato e indispensabile altro" (Kroll, p. 71)», dove aggettano le «caratteristiche mitizzate dell¹ossessiva figura già destritta in The Rival: è sorridente, è bianca e statuaria, è sterile, è una superficie fredda e riflettente, è mortifera. Nelle ultime strofe la differenza tra l'"io"e il "tu" si appanna: l'"altra" è un vetro o uno specchio (glass ha entrambi i significati) che si insinua "tra me e me" (str. 14), e non è chiaro di chi sia il sangue che scorre, perché scratch è verbo sia transitivo sia riflessivo. Nell'immagine del pulirsi le labbra c'è anche una probabile allusione all¹adulterio, come ha mostrato Kroll (p. 73) che la ricollega a un passo del romanzo King Jesus di Robert Graves: "Non sta forse scritto: Tale è il costume dell¹adultera: mangia, si forbisce la bocca e dice: Non ho commesso alcun male"?»(97).

Lei/l'Altra/la Mamma-Mummia: una Trinità di perversione e di orrore. Ossia a dire, di feroce, infernale "femminilità".

Che cosa di più consono allora, per esorcizzare tanto malvage (dannose) presenze, che assimilare la miasmatica figura materna all'ibridume gorgonico?

E appunto in Medusa, databile al 16 ottobre 1962 (98), la parola plathiana ­ vindice lama di ghiaccio ­ sembra imporsi ancor più che altrove «come un'opera al nero, raggiunta grazie a una specie di formula magica ­ questioni di toni e suoni e di potere dei suoni di racchiudere le percezioni della mente e del corpo in un complesso acustico di stregata intensità»(99).







pp. 75-82



Di sicuro interesse sembra che, nell'ambiente etrusco di VII secolo, si segnali una «precoce (25) apparizione della Gorgone, ancora dell'arcaico tipo barbuto, su di un'inedita urna cineraria bronzea a forma di casa dalla ... tomba principesca di Monte Michele a Veio, del secondo venticinquennio del secolo, come prezioso indizio ­ nelle valutazioni di Mario Torelli ­ dell'apparizione in Etruria di un 'mostro' mitico ... impiegato con precisa nozione del mito e con finalità pienamente congruente con la destinazione e il significato dell'oggetto»(26) .

Una comparsa non certo casuale bensì, giustappunto, del tutto in asse con la dimensione culturale e religiosa degli Etruschi, notoriamente contraddistinta da «una sostanziale ambiguità, di sesso, di capacità di intervento e di collocazione, urania o ctonia, delle divinità maggiori e minori. Il fatto stesso che esistesse un Tinia, collegato a tin, 'giorno', e pertanto identificato con lo Zeus greco, e accanto ad esso un Tinia Calusna, un 'Tinia di Calu', versione infera e ctonia dello stesso dio (27), la dice lunga su questa ambiguità di fondo». D'altra parte anche la paredra Uni, identificata con Era, «gode della stessa qualità, a giudicare dall'accezione di divinità fortemente legata alla riproduzione (28), assai più della Hera greca classica (29). Perfino Apulu-Apollo, acquisito negli aspetti suoi mantici piuttosto che solari, è dio che 'fa parlare la terra', mentre di Catha-Helios l'Etruria ... valorizza soprattutto il momento dell'occaso e perciò ctonio» (30) .

Di più, «dèi prima facie non ctonii ci appaiono chiaramente come divinità oscure, notturne e del profondo: Selvans è nella pars hostilis, infera, del Fegato di Piacenza (31) e un'iscrizione ... lo presenta come Selvans tuleraia, un Silvanus terminalis, dio prediale per eccellenza collegato ai termini (e così è attestato un Selvans sanchuneta, Silvanus Sanquinianus, dio del predio di un Sanquinius); Menerva è assai impropriamente la greca Athena, ma è piuttosto una dea del fato, nell'aspetto suo volsiniese di Nortia (poi meglio precisata come Fortuna da una perduta statuetta di bronzo) e collegata dalle terrecotte Saulini pertinenti a un santuario di Bolsena ... con Cilen (altra dea notturna e 'fatale' a giudicare dal Fegato di Piacenza), con i Thuluter ... ovvero i Complices (?) forse identici ai Cabiri, e i Vitanices husur, i 'figli di Itanos', stirpe dei Cureti-Cabiri in una dimensione 'fatale' e di oracolo, che emerge benissimo anche dalle sortes ... e dall'altare ctonio di Santa Marinella o dal culto ctonio e oracolare di Portonaccio a Veio»(32) .

