pp. 20-22
Già il variegato mondo dell’epos, dunque, offre agli antichi (e a tutti noi) i più compiuti stereotipi femminili: preminenti, anzi, di massimo spicco, com’è logico, tanto Elena di Sparta (essenzialmente negativa) quanto Penelope d’Itaca (al tutto positiva) (32) – destinate per altro entrambe a lunga e svariante fortuna nel correre dei secoli e nel mutare di luoghi e/o contesti (non solamente geografici) (33).
In particolare, poi, per quanto concerne Penelope – che, si è visto, pur con inevitabili limiti e ambiguità (34), incarna il potere in assenza del marito – numerosi racconti erodotei presentano casi, in qualche modo e misura analoghi, di «donne intelligenti e risolute, capaci di guidare imperi e di prendere decisioni in assenza dei rispettivi re. Ad esempio Tomiri, regina dei Massageti, che provocò la fine di Ciro il Grande, o la moglie di Candaule di Lidia, o ancora le regine egiziane e babilonesi (35). Erodoto è affascinato dall’astuzia di queste donne, tanto da volerne tramandare vicende e imprese. L’aspetto degno di nota è che in Oriente, dove si realizza storicamente la regalità negata dalla città greca, la figura della regina assume la valenza di snodo dinastico, perché è lei che permette la successione al trono attraverso l’eredità del sangue, è lei che tiene in vita la sovranità in assenza del re: è questo il caso di Penelope ed è per questo che i pretendenti ambiscono tanto alle sue nozze, al di là delle sue pur celebrate virtù. Per il legame strettissimo che tiene avvinti regina e regno. Si veda per esempio il caso della moglie del re Candaule: quando Gige, il successore di Candaule, ebbe ucciso il re, dice espressamente Erodoto, “ottenne la donna e il regno” (I 12). Altri esempi, stavolta dal teatro, molto frequentato da donne: nei Persiani di Eschilo la regina Atossa, vedova di Dario, figura ieratica come un’icona bizantina, fa da collegamento tra l’ombra di Dario defunto e il figlio Serse, il re pazzo, che sulla scena rincorre il sogno di sottomettere i Greci. Da Atossa, per un gioco di continui rinvii e richiami testuali che Euripide instaura con Eschilo, deriva la figura della vecchia Ecuba nelle Troiane: reppresentata distesa a terra, distrutta nel fisico quanto nella psiche, è l’immagine viva del potere regale perduto e di Troia conquistata; vede passare davanti a sé le donne troiane destinate alla deportazione ed è una presenza fissa, sempre in scena dall’inizio alla fine del dramma» (36)
pp. 32-33
Nausicaa. Personaggio «impalpabile che si distingue all’interno del “tipico”», la dolce figlia di Alcinoo e Arete «risponde tuttavia ai tratti generali connessi con il tema dell’approdo. Anche la sua accoglienza è motivo folclorico: arrivi mediati da una figura femminile, che diventa la “via di ingresso” in un luogo, sia sotto forma di aiuto materiale e di offerta di cibo (Arianna con Teseo, Medea con Giasone, Siduri con Gilgamesh), sia sotto quella di ospitalità sessuale (Circe, Calipso, come la prostituta di Enkidu, come i racconti che Erodoto fa sui Babilonesi e sui Milesii, Strabone sui Massageti, Eusebio sui Geli e Bactriani, per arrivare sino ai mirabilia di Marco Polo). Al contrario di Nausicaa – ma la tipologia al fondo è, invertita, la stessa –, c’è la giovane Lestrigone, la figlia di Antifate (canto X): anch’essa media l’arrivo, anch’essa dirige l’ospite verso la madre, per mandarlo però alla morte (6). Leitmotiv della favola è dunque l’approdo dell’uomo e l’accoglienza da parte della donna; ritradotto come luogo comune della sedentarietà dell’una e della mobilità dell’altro, sarà retaggio per l’Occidente intero» (7).
Nel libro sesto dell’Odissea, è risaputo, Nausicaa e le ancelle stanno giuocando a palla presso le limpide correnti di un fiume: se la gettano l’una l’altra, in una specie di pallamano. Il fiume è terso, bellissimo; sulle sue sponde, distese ad asciugare, si ammirano le vesti regali; le fanciulle, lavata la biancheria e bagnatesi loro stesse, nella festosa concitazione del giuoco scuotono i veli dal capo – con un effetto che Alessandro Boidi definisce «maliziosamente sensuale». Il poeta cioè «indugia a dipingere, con compiacimento e delicatezza di tocco, il quadro – quindi lo dilata ed arricchisce specchiandolo in una similitudine» (8).
