“A differenza delle forme di governo padronale, il governo politico si esercita su uomini liberi ed eguali” - è uno dei capisaldi della Politica di Aristotele (I 7). Posizione tutt’altro che ovvia, e infatti enfaticamente rivendicata in polemica con chi, invece, voleva ricondurre il ruolo del governante a quello del pastore o del padrone di una amministrazione domestica. I cittadini non sono schiavi; e una volta stabilito, non senza tormento, che si può pure ammettere l’esistenza di uomini naturalmente schiavi, ma che questi si pongono all’esterno della città greca, tra i barbari, il governo della città greca non potrà essere dispotico, dovrà prevedere una qualche forma di equilibrata distribuzione del potere, conseguenza e garanzia a un tempo della libertà ed eguaglianza di tutti.
Nell’impostare in tal modo il problema, Aristotele traeva le somme di almeno due secoli di pratica e teoria politica. All’interno di un mondo che praticava la schiavitù e conosceva forme anche crudeli di sfruttamento, il nucleo della comunità si riconosceva come un corpo di uomini che, diversamente dagli altri, erano liberi ed eguali. Ciò valeva già per le più antiche aristocrazie descritte da Omero. La storia di alcune città greche, Atene in primo luogo, è storia dell’allargamento di libertà ed eguaglianza, e del conseguente potere di governo, a tutto il corpo dei cittadini adulti maschi. Processo tutt’altro che lineare e indolore, il cui esito - provvisorio e labile, come ogni esito storico - si riassunse in una parola, democrazia, quant’altre mai complessa e suscettibile di diverse interpretazioni, in grado però di ispirare il pensiero e la prassi di tutte le epoche successive.
Fu soprattutto nell’età della rivoluzione francese che la democrazia diretta di Atene nel V secolo, e più genericamente le forme di governo a vario titolo “repubblicane” del mondo antico, furono assunte a modello. Rispetto al regime rappresentativo inglese, Rousseau esaltò la libertà dei Greci, presso i quali “tutto ciò che il popolo doveva fare lo faceva da sé: era perennemente riunito ad assemblea”. Immagine non priva di forzature, certo; né Rousseau ignorava il lato oscuro di questa libertà, la presenza di quegli schiavi che consentivano ai liberi di esser davvero tali; pure – concludeva enfaticamente – “voi popoli moderni non avete schiavi, ma lo siete; voi pagate la loro libertà con la vostra. Avete un bel vantare questa scelta, io trovo in essa piuttosto debolezza che umanità” (Contrat Social III 15). Altri, soprattutto dopo Termidoro, insisteranno invece su quest’ombra della schiavitù per dimostrare che la decantata libertà degli antichi era assai parziale, fino alla celebre rivendicazione della libertà individuale dei moderni, contrapposta a quella politica degli antichi, di Benjamin Constant.
Che la libertà degli antichi si basasse sulla servitù e lo sfruttamento di altri uomini era ben noto agli antichi stessi. Lo sviluppo della democrazia ad Atene può anch’esso essere letto in questi termini, come già alcuni acuti contemporanei, non di rado appartenenti allo schieramento che tale sviluppo osteggiava, compresero. E’ il caso dell’anonimo autore della Costituzione degli Ateniesi attribuita a Senofonte, che con un atteggiamento tra il fastidio e l’ammirazione notava come l’estensione del potere al di là delle ricche aristocrazie fosse connessa alla necessità di tenere armata una grande flotta, i cui rematori erano reclutati tra i ceti più poveri. La flotta garantiva, in effetti, l’impero ateniese, la sua possibilità di attingere ricchezza da altre comunità asservite, di dettare le regole del commercio, di procurarsi schiavi; era inevitabile che i rematori rivendicassero un ruolo politico e d’altra parte l’opportunità di scaricare all’esterno parte del peso dello sfruttamento consentiva aperture sociali impensabili in altre realtà. Settori delle classi dominanti seppero gestire il non facile processo che portò alla piena democrazia, con l’assemblea depositaria della sovranità, la continua rotazione delle cariche (sorteggiate e in più ristretta misura elettive), i tribunali popolari che valutavano e giudicavano. Altri settori – e a questi apparteneva l’anonimo – si opponevano più o meno copertamente al regime e preparavano la rivolta.
