A sentire Vendola nelle numerose occasioni offerte da questa campagna elettorale, si ha l’impressione di riconoscere, al di là delle singole incursioni tematiche, una precisa matrice, un’ispirazione di fondo, che, sebbene rielaborata in vesti autonome e con l’originalità di sempre, pare coincidere con la trama di riflessioni intessute nell’ultimo ventennio da Franco Cassano, il padre del pensiero meridiano. Sociologo, professore universitario, fondatore e leader carismatico di “Città Plurale”, il nostro non abbisogna certo di ulteriori presentazioni.
O. R.: Del pensiero meridiano, in questi anni, è stata fatta incetta. In tanti – da D’Alema a Tatarella - si sono resi responsabili di appropriazioni indebite, spesso con le peggiori intenzioni. Con Vendola, che facciamo? Lo autorizziamo a farsene l’interprete politico?
F. C.: È ovvio che io guardi con attenzione a tutti i modi in cui viene adoperato il pensiero meridiano. In esso vi è sicuramente un elemento visionario, una volontà di cambiare alcune cose molto in profondità, a partire dagli equilibri geopolitici; per Vendola questo conta e di ciò sono contento. Nella fattispecie, il suo discorso contiene una doppia specificità: da un lato il riferimento al Mediterraneo, che implica la ricerca di un’autonomia, non è né retorico né puramente elettorale. È dentro la sua storia, i suoi referenti politico-culturali (si pensi solo a don Tonino Bello). Mentre vi è una larga parte della politica che recupera il Mediterraneo solo perché suona bene e non richiede impegni precisi. L’altro aspetto è che i passaggi che Vendola ha attraversato e dovrà attraversare rassomigliano di più, nonostante la sua storia di partito, a qualcosa che percorre il mio lavoro (penso soprattutto all’ultimo libro – Homo civicus). Vendola sta portando il partito della Rifondazione Comunista a superare la logica della testimonianza (l’inseguimento del 7%), a porsi il problema della conquista della maggioranza. Egli mette così in discussione quell’elemento di ambiguità che consiste nel dichiararsi radicali pur restando sempre all’interno di un circuito della politica che si riproduce in modo stabile, dove la testimonianza corre il rischio di diventare un mestiere. È una sfida a rompere certi schemi e credo che lui, anche in virtù della sua biografia, abbia dentro di sé una maggiore abitudine alla rottura degli schemi rispetto all’ortodossia del militante classico e quindi stia liberando questa sua differenza in senso positivo. Nei suoi discorsi in campagna elettorale ho ascoltato alcuni riferimenti, che non mi sembrano né strumentali né tanto meno nostalgici, sia a Moro sia a Berlinguer. Mi sembra che in questo percorso Vendola stia recuperando, in un contesto completamente nuovo, il meglio della tradizione del PCI, cioè la consapevolezza della complessità della politica, della molteplicità delle facce, che è tutt’altro rispetto all’accomodamento nel radicalismo. Quale che sia l’esito dello scontro elettorale mi sembra uno sviluppo di grande rilievo.
Ricominciamo dall’inizio: le primarie. L’argomento è stato temporaneamente rimosso, ma prima o poi vi si dovrà tornare. L’euforia del debutto ha subito lasciato il posto ad un fuoco incrociato contro la loro adozione. E a sparare non sono stati soltanto i partiti sconfitti, ma il fior fiore della nostra classe commentizia. L’argomento principe si può ridurre ad uno: le primarie – queste primarie – sono pressoché illegittime sul piano della logica democratica, in quanto premiano oltremisura le minoranze (devote e militanti) a scapito delle invisibili maggioranze (pigre e silenziose, ma non per questo condannabili a non essere rappresentate). D’accordo?
Tali obiezioni, arrivate solo dopo il risultato delle primarie, sono del tutto fuori strada per quanto riguarda la Puglia. Vendola non ha vinto perché è stato il più radicale, bensì perché era il più radicato. Una parte del voto “moderato” – senza cessare di esser tale - si è orientato su Vendola in quanto la sua storia di dirigente è stata scritta qui, attraverso mille battaglie, mentre dall’altra parte c’era un candidato che, pur avendo delle qualità, nessuno conosceva. Non vi vedo un fenomeno di radicalizzazione quanto un giudizio sulle procedure della formazione della volontà politica, nonché sui meccanismi di reclutamento della classe dirigente.
