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pp. 31-33
 

Ecco perché, a cogliere e vincere l'intrigante quanto insidiosa sfida del kairós, può intervenire solo l'intelligenza sagace - ovvero la metis: che tuttavia, per poter primeggiare, deve essere ancor più aguzza e fulminea, «deve farsi più duttile, più ondeggiante, più polimorfa del flusso del tempo»(54). E questo ancora una volta spiega come Odisseo - della metis supremo campione(55) - sappia assumere tutte le forme(56), prendere tutte le strade, tendere, sempre sinuoso e avvolgente, verso tutte le direzioni, contando su un'immaginazione variegata come una pittura o un tappeto, intricata e indecifrabile «come i labirinti e le costellazioni celesti; e occulta come quella dei ladri, dei mercanti, dei segreti amanti notturni»(57).


Maestro di inganni, l'eroe sa intravedere infinite soluzioni, possedendo egli tutte le abilità del timoniere che, si è visto, indovina il «cammino disegnato dai capricci del mare(58): del cacciatore, che si muove senza rumore e si nasconde senza essere visto: del polipo, che si confonde con la pietra, imitando il colore delle cose a cui si avvicina(59): del sofista, che macchina mille trovate e fa apparire ai suoi uditori le stesse cose ora simili ora dissimili»(60).


Bugiardo matricolato qual è, camaleontico e truffaldino, l'inossidabile re supera ogni prova anche nell'arte del travestimento, tanto che - e lo dice la stessa Elena - persegue con esso uno dei più brillanti successi: «Maltrattato se stesso con brutte ferite, di vili stracci coperto le spalle, sembrando uno schiavo, nell'ampia città dei nemici riuscì a penetrare, e un altro sembrava, ché aveva nascosto se stesso; sembrava un mendico, lui che tale non era presso le navi dei Danai. Questo parendo, s'insinuò nella rocca dei Teucri; e l'ignorarono tutti; io sola lo riconobbi, anche così conciato, e l'interrogai molte volte: e con astuzia eludeva» (Odissea 4. 244-250).


Odisseo come Proteo, insomma: il dio marino dalla cangiante apparenza (61), la cui complessa e variamente interpretabile natura è implicita già nel nome stesso...

 

 

 

 

pp. 103-104


 

Naturalmente, accanto alla volpe esistono parecchi altri animali dotati di metis: tanto per esemplificare, Oppiano parla dei tiri escogitati dall'icneumone; dell'ingannevole astuzia del bue marino; della furbizia delle stelle e dei ricci di mare; dell'abilità del granchio, che si sposta obliquamente(38). Oltre che, naturalmente, della metis delle seppie: con la loro «anatomia "invertita" - gli occhi posti da un lato, la bocca dall'altro, la testa circondata in alto dalla mobile aureola dei piedi - con la loro andatura obliqua che unisce, come quella del granchio o della foca, molte direzioni in una sola volta, con la loro polimorfia e la morbidezza dei tentacoli, le seppie sono simili alle divinità primordiali del mare, la cui metis malleabile e flessibile come il divenire a cui presiedono, dipende non dal diritto né dal diretto, ma dal curvo, dall'ondeggiante, dal tortuoso, non dall'immutabile, né dal fisso ma dal mobile e dal mutevole, non dal determinato né dall'univoco, ma dal polimorfo e dall'ambiguo»(39).


Senza dubbio stretta è la parentela tra seppie e divinità marine(40), in particolare cogente con la Nereide, madre di Achille(41): tanto che, in una accreditata variante mitica, la lucente dea ricorre a ogni genere di trasformazioni pur di sottrarsi all'abbraccio di Peleo(42), e solamente nel suo mutarsi in seppia il figlio di Eaco può vincerla e possederla: perciò, appunto, il promontorio tessalo dove si compiono le metamorfosi di Teti - e dove non a caso il mare abbonda di seppie (Ateneo 30d) - diventa, con il nome di Sepias, luogo consacrato alle Nereidi piedi-d'argento.

 

 


 

 

pp. 174-175


 

Orbene, una volta conclusa questa fin troppo rapida indagine sulle Sirene nella pagana classicità, resta ancora da investigare l'ambito cristiano: dove, si è detto, per l'interpretazione allegorico-religiosa esse per lo più incarnano il fascino traditore e ingannevole, ovvero la duplicità della natura umana, l'ambivalenza dell'umano e del mostruoso in cui coabitano il bene e il male. Di maniera che le mitiche cantatrici vengono a simbolizzare i pericoli «del mondo, del piacere, delle dottrine eretiche. Odisseo legato all'albero della nave starebbe a significare Cristo», il quale, «legato al legno della croce sulla nave-Chiesa», riesce a sfuggire a «pericoli e tentazioni mondane (cioè, appunto, le Sirene)»(67).


Per quanto riguarda il linguaggio figurativo, invece, la presenza del fatale ibrido si rivela massiccia soprattutto nell'arte romanica, dove perdura a lungo l'originaria immagine di donna-uccello, destinata per altro a cedere il passo alla nuova donna-pesce(68). A definirne valori e significati, tuttavia, valgono certamente le differenti connotazioni, che la Sirena via via assume presso gli scrittori del tempo. Così, ad esempio, per il Physiologus(69) - variamente datato tra i secoli II e IV d. C. - esistono nel mare degli «animali» detti Sirene, che simili a Muse «cantano armoniosamente con le loro voci, e i naviganti che passano di là, quando odono il loro canto, si gettano nel mare e periscono. Per metà del loro corpo, fino all'ombelico, hanno forma umana, per la restante metà, d'oca. Allo stesso modo, anche gli ippocentauri hanno per metà forma umana, e per metà, dal petto in giù, di cavallo. Così anche ogni uomo indeciso, incostante in tutti i suoi disegni. Ci sono alcuni che si radunano in Chiesa e hanno le apparenze della pietà, ma rinnegano ciò che ne è la forza, e in Chiesa sono come uomini, ma quando invece se ne allontanano, si mutano in bestie. Costoro sono simili alle sirene e agli ippocentauri: infatti "con le loro parole dolci e seducenti", come le sirene, "ingannano i cuori dei semplici" (Rom., 16. 18). Perché "le cattive conversazioni corrompono i buoni costumi" (I Cor., 15. 33)»(70).