Riprendere a considerare il verde delle città come metafora della qualità del vivere, sinonimo della qualità dell’abitare. Un bel programma per le prossime amministrative: far tornare le città ad essere città verdi, soprattutto nel mezzogiorno.
Nelle città, il verde non sono soltanto i giardini di qualche condominio, le piante su alcuni balconi fioriti, le aiuole in qualche piazza risistemata, i cespugli di ginestre come spartitraffico nelle circonvallazioni. Non sono le palme impiantate sulle banchine del porto, qualche ulivo illuminato come una primadonna sotto le luci della ribalta all’ingresso delle città o un albero solitario come memoria storica in alcuni angoli del centro abitato. Spesso, nei piani urbanistici esecutivi delle città meridionali, la presenza del verde è una forzata concessione, che a fatica assume il valore di distanziatore dai fabbricati vicini oppure è confinato all’interno di un’isola con penosa funzione di rotatoria del traffico.
Verde è, di sicuro, la campagna e gli orti dell’area vasta di un territorio comunale, oppure i parchi e le ville comunali nella città abitata. È questo, ma non soltanto. Non è neppure soltanto l’ambiente, la sua tutela, la difesa dall’inquinamento - atmosferico, idrico, elettromagnetico, acustico – di cui le città soffrono, non è la gestione integrata dei rifiuti solidi urbani, il loro smaltimento nel rispetto della qualità ambientale. Non è solo il camminare, l’andare in bicicletta. Tutte cose importanti, che mancano, ma non bastano.
Il verde è sinonimo di attenta gestione dell’urbanistica e corretta modalità di attuazione del piano regolatore di una qualunque città. È impedire abusivismo e illegalità, che non solo riguardano aree urbane consolidate e le loro periferie, ma spesso invadono aree esterne alla città, aree costiere e di pregio ambientale e paesistico.
Verde è rispetto del Piano Regolatore Generale Comunale e delle sue Norme Tecniche di Attuazione. Sono anche, e innanzitutto, gli standards urbanistici da rispettare, le urbanizzazioni primarie e secondarie, la dotazione di servizi pubblici di un rione, di un quartiere, di un “comparto”, dell’intera città, soprattutto il piano particolareggiato dei servizi, di cui spesso le città sono sprovviste. Verde è anche accettazione di un indice di copertura negli interventi di trasformazione urbana, quel rapporto tra superficie edificata e superficie territoriale che occorre tenere il più equilibrato possibile, anche per evitare eccessi di impermeabilizzazione del territorio.
Poi c’è l’uso delle piazze, talvolta anche una costa da salvaguardare, le torri, le masserie fortificate e i castelli da valorizzare, le lame e le gravine da rispettare, anche i fiumi da conservare, di sicuro il traffico da regolare e i parcheggi da destinare per le auto private, l’acqua come bene comune, le città sane, la salute degli abitanti. Il piano delle coste e, più semplicemente, il piano del traffico urbano e dei parcheggi, il piano dell’agro: verde è governo del territorio, a partire dalla consapevolezza dei cittadini, dalla conoscenza di tale patrimonio, restituita agli abitanti e non confinata ad amministratori e tecnici.
Per tutto questo, il verde è metafora di partecipazione: sono dunque i laboratori di quartiere, i comitati di abitanti, la cittadinanza attiva, i cittadini che si riappropriano del loro avvenire, la loro partecipazione alla progettazione delle trasformazioni urbane, l’urbanistica partecipata. È preoccuparsi del vivere nelle periferie, la qualità della vita all’interno dei quartieri e non solo al centro della città, è progettare la città policentrica.
È l’intervento dei cittadini nella elaborazione degli strumenti urbanistici. I piani regolatori e i piani particolareggiati, adottati dai consigli comunali, poi modificati sulla base di osservazioni dei cittadini o di organismi pubblici, sono spesso approvati senza che vengano ripubblicati con le modifiche apportate: la mancata ripubblicazione di un PRGC o di una variante o di un qualunque piano urbanistico esecutivo, dopo l’acquisizione delle osservazioni, è dimenticanza, complicità o mancato rispetto di un diritto dei cittadini? Quante volte un piano regolatore, esaurita la fase della sua pubblicazione, acquisite alcune osservazioni e ulteriori innovazioni rispetto alla primigenia deliberazione di adozione, riportato in consiglio comunale, viene definitivamente approvato con deliberazione della giunta regionale, senza che si sia provveduto da parte del Comune, né sollecitato da parte della Regione, alla ripubblicazione del differente progetto di piano! Eppure recenti sentenze hanno annullato piani e varianti, anche molti anni dopo l’adozione, riconoscendo l’obbligo, prima dell’approvazione definitiva, di una nuova pubblicazione dello strumento urbanistico, se profondamente modificato, nel corso del procedimento perfezionativo, rispetto al testo base originario.
Una città viva si trasforma, continuamente: il verde è contrapporsi alle operazioni speculative di trasformazione di parti della città, verde è anche l’equilibrio virtuoso e indispensabile tra pubblico e privato. È farsi carico della qualità urbanistica e architettonica negli interventi di edificazione e di ristrutturazione.