Di quelle obiezioni pavento però il presupposto implicito, la convinzione che i partiti, per chissà quale ragione, siano depositari della capacità di trovare il candidato più adatto. Il che, oltre tutto, è in contraddizione con la realtà empirica, vista la tradizione di sconfitte che ne ha segnato la storia, fino alla “primavera pugliese”. Certo, che tra militanti ed elettorato vi sia uno scarto è un’obiezione antica, poiché, si dice, il militante ha un rapporto più intenso con la politica. Ma chi sono gli interpreti autentici della volontà di coloro che non partecipano? Le ragioni per cui non si partecipa sono tante: perché ricondurle alla categoria del moderatismo? Mi sembra un’interpretazione fragile e non disinteressata, che legittima a priori l’autoreferenzialità dei partiti.
Ciò detto, io non feticizzerei le primarie. Mi piacerebbe ragionare, ad esempio, sulle barriere all’ingresso - spesso molto pesanti -, mi piacerebbe che le si organizzasse in modo da spingere i candidati a definire un programma, ma resto convinto che nelle primarie pugliesi, se il candidato proposto dalla maggioranza dei partiti avesse avuto un legame più antico e più forte con il territorio, avrebbe vinto, anche se più moderato di Vendola. Siamo invece ad una chiara manifestazione del desiderio di contare, che si era manifestato già nella primavera pugliese: le persone – anche coloro militano nei partiti - non sono più disposte ad accettare di non essere coinvolte nelle decisioni importanti.
Ma dev’essere questo il destino della politica? Rispecchiare l’umore maggioritario? Non c’è alcuna possibilità, in democrazia, di far sgorgare visioni del mondo non viste dai più? Non c’è speranza che ritorni il gusto della sfida per l’egemonia?
Eviterei, in primo luogo, di pensare che esista qualcuno che abbia un rapporto privilegiato col senso comune e che riesca quindi ad afferrarlo. Se ammettessimo l’esistenza di sensori capaci di captare l’umore maggioritario, avremmo un ceto politico ridotto a un gruppo di sondaggisti e di candidati scelti dagli esperti di marketing, insomma faremmo come fa Berlusconi. Occorre, invece, moltiplicare le sedi e le occasioni per aprire la politica alla partecipazione. Ritenere i cittadini attivi un ostacolo implica una concezione inaccettabile della democrazia: cominciamo invece a praticarne tutti gli strumenti e ad inventarne di nuovi, allarghiamo il campo della cittadinanza, rendiamola più aperta e più facile. Insomma invece di immaginarci un popolo timido e moderato, ansioso di dare la delega, proviamo a dargli la parola.
Passiamo ai programmi... Vendola ha annunciato più volte di voler creare, una volta eletto, un assessorato al Mediterraneo. Ebbene, fin qui, la retorica mediterranea ha prodotto in Puglia e dintorni un bel po’ di evasioni festivaliere, di collaborazioni musicali e artistiche, di depliant turistici, di dichiarazioni di principio e poco più. Questo tema, a lei tanto caro, è destinato sempre a esaurirsi nella folclorizzazione? Come si fa a trasformarlo in materia politica?
Preciso, innanzi tutto, che non sono candidato a occupare la poltrona a cui hai fatto riferimento… Contro le manifestazioni musicali e artistiche non ho nulla, anzi, penso che esse corrispondano ad un sentimento profondo: il difetto sta nel loro isolamento rispetto alla politica. Si corre il rischio di pensare che basti questo, mentre c’è un gradino, una soglia dura - quella politica, appunto - che non si può rimuovere. Apprezzo l’idea dell’assessorato al Mediterraneo, anche se penso che il tema debba attraversare tutta l’attività di governo della Puglia, stimolando un intreccio tra saperi e una politica estera diversa, fatta di grandi decisioni ma anche di piccoli atti. Il problema è il quadro generale, è avere chiaro che si tratta di un passaggio chiave della storia italiana. La costruzione dell’autonomia in politica estera costituisce un nucleo duro (la stessa storia italiana, del resto, ci dice che per questo obiettivo sono morte delle persone: Mattei, Moro, ecc.). Trovo significativo che, dopo un lungo periodo di presidenza alla commissione europea, Prodi parli ripetutamente del Mediterraneo (in verità lo fa persino Fini): occorre capire se ci si muove sotto tutela americana o se si pensa a costruire davvero uno spazio diverso rispetto al quale ridefinire anche l’Europa. Questa è la difficile partita che ci attende e che richiede, oltre alla volontà, la capacità di traghettarvi la complessità del quadro, di portarsi dietro l’Europa e il governo del paese. Dentro questo quadro, si potrebbe provare a operare delle forzature, delle spinte in avanti.
