La storia delle “Storie vecie

 

All’inizio degli anni ’50, quando ero ancora un ragazzino, il papà e la nonna Bice mi parlavano spesso del nonno Annibale, prematuramente mancato nel 1935 non ancora sessantenne.

 

Uomo dal multiforme ingegno, era stato a Mantova, città in cui era nato e vissuto, stimatissimo medico di cui ancora negli anni ’60 alcuni suoi pazienti conservavano il ricordo.

 

Felicemente dotato di intuito, il cosiddetto “occhio clinico”, veniva spesso consultato, in quei tempi in cui gli strumenti diagnostici erano estremamente limitati, per risolvere casi in cui i pur validi colleghi non vedevano chiaro.

 

Appassionato di musica operistica, aveva una ricca collezione di “78 giri” con le esecuzioni dei più celebri interpreti dell’epoca che suonava su un pregiatissimo grammofono a tromba dotato di una puntina di diamante (la puntina degli apparecchi di uso comune era di acciaio ed andava sostituita ogni 5/10 esecuzioni); il tutto, purtroppo, è andato perduto in seguito alle traversie belliche.

 

Appassionato giocatore di dama, è stato presidente della Federazione Italiana Dama dal 1930 alla sua morte nel 1935; custodisco gelosamente una  medaglia d’oro donatagli dai damisti italiani quando, oberato dai numerosi impegni,  aveva manifestato la sua decisione di dare le dimissioni.

Non fu un giocatore di altissimo livello, ma si era particolarmente distinto nella composizione di brillanti problemi, alcuni dei quali sono stati ripresi dalle riviste specializzate non molti anni fa.

 

Di carattere a dir poco irascibile (il papà mi raccontò che una volta fece volare dalla finestra il piatto della minestra che la nonna Bice si era dimenticata di salare) pochi secondi dopo le sue violente reazioni ritornava tranquillissimo, come se non fosse successo nulla.

 

Grande estimatore del gentil sesso, favorito in questo anche dalla professione, (questo mi è stato riferito in tempi più recenti) pare che non si facesse scappare nessuna occasione, con buona pace della tollerante nonna Bice.

 

Era anche dotato di uno spiccatissimo senso dell’umorismo;  mi ha raccontato il papà che una volta propose ad un ricco agricoltore, che si era lamentato per la parcella secondo lui troppo elevata, di fare a metà, poi spezzò in due parti la banconota che aveva ricevuto e ne diede una all’ allibito paziente.

 

Pur tra l’impegno gravoso della professione medica, della dama e delle avventure sentimentali, tra il 1907 ed il 1919 aveva anche trovato il tempo di comporre, nel dialetto parlato dagli ebrei mantovani, numerose poesie e poemetti ispirandosi ad aneddoti e personaggi del tempo.

 

Di questa sua fatica - che aveva raccolto in due manoscritti intitolati

 

Storie vecie

Rime inedite de

Iagnacou Semola

raccolte

da

Annibale Gallico

 

che non erano mai stati divulgati e il cui contenuto era rimasto in gran parte sconosciuto agli stessi famigliari - si era persa ogni traccia.

 

All’inizio degli anni ’60, durante un trasloco, i due manoscritti sono stati fortunosamente riconosciuti in mezzo ad un mucchio di carte (vecchi libri, giornali e riviste ritenuti di nessun interesse) destinate al macero.

 

I testi hanno attirato l’interesse di alcuni studiosi, fra i quali ricordo Vittore Colorni e Maria Luisa Mayer Modena che ho avuto occasione di incontrare, come testimonianza del dialetto parlato degli Ebrei Mantovani, caduto in disuso e, di fatto, una lingua morta.

 

Più recentemente, nel 2007 Sara Natale, pronipote di Adriana Gallico, una delle sorelle di Annibale, si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Pavia con una tesi sulle “Storie vecie”.

 

E’ stata un’impresa molto impegnativa che ha anche comportato una paziente e minuziosa ricerca lessicale per risalire all’origine etimologica ed al significato delle numerose parole di origine ebraica usate dagli ebrei mantovani e presenti nelle “Storie vecie” (83 fra poesie e poemetti, complessivamente circa 6400 versi).

 

Il valore e l’importanza scientifica della tesi di Sara Natale sono testimoniati dalla pubblicazione, avvenuta nel 2014, negli Atti della Accademia Nazionale dei Lincei (Serie IX Volume XXXII).

 

Credo che le “Storie vecie” meritino di essere conosciute non solo perché documentano una lingua ed un ambiente scomparsi, ma anche per l’ironia e lo spirito goliardico di cui sono spesso permeate; ho così pensato di tradurre alcune di esse in italiano moderno con testo a fronte, per consentire la comprensione non solo delle parole di origine ebraica, ma anche di alcuni termini dialettali non da tutti facilmente interpretabili.

 

Mi è stato di fondamentale aiuto nella realizzazione di questo progetto la consultazione della tesi di Sara Natale che desidero qui nuovamente ringraziare.

 

Per concludere preciso che non ho voluto fare una traduzione poetica, ma solo una parafrasi che agevoli la lettura delle “Storie vecie” nel testo originale, il solo modo per poterle veramente apprezzare.

 

Buona lettura!

 

Da parte del nipote dell’Autore che porta il suo stesso nome.

 

 

ESCI