Accade, invece, che nelle nostre città si rilascino permessi di costruzione, in barba a qualunque piano particolareggiato o di lottizzazione, a qualunque strumento urbanistico attuativo. Bisognerebbe raccontare quel che succede nelle zone di completamento urbano del PRGC di una qualunque città, osservare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi disattenti nelle aree di espansione recente, contare i cantieri edili illeciti e illegittimi che si sono aperti e potrebbero ancora aprirsi nei prossimi mesi. Bisognerebbe raccontare le manomissioni in atto. Si potrebbero prevedere quelle future.
Sono presi di mira i “vuoti” delle nostre città.
Sono aree molto vaste, estese per diversi ettari, dove gli interventi, secondo i PRGC vigenti, andrebbero realizzati sulla base di strumenti attuativi di iniziativa pubblica o privata e invece si realizzano con semplici permessi di costruzione concessi dagli uffici tecnici comunali. Sono aree, in cui vengono impropriamente elevati gli indici di edificabilità fondiaria, rendendo incoerenti i parametri urbanistici delle nuove edificazioni con quelli dell’edificato esistente.
Quando, in una fase di espansione edificatoria della città, alcune aree vengono lasciate inedificate e, così, sottratte all’edilizia privata come all’uso pubblico, e poi si decide di costruirvi, senza un piano particolareggiato, solamente con un semplice “permesso di costruire” rilasciato dal dirigente dell’ufficio tecnico; quando su quelle aree, diventate “di completamento”, si interviene non con lo strumento urbanistico di piano, ma semplicemente con concessioni o permessi a costruire per singole aree; in quelle aree, può succedere che vengano trascurate le quote di spazio per le aree pubbliche e per gli standards, richieste dalla legge, il decreto sugli standard urbanistici, il 1444 del ’68, che stabilisce per ogni cittadino il diritto ad una quota di spazio pubblico, 18 metri quadri per verde, parcheggi, attrezzature scolastiche e di interesse comune. Sono in agguato sperequazione tra proprietari (sia per l’innalzamento dell’indice che per la mancata attribuzione di standards), squilibrio urbanistico, congestione automobilistica sulle strade del quartiere, peggioramento della qualità urbana (verde, parcheggi, ecc.). Si delineano scenari urbani che evocano quelli dell’epoca d’oro della speculazione edilizia, quelli di quaranta-cinquanta anni fa, quando le città crescevano nel caos, si sviluppavano quartieri inumani, senza verde, con strade insufficienti e congestionate, fiancheggiate da cortine di grossi condomini.
Aree, non più libere, stralciate nella fase di adozione del piano particolareggiato, aree che sarebbero utili per aumentare la disponibilità di standards, invece vengono usate per elevare, legittimamente o illegittimamente, gli indici di edificabilità, e per evitare di realizzare servizi adeguati. Talvolta ci sono anche ville, villette, casolari, piccole costruzioni rurali, anche di pregio, inglobate in quelle aree, che vengono demolite senza ritegno. Aree che anni prima si era deciso di non acquisire all’edificazione, aree dove l’acquisizione avrebbe comportato l’esproprio, aree che erano state stralciate e lasciate ai possessori: i quali ne hanno tratto profitto. Di fatto, si praticano in tal modo ulteriori decisive varianti ai PRGC, senza che siano mai state formalizzate né adottate.
Ma non sono presi di mira soltanto i terreni posti all’interno di quartieri residenziali di recente edificazione e composti prevalentemente di edifici condominiali. Ci sono altri vuoti in una città.
Ce ne sono al centro abitato della città costruita. Spesso sono di limitata estensione, ma nel cuore della città, ad esempio a ridosso di una stazione ferroviaria, e perciò di importanza vitale per l’intero organismo urbano. Aree già congestionate, dove non potrà che determinarsi un ulteriore aumento della congestione urbana e dell’inquinamento urbano. Su una superficie ristretta e procedendo per stralci successivi, stralci di edifici preesistenti, si realizzano in queste aree volumetrie enormi, sia a carattere residenziale che per funzioni commerciali e direzionali.
Qui, gli strumenti urbanistici hanno non solo una funzione di completamento dell’edilizia esistente ma anche di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Funzione delicata, soprattutto quando si tratta di una pluralità di edifici in aree dove non può bastare l’alibi d’aver realizzato nel progetto urbanistico, come urbanizzazione primaria le reti (stradale, idrica, fognaria, gas, elettrica, telefonica), i parcheggi e le strade, e, per urbanizzazione secondaria, le scuole.