L’autonomia è il problema principale: occorre costruire nel Mediterraneo reti capaci di connettere le espressioni della società civile dei diversi paesi, erodendo il controllo poliziesco di molti dei governi in carica. La paura del fondamentalismo ha finito, in forme diverse, per rafforzare il carattere oligarchico di alcuni dei regimi presenti nell’area, mentre occorrerebbe dare più fiducia ai movimenti autonomi della società. La politica estera la si può fare in tanti modi, ad esempio sbarcando, senza chiedere permessi a nessuno, nei luoghi coi quali s’intendono costruire connessioni diverse, a partire da una storia e una tradizione di rapporti di grande valore. I terreni sui quali lavorare potrebbero essere tanti, a partire dalle Università, che avrebbero molto da guadagnare andando in questa direzione (purtroppo siamo in grave ritardo: basti pensare che a Bari esiste un solo insegnamento universitario di lingua araba). Vendola ne è consapevole e credo ne abbia il coraggio necessario, miscelato al realismo, che pure non gli manca.
Avessi davanti un economista, gli chiederei, a questo punto, su quali fattori costruire un vantaggio competitivo pugliese? Ma proviamo per un momento a uscire dai ranghi disciplinari. Lei si è mai chiesto quale narrazione di fondo dovrebbe guidare il tessuto economico della nostra regione? Su quale vocazione scommettere?
Innanzi tutto, cercherei di collegare la vocazione della regione con la vocazione del Mezzogiorno tutto. Non si tratta solo di una questione etica, poiché se per andare in treno da Bari a Napoli ci si continua ad impiegare cinque ore, qualsiasi scenario ambizioso rischia di apparire velleitario. A forza d’inseguire la propria vocazione ci si scolla sempre di più dal territorio che si ha attorno. La dimensione regionale è un elemento irrinunciabile, ma una forte coesione meridionale potrebbe aiutare ad inserirsi meglio nello scenario difficile della competizione. Se puoi contare solo sulla scala regionale riduci l’arco delle opportunità, mentre occorrerebbe pensare più in grande. Considerando il suo svantaggio rispetto ai livelli d’integrazione in Europa, il Mezzogiorno dovrebbe puntare a unificarsi, facendo in modo che la giusta valorizzazione delle sue parti non si trasformi in un processo virale di secessione. Il neo-meridionalismo, con la sua esaltazione del localismo virtuoso, ha completamente rimosso questo problema: certo, ha contribuito alla mobilitazione delle forze, all’amor loci, all’azione collettiva, allo spirito pubblico, ma questo non è sufficiente. Io non sono un amante del regionalismo-leninismo e mi sembra che Vendola abbia ben presente la necessità di tenere insieme i vari pezzi di Sud e che la Puglia potrebbe avere un ruolo di primo piano in quest’opera. Siamo in una delle poche regioni meridionali in cui la narrazione non è occupata dalla malavita organizzata e il cui tessuto sociale produce ancora idee, ma il nostro compito non è fare della Puglia la più bella del reame, bensì provare a costruire una nuova unità meridionale. Da questo punto di vista, la giunta Fitto si è mossa esattamente nella direzione opposta. Quella che viene percepita come arroganza personale corrisponde anche all’obiettivo di custodire il proprio regno tenendolo separato dagli altri, riducendo l’espansività positiva che la Puglia potrebbe esprimere. Vendola, al contrario, mostra di aver percepito questa complessità.