Al di là, infatti, delle garanzie offerte a tutti i cittadini la vita politica della democrazia ateniese fu animata da una forte ed esplicita tensione sociale, che i vantaggi tratti dalla gestione dell’impero allentavano ma scoppiava in forme violente nei momenti di crisi. L’età di Pericle può essere letta, come fece Tucidide, in termini di gestione “illuminata” dell’assemblea popolare da parte di un abile esponente delle classi alte in grado di indirizzare la volontà dell’assemblea e mediare i contrasti. Con la guerra e la fine dell’impero le mediazioni divengono più difficili; il problema sociale e il contenuto di classe della democrazia vengono allora in piena luce. Tra V e IV secolo il pensiero politico greco si interroga insistentemente sulla democrazia, partendo dalla constatazione che il “potere del popolo” non è semplicemente la formazione di maggioranze, ma l’esercizio del potere ad opera di una parte, il “popolo”, maggioritaria ma non per questo particolarmente adeguata al governo. Dalle pagine di Platone, Senofonte, degli oratori emerge l’immagine realistica di quella che lo storico Arthur Rosenberg definì una “dittatura del proletariato”: la maggioranza di poveri obbligava i ricchi a contribuire alle finanze dallo stato, le forme di pagamento previste per la partecipazione alla vita pubblica garantivano una redistribuzione del reddito, l’assemblea e i tribunali esercitavano un controllo sociale addirittura oppressivo.
Agli occhi di tali critici, il risultato era pessimo, ché la “tirannide della maggioranza” implicava pur sempre il perseguimento di obiettivi particolari e – per giunta – la parte al potere, la massa dei poveri, non poteva vantare la competenza che solo i ricchi aristocratici beneducati possedevano. Di qui la formulazione di modelli politici alternativi – quello platonico è il più noto – fondamentalmente oligarchici e autoritari. E’ uno degli aspetti della radicalizzazione dello scontro di classe che sembra caratterizzare le vicende delle città greche, Atene innanzitutto, nel IV secolo, in condizioni di generale impoverimento e di instabilità internazionale. In questo quadro, la posizione di Aristotele si distingue per acutezza e originalità. Aristotele non accetta l’idea di una comunità che non sia di liberi ed eguali (la stessa monarchia gli pare possibile solo nell’ipotesi che si dia un uomo per natura superiore agli altri, altrimenti è inaccettabile); né ritiene che la maggioranza sia nel suo insieme incompetente, ché anzi in essa i deficit dei singoli trovano compensazione. Egli condivide però, e spinge alle estreme conseguenze, l’analisi della democrazia in termini di classe. Secondo il filosofo, la vera differenza tra le oligarchie e le democrazie non risiede nel fatto che nelle prime sia un gruppo ristretto, nelle seconde la massa a comandare; la vera differenza è che “c’è oligarchia quando sono sovrani coloro che hanno proprietà, democrazia quando lo sono i poveri”, tant’è vero che un ipotetico stato in cui i ricchi fossero la maggioranza non sarebbe per questo una democrazia, ma una oligarchia (Politica III 8). Non è solo un paradosso: Aristotele sa che le democrazie sono caratterizzate dal prevalere di politiche a favore dei poveri, i quali cercano di ridurre la diseguaglianza rispetto ai ricchi, mentre le oligarchie sono forme statuali con le quali i ricchi cercano di conservare la diseguaglianza. Questa è la sostanza del problema, anche se il fatto che i poveri siano dappertutto la maggioranza fa sì che il loro governo si configuri, accidentalmente, anche come governo dei più.
Alla base c’è, appunto, l’esperienza delle fortissime tensioni sociali del IV secolo, con ricchi e poveri in perenne contrasto. Anche Aristotele, pur con tutto il suo empirismo, non manca di formulare una sua moderata utopia. La presenza di grandi sperequazioni è distruttiva per lo stato: i molto ricchi e i molto poveri cercano continuamente di sopravanzarsi; lo stato stabile e giusto sarà quello in cui prevarrano i cittadini “medi”, né troppo ricchi né troppo poveri, davvero capaci di costituire una comunità di liberi ed eguali (Politica IV 11). Aristotele esplicitamente riconosce che una situazione del genere non si dà nella realtà del suo tempo. Per noi può essere suggestivo pensare che egli prefigurasse, a seconda dei gusti, le società borghesi o le utopie socialiste. Non dobbiamo dimenticare che il filosofo ha comunque in mente una società che conosceva la schiavitù (un cittadino di media ricchezza avrà qualche schiavo tra i suoi beni) ed era molto più statica delle società industriali e postindustriali (nel nostro mondo dinamico, a proposito di “medi”, è probabilmente più adeguata l’analisi dell’orwelliana Teoria e pratica del collettivismo oligarchico: “lo scopo delle persone medie è quello di sostituirsi alle alte”). Ma è rimasta feconda l’idea secondo cui, al di là delle forme politiche, “ricchi” e “poveri” siano le realtà fondamentali della società, protagonisti di una tensione irriducibile laddove la sperequazione sia eccessiva.