Viene meno il ruolo dei piani particolareggiati o di lottizzazione o dei piani urbanistici esecutivi. Viene meno la loro funzione di regolazione. È scelta opportuna, quella di dividere il territorio comunale in comparti e zone e di decidere la progettazione urbanistica attraverso il ricorso a piani particolareggiati. Ma solo se tutto ciò non significhi frazionamento dell’intervento urbanistico. Il PRGC ne rappresenta pur sempre il filo conduttore, l’atto di coordinamento. Importantissima è, a tale scopo, la funzione del Piano dei Servizi, spesso invocato dagli amministratori, ma mai redatto. Le città, così,
rimangono in deficit di servizi e di standards urbanistici, una vera piaga.Si dimenticano le finalità dei comparti in termini di risoluzione compositiva ed ogni occasione diventa buona per speculare sui suoli. Anche per interventi nel cuore della città. Qui i piani particolareggiati o di comparto si fanno, ma operando “stralci” che fanno saltare i conti. Per ciò che riguarda l’aspetto strettamente compositivo, gli interventi sembrano più rivolti a collocare la maggior quantità possibile di volumi che a disegnare brani di città vivibile.
E così è anche per la demolizione degli opifici, l’annientamento delle testimonianze della vita industriale. Con le ciminiere, con i capannoni dell’industria manifatturiera, si cancella la storia della città. Volumi, che possono essere a ragione considerati come elementi di tipizzazione del paesaggio urbano, finché possibile devono essere recuperati, non sostituiti.
I piani di comparto furono concepiti per riqualificare non solo le aree edificabili stesse, quanto i quartieri limitrofi, altamente carenti di standards. E, invece, vengono progettati come fossero un esercizio di progettazione interna al lotto. Quando non vengono realizzati per stralci.
È ormai dovunque ricorrente la pratica dell’intervento per “stralci”. Si stralciano aree ed edifici realizzati nel passato, senza piano. Prima si stralcia e poi si applica l’indice di edificabilità proprio della zona. Crescono le volumetrie, aumentano gli abitanti da insediare. Si congestiona la città.
Si procede stralciando le aree dove a volte, a causa di alcune preesistenze, si è accertata la presenza di emissioni nocive e dunque pericolose emergenze ambientali, e così si adottano provvedimenti urbanistici che prevedono la costruzione di edifici abitativi a ridosso di edifici industriali che organi giudiziari hanno definito insalubri.
Sono aree al limite dell’urbanizzazione, tra completamento ed espansione. Data la loro specifica posizione, tali aree possono essere trasformate in nuovi poli urbani che potenzino i quartieri circostanti. Il rinnovato interesse per “l’abitare in città” riattribuisce a questi luoghi un nuovo ruolo nella dinamica urbana. Non più soltanto vuoti da riempire senza criterio. Il loro patrimonio edificato richiede una riflessione sul rapporto tra l’esistente e il nuovo. Così anche sul rapporto tra interesse privato (all’edificazione) e utilità pubblica (verso la costruzione di servizi ai cittadini).
E ci sono infine aree, facenti parte del demanio pubblico, di cui si chiede oggi la sdemanializzazione e l’acquisizione da parte di privati: altri vuoti che si riempiono in zone delicate della città. Poi ancora altre aree delicate, perché preziose per la regolazione del traffico urbano e dei parcheggi. Si perde l’occasione per fare l’unica cosa che varrebbe la pena di fare: utilizzare gli ultimi punti nodali ancora presenti entro le aree di completamento, per farne parcheggi o autosilos e decongestionare il traffico cittadino.
Sono città in declino evidente. C’è da ripensare il loro sviluppo. Che non significa soltanto adottare un’area industriale e poi accrescerla, per una specie di ossessione produttivistica. La vera ricchezza di una città è nel governo del suo territorio, nella disponibilità dei beni comuni, non privatizzati: la scuola, l’ospedale, la spiaggia, il patrimonio edilizio comunale, il territorio, l’ambiente, l’acqua. È nel migliorare la fruibilità sociale delle risorse e degli spazi naturali. È nell’assicurare su tutto il territorio le condizioni per uno sviluppo, ambientalmente “sano”, dei processi economici, sociali e insediativi.
L’ossessione produttivistica produce peraltro l’effetto di allontanare anche la produzione edilizia e architettonica dell’impresa privata e pubblica da una sana, salutare applicazione alla costruzione della città vivibile ed alle sue trasformazioni: si può aiutare, invece, l’imprenditoria locale ad impegnarsi nelle trasformazioni di qualità del territorio. Si smetta di illudere tecnici, progettisti, imprenditori che possa durare in eterno l’industria di costruzione di edifici abitativi senza qualità, per rispondere ad una domanda infinita di prime case e di case per investimento dei risparmi. Si può avvicinare la prospettiva di investimenti nell’industria di produzione di servizi pubblici, di strutture per i cittadini, di beni immateriali di cui la società moderna ha sempre più bisogno.
Ci vuole un governo amministrativo che dedichi nuove attenzioni verso la costruzione di opere pubbliche necessarie al territorio ed alla sua tutela, evitando di concentrare energie e lavori verso precarie assegnazioni di suoli per attività che non siano legate a vocazioni e non siano presumibili di prospettive vere di sviluppo.
Un buon programma per le prossime amministrative.