BIOGRAFIA DI ANNIBALE GALLICO

 

Annibale Gallico è nato a Mantova il 28 gennaio 1876 da Ernesto e Giuseppina Levi, terzogenito di una famiglia numerosa con 8 figli, 5 maschi e 3 femmine.

 

Le condizioni economiche già modeste sono precipitate drammaticamente per la prematura morte del padre quando Annibale era poco più che decenne, tanto che egli fu costretto ad interrompere gli studi, nonostante gli ottimi risultati scolastici, per contribuire al sostentamento della famiglia.

Si mise pertanto a lavorare come garzone di bottega in cambio di pochi spiccioli e di un piatto di minestra: era il normale trattamento economico per quella mansione alla fine del XIX secolo.

 

Pochi mesi dopo, in virtù dei precedenti successi scolastici, ottenne una borsa di studio da parte del Pio Istituto Trabotti e poté così riprendere gli studi, completando la scuola secondaria ed iscrivendosi poi alla Facoltà di Medicina presso l’Università di Padova.

 

Trascorre a Padova i primi 5 anni del corso, per trasferirsi successivamente a Bologna dove si laurea l’ 11 novembre del 1901 con una tesi in pediatria: ‘Atrofia infantile complicata a tubercolosi cronica generalizzata’.

 

Il 26 marzo 1904 si sposa con Bice Franchetti, dopo un’attesa durata ben 11 anni; si erano infatti conosciuti nel 1893, quando avevano rispettivamente 17 e 15 anni.

 

Dal matrimonio nacquero 3 figli: Enzo, che seguì le orme paterne nella professione medica, Ennio, che si laureò in Scienze Naturali ed insegnò presso l’Istituto Tecnico ed il Liceo Scientifico di Mantova, e Laura.

 

Come medico fu molto apprezzato per la sua dedizione alla professione e soprattutto per lo spiccato acume nel diagnosticare la natura delle malattie che affliggevano i suoi pazienti; per questa sua capacità veniva spesso convocato dai colleghi per un consulto.

Negli anni ’60 del secolo scorso, trenta anni dopo la sua prematura scomparsa, molti suoi ex pazienti conservavano ancora il suo ricordo.

 

Durante la Grande Guerra fu arruolato come ufficiale medico; anche in questa occasione ebbe modo di distinguersi, meritò una medaglia al valore e fu promosso al grado di capitano.

 

Appassionato giocatore di dama fino dai tempi del liceo, alla fine dell’ ottocento aveva riunito a Mantova un folto gruppo di damisti, primo nucleo di quella che nel 1924, per iniziativa di Luigi Franzioni, sarebbe diventata la Federazione Damistica Italiana, iniziativa alla quale egli diede un valido sostegno.

 

Ancora studente universitario aveva scritto articoli di dama sul periodico Pasquino (di Roma); collaborò anche alla rivista ‘La Dama’, fondata nel 1901.

Nel 1921 contribuì alla nascita della rivista mensile “Italia Damistica”; dal 1923 tenne sul quotidiano “La Voce di Mantova” una rubrica settimanale dedicata alla Dama.

Fu indubbiamente un giocatore molto valido, ma non si distinse particolarmente a livello nazionale; eccelse invece nella composizione di problemi, molto eleganti ed al tempo stesso di non facile soluzione nella loro apparente semplicità.

 

Quando nel 1930 il Franzioni diede le dimissioni da presidente della Federazione gli successe nella carica; nessuno, durante la sua presidenza, ebbe motivo di rimpiangere quella, peraltro eccellente, del Franzioni.

Tenne la carica fino al giorno in cui morì, il 17 giugno 1935.

 

Nonostante il gravoso impegno della professione medica e le ore, spesso sottratte al sonno, dedicate alla dama (e non si devono nemmeno dimenticare le scappatelle extraconiugali per le quali la professione gli offriva frequenti occasioni cui non sapeva rinunciare) trovò il modo di scrivere, nel dialetto parlato dagli ebrei mantovani, numerose poesie e poemetti ispirandosi alla vita nel ghetto di Mantova negli anni a cavallo dei due secoli.

 

Queste 83 composizioni, circa 6400 versi, alcune delle quali furono scritte quando egli era ancora studente, si rifanno ad aneddoti e personaggi del tempo; nel periodo intercorso fra gli anni 1907 e 1920 l’autore le ha raccolte in due manoscritti dal titolo “Storie vecie”, sotto lo pseudonimo “Iagnacou Semola”.

 

Come già accennato morì, non ancora sessantenne, la notte del 17 giugno 1935, stroncato da un infarto mentre stava componendo il suo ennesimo problema di dama.

 

Il suo carattere senza dubbio particolare, come peraltro traspare chiaramente dalla lettura delle ‘Storie vecie’, si manifestò ancora una volta quel giorno che, parlando seriamente, disse ai familiari: ‘quando morirò, dovrete mettere nella bara una damiera ed una lampada perché, se mai dovessi risvegliarmi, saprei come passare il tempo’; la figlia Laura confermò di avere esaudito il suo desiderio.

 

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