Tornando alla questione della “ vocazione ”, escluderei prima di tutto quella militare ed eviterei di puntare su un unico fattore. Bisogna favorire una smilitarizzazione e scommettere su un ruolo centrale della cultura e dell’intelligenza, oggi si ama dire del lavoro immateriale: si dovrebbe essere capaci di trasformare il sentimento meridiano in forme concrete di collaborazione con i paesi del Mediterraneo. Non partiamo da zero e bisogna far conoscere e moltiplicare esperienze positive, come quella dell’Istituto agronomico mediterraneo, che non siano mera tecnologia dello sviluppo, che non puntino alla formazione dei classici quadri, ma di persone capaci d’interagire con le culture altre e di offrire servizi di grande rilevanza, dall’agricoltura alla difesa dell’ambiente, allo sviluppo della società civile. È difficile affrontare il livello di questa sfida, poiché richiede che le energie esistenti non si disperdano, ma entrino in collegamento, creando il valore aggiunto che nasce dalla loro cooperazione. Io credo che il sud “meridiano” possa e debba essere questo valore aggiunto, debba saper sfruttare, tanto per rimanere nel lessico economico, quel vantaggio competitivo che viene dalla sua posizione, debba puntare sulla propria specificità, non abolirla. Ma questo vuol dire il contrario di ogni chiusura, l’esaltazione del suo ruolo di interfaccia tra i popoli. Ecco perché ogni forma di auto-reclusione, regionale o disciplinare, è al di sotto del compito. E in primo luogo al di sotto del compito è una politica intesa come specialismo separato, che è, almeno a sinistra, il presagio borioso delle sconfitte.
La società civile non potrà che giocare un ruolo centrale negli scenari che lei prefigura. Ma la cosa è quanto meno problematica. A cominciare dalla finzione spesso reiterata d’immaginarla come un mono-blocco, un attore unico. Eppure le anime sono diverse e le difficoltà di comunicazione infinite. Ad esempio, come conciliare le istanze del movimento dei movimenti con quelle del fantomatico “ceto medio riflessivo”, che lei ha contribuito non poco a mobilitare in questi anni?
Uno dei miei problemi è trovare un linguaggio comune, che metta assieme queste esperienze preservandone le differenze: è evidente che la cittadinanza può essere vissuta sia come semplice momento di discussione collettiva e di condivisione delle competenze sia in maniera più radicale, mettendo al centro il tema dei beni comuni. È una tastiera duttile che vorrei tenere assieme per liberare il massimo di energie da utilizzare in molte battaglie. La complessità non ammette ricette univoche. E io penso ad una politica, l‘ho già detto, capace di ospitare e coagulare la complessità.
È presto per parlarne, ma è innegabile che già da tempo serpeggi negli ambienti social-civili la “delusione Emiliano”. Se con Vendola le cose andranno come è bene che vadano, sarà possibile pensare a un rapporto virtuoso e a meccanismi di rappresentazione stabile della dialettica tra società civile e istituzioni o siamo condannati a vivere nell’eterna oscillazione tra euforia elettorale e depressione governativa?
La spirale che bisogna evitare è quella che vede, da una parte, i membri delle giunte asserragliati come soldati giapponesi e, dall’altra, i grilli parlanti. L’esperienza del governo è complessa e bisogna sapere che i grandi interessi non smettono di esercitare il loro peso dopo le elezioni, altrimenti sarebbero piccoli interessi. Costruire una forma di relazione tra sfera pubblica e competenze è un’impresa inedita: c’è stata una convergenza tattica, ma non culturale e strategica. Occorre pensare per questo a delle strutture adeguate. Il mandato che personalmente mi sono ritagliato è quello di provare a connettere le figure intellettuali, di provare a far conoscere loro il valore dell’azione collettiva. Con il passare del tempo mi rendo conto che il mio percorso costituisce un trait d’union tra più generazioni. Questo da un lato mi spinge a moltiplicare le energie, ma dall’altro mi fa avvertire una forma di solitudine, un carico individuale, che proprio il passare del tempo rende sempre più pesante, una responsabilità rispetto alla quale ho scarsi strumenti. Ma non demordo, perché avverto nello stesso tempo tanti segnali importanti del desiderio di cambiamento. Mi piacerebbe arrivare un giorno ad una grande alleanza meridionale, capace di contenere il meglio dei partiti e della società civile, di dare vita ad un rinascimento delle nostre terre; sarebbe il sud che ricomincia a pensarsi da sé, quello del pensiero meridiano.