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pp. 70-71

  1.  

 

 

Di più, un brano di Imerio (96), «autore del IV secolo d. C., che ha intessuto i suoi discorsi di parafrasi e citazioni tratti dai lirici arcaici, particolarmente da Saffo e da Anacreonte, attesta la presenza di un siffatto rituale, interno alla comunità, che egli trovava descritto nei carmi della poetessa: dopo gli agoni, Saffo entra nel talamo, prepara la stanza nuziale, stende il letto, fa entrare le ragazze nel nympheion, conduce Afrodite sul carro delle Cariti ed il coro degli Amori e forma con essi una processione che innalza la fiaccola nuziale» (97).

Tutto ciò, è evidente, può avvalorare il carattere erotico del Partenio di Astymeloisa - carattere che, anche a dire di Gentili, è implicito in un altro brano alcmaneo, il cosiddetto Partenio del Louvre (fr. 3 Cal), e traspare soprattutto dai vv. 60­63 (98): celebrando le due compagne che sono oggetto del canto, il coro afferma «che esse, le colombe, "combattono" con loro, che portano l'aratro alla dea del mattino, cioè il simbolo della fecondità procreativa, quello stesso simbolo sacro che Plutarco definisce gamelios, offerta votiva del vincolo coniugale» (99).

Se è vero, poi, che l'enigmatica Aotis invocata al v. 86 può identificarsi con quella «stella mattutina, ma anche vespertina, che l'antico commento ai Fenomeni di Arato designa come la stella lucentissima di Afrodite, un astro che già in età arcaica ebbe la doppia denominazione di Heosphoros ed Hesperos» (100), e, ancora, se è vero che «l'appellativo Orthria (v. 61), riferito alla divinità cui le ragazze offrono l'aratro, riconduce alla stessa nozione, contenuta in Aotis, di luce mattutina», ragion per cui Orthria­Aotis non può che essere «la dea Afrodite, la quale del resto appare già menzionata nella parte lacunosa e meno perspicua del carme, dove era narrato il mito degli Ippocoontidi (v. 17): «nessuno ardisca sposare Afrodite»» (101) - ebbene, se tutto questo è vero, assai più forte diventa la connotazione erotica, anzi, epitalamica del canto (102), accreditando l'interpretazione che vi intravede la celebrazione non tanto di «una normale cerimonia nuziale», quanto piuttosto «di una cerimonia iniziatica (103) all'interno del tiaso» (104).

 


 

pp. 94-95


 

 

Per i greci, infatti, il momento simpotico - "il momento in cui si beve insieme" - acquista tutta una serie di valenze, anzitutto politiche, e si adorna di un ben definito rituale, i cui elementi costitutivi sono il vino, la poesia e l'amore: «la charis, la bellezza e la grazia del simposio, la sua felice riuscita sono date dal rispetto delle norme rituali, dall'osservanza di un certo galateo, da un'equilibrata mescolanza dei diversi piaceri e dei "doni" che la riunione stessa offre. Se tutto ciò si realizza compiutamente, allora l'animo di ciascun simposiasta si colma di euphrosyne, di gioia. Il simposio si propone come uno spettacolo che risulta dall'armonico comporsi di molteplici elementi, e che, nel suo insieme, coinvolge i diversi sensi, spettacolo di cui i simposiasti, con i loro discorsi, i loro gesti, la loro bellezza, sono al contempo spettatori e attori» (17).

Una volta così richiamata questa importante pratica, è appena il caso di ricordare come, già nella prima grecità, l'epos del "vinoso Omero" - secondo la felice definizione di Orazio (18) - non si periti di proclamare per bocca di Odisseo: "È il vino che mi spinge, il vino folle, che fa cantare anche l'uomo più saggio, e lo fa ridere mollemente, e lo costringe a danzare, e gli fa dire parola che starebbe meglio non detta" (19).

In un momento successivo, nel secolo VII a. C., il giambografo Archiloco, da esperto conoscitore dell' "amabile dono delle Muse" (20), vanta la propria abilità nell'intonare lo scintillante canto di Dioniso, il ditirambo, appunto, tutte le volte in cui si trovi "fulminato nella mente dal vino" (21).