La fedeltà di Aristotele alla città di liberi ed eguali è stata talora giudicata poco adeguata ai suoi tempi. Egli stesso era stato in contatto con quella dinastia macedone che impose dapprima alla Grecia e poi all’oriente un diverso modello, quello della monarchia. Fu la monarchia a dare una risposta reale al problema delle tensioni sociali nelle comunità greche; e se da un lato la conquista dell’oriente offrirà uno sfogo e una nuova possibilità di spostare lo sfruttamento all’esterno, a godere dei vantaggi del nuovo assetto saranno però alfine élites ristrette; non a caso l’atto di fondazione dell’egemonia del re Filippo II sulla Grecia sanciva la garanzia del diritto di proprietà e il divieto di compiere atti rivoluzionari. Da questo punto di vista, il più modesto Senofonte aveva forse meglio capito lo spirito dei tempi. Nella Ciropedia egli aveva proposto ai contemporanei il modello del monarca capace di fondare un grande impero e di garantire a una classe dominante di sfruttarne tutti i vantaggi. Né Senofonte mancò di dare una sua risposta a quel problema della formazione della classe dirigente che tutti i discepoli di Socrate avevano variamente trattato. I Greci sbagliano – dice Senofonte – nell’affidare l’educazione, in forma privata, alle famiglie; nell’antica Persia l’educazione era statale, fin da piccoli i cittadini erano formati, a cura dello stato, al rispetto dei valori fondamentali e quindi passavano da una classe d’età all’altra in un regime di collettiva educazione e partecipazione alla vita pubblica. Un programma democratico, a prima vista; ma Senofonte ha in mente l’esatto contrario, e lo dichiara esplicitamente: “I Persiani sono circa 120.000 e nessuno è per legge escluso dalla partecipazione ai diritti e alle cariche, anzi chiunque ha il diritto di mandare i propri figli alle scuole pubbliche; di fatto però ce li manda solo chi sia in grado di mantenere i propri figli senza che debbano lavorare” (Ciropedia I 2,15); e solo chi ha frequentato queste scuole potrà poi partecipare dei diritti politici. Diritti eguali per tutti, ma rigorosa selezione di classe! In altri termini: non è necessario negare formalmente l’eguaglianza davanti alla legge per favorire chi più ha, basta lasciar agire il “mercato”.
Nei regni ellenistici e postellenistici, fino all’impero romano, non si parla più di democrazia, se non in riferimento alle limitate forme di autogoverno delle città. Le città sono del resto i luoghi in cui le élites dominanti vivono e godono i loro privilegi, mentre lo sfruttamento delle campagne si accresce. Ai liberi proprietari colti si contrappongono schiavi e plebi formalmente libere che, in età tardoantica, finiranno col divenire masse, sempre più numerose, di coloni e servi; ma un sistema così squilibrato non potè durare all’infinito, e la stessa grande civiltà delle città finì col trasformarsi e crollare. Un grande storico del ‘900, Michajl Rostovcev, chiuse la sua Storia economica e sociale dell’impero romano con una serie di domande che risentivano fortemente della sua personale, drammatica esperienza della rivoluzione russa: “L’evoluzione del mondo antico è per noi una lezione e un monito. La nostra civiltà non sarà duratura se non a condizione ch’essa sia civiltà non di una sola classe, ma delle masse. Le civiltà orientali furono più stabili e durevoli della greco-romana perché, fondandosi sulla religione, erano più accessibili alle masse. Un’altra lezione è che i tentativi violenti di livellamento non hanno mai condotto all’elevamento delle masse: essi non hanno fatto altro che distruggere le classi superiori, accelerando così il processo di imbarbarimento. Ma il quesito ultimo rimane lì come un fantasma, sempre presente e non esorcizzabile: è possibile estendere una civiltà elevata alle classi inferiori senza degradare il contenuto di essa e diluirne la qualità fino all’evanescenza? Non è ogni civiltà destinata a decadere non appena comincia a penetrar nelle masse?”.