Così infatti Omero introduce la tenera fanciulla: «Come va per i monti Artemide urlatrice (9) o sul Taigeto eccelso o su per l’Erímanto, godendo di rapide cerve o cinghiali; con lei le ninfe, le figlie di Zeus egíoco, abitatrici dei campi, scherzano; gode in cuore Letò; lei più alto di tutte leva il capo e la fronte, e si distingue assai bene, eppure tutte son belle: cosí tra le ancelle si distingueva la giovane vergine» (6. 102-109).
pp. 53-54
Anche di qui, dunque, tutta una serie di racconti didattici incaricati di veicolare insegnamenti parenetico-edificanti. Un esempio tra i massimi: la storia di Lucrezia (14), a palmare dimostrazione che l’oltraggio alla virtù di una matrona è vissuto quale intollerabile per la civitas, tanto che il popolo riesce finalmente a reagire ai soprusi dei governanti: infatti, anche ammesso che la vicenda di Lucrezia non sia storicamente vera, non per questo il racconto della cacciata dei re è necessariamente falso.
D’altro canto, anche nella realtà storicamente documentata si incontrano figure di donne fedeli, morigerate, inappuntabili – celebrate anzi tutto dalle iscrizioni funerarie. Così, per esempio, una lunga epigrafe (ultimi anni del I secolo a.C.) contiene lo straziato saluto e la circostanziata laudatio – incisa su una lastra di marmo (15), dove il nome della donna, indicata genericamente come uxor (16), è congetturale – di Quinto Lucrezio, proscritto all’epoca delle guerre civili, nei confronti della diletta Turia (17): la quale, tra l’altro, gli ha fornito il denaro per sopravvivere durante l’esilio ricavandolo dalla vendita dei propri gioielli, e ha rivolto suppliche all’autorità per impetrare il ritorno: «Sono rari i matrimoni che durano tanto da finire con la morte e non essere infranti dal divorzio; noi abbiamo avuto in sorte che il nostro sia durato quarantun anni senza mai un’offesa: oh, se questa lunga unione avesse potuto subìre il distacco estremo per la mia morte, ed era giusto che fosse così, poiché tocca al più vecchio soccombere al fato per primo» (8); «A che rievocare le tue virtù domestiche, la castità, il rispetto, l’amabilità, l’arrendevolezza, l’assiduità al telaio, la religione immune dal fanatismo, la modestia dei gioielli, la sobrietà del vestire? a che parlare del tuo affetto per i tuoi, la dedizione alla famiglia, la deferenza che dimostrasti verso mia madre, come avevi fatto con i tuoi, la serenità che le procurasti, come ai tuoi: queste e altre doti innumerevoli le avesti in comune con tutte le matrone che tengono al loro buon nome. Quelle che io proclamo sono virtù che furono tue soltanto, poiché pochi si sono trovati in circostanze tali che quelle virtù potessero apparire e rifulgere: la sorte umana ha fatto sì che casi del genere siano rari» (9); «Quando il mondo tornò in pace e fu restaurata la Repubblica avemmo giorni sereni e felici; sperammo d’avere dei figli che per lungo tempo la sorte ci aveva negati. Se la fortuna avesse voluto uniformarsi alla natura, che cosa ci sarebbe mancato? ma scegliendo un’altra via, essa pose fine alle nostre speranze. Quel che tu meditasti a questo proposito e tentasti di mettere in atto potrebbe forse apparire mirabile e straordinario in altre donne, ma non in te, se si considerano le altre tue virtù. E perciò sarò breve: disperando di poter mettere al mondo un figlio, dolendoti che io ne fossi privo, poiché, avendo te per moglie, deposta ogni speranza di prole, avrei potuto essere infelice per questo, mi parlasti di divorzio, ti proponesti di lasciare disponibile la casa alla fecondità d’un’altra donna, con nessun’altra ragione, poiché era notorio il nostro affetto reciproco, se non quella di cercare tu stessa e procurarmi una unione al livello della mia posizione. Affermasti che avresti tenuto in comune i figli che sarebbero nati, li avresti considerati come tuoi, e non avresti diviso il patrimonio – fino a quel momento rimasto indiviso – ma anzi l’avresti lasciato sempre a mia disposizione; qualora io fossi d’accordo, ne avresti conservato la gestione. Non avresti serbato nulla per te, non avresti avuto nulla in proprio; da quel momento, avresti usato verso di me i compiti doverosi e dimostrato l’affetto d’una sorella, d’una suocera. Devo confessare che mi adirai tanto da perdere il controllo di me stesso; quelle proposte mi fecero orrore a tal punto che stentai a riprendermi: parlare di separazione tra di noi prima che fosse pronunciata la legge del fato, poter tu concepire nell’animo tuo di non esser più mia moglie, mentre eri ancora in vita, quando, nel momento in cui ero quasi esule dalla vita, m’eri rimasta tanto fedele» (21-23) (18).