Da questa serie di considerazioni si può in somma evincere una (originaria e sopravvissuta in età storica) permeabilità di spazi e di ruoli ­ la quale, da un lato, trova riscontro sia nella «magica rispondenza tra cielo, terra e viscere della terra comunicanti con pozzi e foramina» sia nella mobilità di molti dèi e geni ­ «(come per i Manes romani: Fest. p. 146 L), anche iconograficamente raffigurata dall'attributo delle ali (e alata è ad esempio Menerva nell'altorilievo di Pyrgi)» ­ sia, in fine, nell'emissione di «fulmini 'ctonii' certificati dai libri fulgurales estruschi (Plin. n. h. II, 138)»(33) ; d'altro lato, trova la sua scaturigine «nel ciclo biotico umano, animale e vegetale e nella 'circolarità' di questo ciclo»(34) .

In altri termini, l'intera struttura del pantheon tirrenico è da intendersi, assieme a Torelli, «come 'unità', dalla quale sono separate solo le potenze dichiaratamente ed esclusivamente infere, cui non è concesso, come al mostro canino Olta (35), l'emergere all'esterno. È possibile che queste potenze divine nettamente sotterranee siano solo Calu e la paredra Peth(a)n (TLE 257), se pure il termine calu non ha il valore generico di 'infero': in questa direzione andrebbe anche l'affiorare dei due ... 'prestiti' greci, apparentemente solo iconografici, di Aitu e di Phersipnei, fatto tanto più sorprendente nell'affollarsi ... di divinità con caratteri inferi»(36) .







pp.159-161



Sembra avvitarsi, qui, un intreccio inesorabile di dolore miseria desolazione, un circuito meramente vizioso di abbrutimento e peccato. In vece non è esattamente così. Perché, nella castaldiana visione, la pienezza (infinità) femminile d'amore e di vita vale (aprioristicamente?) a riscattare ogni orrore (indegnità): «Non esistono puttane esistono le donne che hanno tutta la misericordia per loro non è peccato nulla»(12) .  

Senza fallo né macchia quindi, le donne della scrittrice milanese. Grumi di incontaminata, letifica terra ­ tanto qui come in altri momenti e situazioni del libro: in particolare, con (pre)potenza altera nelle pitture di Maria Consalvo di Burgos, incredibile protagonista del secondo capitolo (Spina di ferro).

Sovrana della vita e della morte come la Grande Dea (13), incistata di una gracchiante spina dorsale intorta «di ferro e d'ossa di bambini morti», mai satolla pittrice, Maria Consalvo dipinge esclusivamente un delirio di quadro ­ riproducendo in continuazione se stessa e la sorella morta alla nascita: «Lei e la sorella fulgide, assennate signore della vita e della morte, una bianca e inamidata, l'altra nuda col petto solcato dalla ferita lunga come il colpo violento di un aratro»(14) . E sono tavole, le sue, invase di «solo terra e terra. Di terra erano sostanziate le due donne», sebbene l'una «fatta di pelle vuota, e l'altra solcata da quella ferita». Dipinti tutti «di colore denso pastoso, come fossero fatti di materia viva. Il colore stesso senza più contorno era la sostanza di quelle donne sempre uguali. Un colore denso compatto come terra, senza ombre senza sfumature» (15).

Una follia di quadro, in somma: e si moltiplica senza limite, a riprodurre «due donne uguali sedute su uno scranno. Una era seminuda. Una spina di ferro e ossa le attraversava il corpo come una lama verticale, lasciando intatte le mammelle bianche. Dal punto della vita fioriva una gonna colorata e sul viso, come una corona, si disegnava l'arco nero delle sopracciglia. Lo stesso arco si disegnava sulla fronte dell'altra donna vestita di merletto bianco». Di identica maniera, ancora e ancora, «su tutte le tele erano dipinte sempre le due sorelle uguali. Ogni tanto un falco si levava sulla fronte di una delle due. Altre volte si davano la mano. Altre volte una era stesa e l'altra in piedi, con una mano posta dentro la ferita della sorella. C'era del ferro a terra, e ossa sparse su un pavimento di sabbia» (16).

Una, due, mille, infinite donne identiche.

Sempre e solo Maria ­ Sposa Madre Dea; sempre Maria ­ Domina/Donna ­ viene ritratta. Tele e tele e tele, con sopra raffigurate due donne-sorelle, a loro volta moltiplicate da un baluginante giuoco di specchi. Una miriade di donne ­ invitte Marie ­ le quali, qui e altrove nel romanzo, servono da corona al protagonista maschile, il fiammingo Memling ­ stralunato Odisseo venuto non per caso da Bruges fino all¹isola di Trinacria, sull'altopiano malato di Polizzi Generosa.