Quesito davvero importante, e degno di riflessione. Noi sentiamo di dover rispondere “no”, ma la sfida non è facile e certe tendenze del mondo contemporaneo, in Italia e non solo, non ci rendono tranquilli. Lo sgretolamento dell’istruzione pubblica, la strategia mirante a formare le future classi dirigenti in pochi “centri d’eccellenza”, abbandonando il resto dei cittadini a una istruzione dequalificata se non meramente audiovisiva, degna dei “prolets” orwelliani, sembra prefigurare un modello non troppo diverso da quello persiano di Senofonte: senza abolire le teoriche pari opportunità, la selezione di classe – e non di merito – potrà operare efficacemente, saremo tutti sempre meno eguali, e molti sempre meno liberi.
Noi sappiamo, peraltro, che libertà ed eguaglianza sono inscindibilmente connesse ma che, per converso, l’esercizio della libertà può ridurre l’eguaglianza, mentre l’aspirazione all’eguaglianza può limitare la libertà. La libertà degli antichi è stata esercitata sfruttando gli schiavi, o assoggettando i più poveri. I tentativi di imporre l’eguaglianza hanno non di rado prodotto illibertà, e quindi decadenza. Ma rinunciare a un termine o all’altro è impossibile, e non solo per ragioni etiche. I cittadini dei paesi “liberi” non possono fare a meno di rammentare che, nel mondo globalizzato e nell’economia delocalizzata, i poveri del mondo svolgono spesso il ruolo essenziale di maestranze sfruttate; la loro tensione verso l’eguaglianza non può essere in eterno conculcata, pena l’instabilità e il crollo del sistema. La storia procederà comunque verso nuovi equilibri, sta a noi tentare di governare i processi in modo da garantire a tutti la maggiore eguaglianza e la più ampia libertà possibili: l’idea aristotelica di un mondo di “medi” si scontra forse contro la realtà di gioco a somma zero che sembra aver sempre caratterizzato le vicende delle società umane, ma il problema va comunque affrontato, pena il prevalere di nuovo sfruttamento, nuova illibertà, nuova diseguaglianza.
Per il momento, si può ben dire, con Luciano Canfora, che “quella che … allo stato attuale delle cose ha avuto la meglio è la ‘libertà’. Essa sta sconfiggendo la democrazia. La libertà beninteso non di tutti, ma quella di coloro che, nella gara, riescono più ‘forti’ (nazioni, regioni, individui): la libertà rivendicata da Benjamin Constant” (La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, p.365). Vero è anche che nell’attuale clima ideologico, in cui tutti paiono dirsi “liberali”, la rilettura del discorso di Constant La libertà degli antichi comparata a quella dei moderni (1819), pilastro del liberalismo classico, riserva addirittura delle sorprese. Nel mentre rivendicava la libertà individuale dei moderni contro la libertà politica degli antichi Constant avvertiva, però, il rischio che i cittadini, “assorbiti nel godimento della loro indipendenza privata e nel perseguimento dei loro interessi particolari, rinunciassero troppo facilmente al loro diritto di partecipazione al potere politico”; e raccomandava la necessità che le istituzioni “chiamassero i cittadini a concorrere, con le loro decisioni e i loro suffragi, all’esercizio del potere e garantissero loro un diritto di controllo e sorveglianza attraverso la manifestazione delle loro opinioni”. Constant sapeva bene, per esperienza diretta, che in assenza di spirito partecipativo una democrazia si trasforma facilmente in oligarchia o dispotismo. Le odierne democrazie in cui la percentuale di votanti si assottiglia di elezione in elezione, in cui l’elaborazione culturale e politica nel pubblico dibattito, nei partiti, nei sindacati, se pure esiste, è offuscata a favore della chiassosa propaganda di sempre più superficiali slogan sono poi almeno liberali? Sforziamoci di non divenire bersagli della antica provocazione di Rousseau: “il popolo inglese crede di esser libero, e si sbaglia grandemente; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento: non appena sono eletti, è schiavo, è nulla. Nei brevi momenti in cui gode della sua libertà, per l’uso che ne fa si merita proprio di perderla”. |
Numero speciale elezioni amministrative 2005 |