La politica e il voto
di Massimo Veltri

Il secolo delle certezze - ma anche delle guerre, delle nefandezze, dei gulag, dei progrom, dei genocidi…- se n’è andato e ci ha lasciati, tutti, più poveri di convinzioni, più soli, più in balìa di poteri forti, molto verticalizzati e poco trasparenti, e con restringimenti progressivi della democrazia.

In epoca di internet, di globalizzazione, di forte progresso tecnologico, quando crescono e si moltiplicano corsi di laurea in scienze della comunicazione, paradossalmente e per converso, è come se fossimo preda di un’afasia acuta che ci porta a sentirci isolati, non in grado di trasmettere e ricevere, cioè di comunicare, il nostro essere persone, donne e uomini carichi e ricchi di umanità, sentire, commuoverci, operare, vivere pienamente, far parte di comunità. Incomincerei con il fare una grossa distinzione, fra il mondo occidentale e quello orientale, dicendo subito che non mi avventurerò più di tanto - e solo su macroscala - aldifuori dei confini che segnano la divisione fra noi e l’oriente: ne so ben poco, di quel mondo, che si propone sempre più e sempre più drammaticamente, come una realtà con la quale non riusciamo a relazionarci, oscillando fra aggressioni imperialistiche e acritiche adesioni intellettualoidi nei confronti di civiltà che meritano ben altra considerazione e ben altro rispetto. Gli equilibri mondiali, diciamo negli ultimi quindici anni, sono stati sconvolti, e hanno drasticamente virato verso orizzonti inesplorati, in conseguenza di quattro fatti di portata eccezionale: la fine dell’Unione Sovietica, l’escalation vigorosa della telematica e dell’informatica, il protagonismo di nuovi soggetti, l’emergenza delle questioni ambientali. Un mix di eventi, frutto ciascuno di accadimenti, scelte, impegni e inerzie precedenti, non fenomeni improvvisi esplosi casualmente, che a sua volta ha innescato una poderosa reazione a catena, su più versanti. Il primo, e a mio parere il più significativo, è l’affermazione come modello unico, del sistema capitalistico, che porta con sé il primato (unico? incontrastato? irreversibile?), anche in termini valoriali e direi addirittura etici, del mercato, dell’economia, della finanza. Un primato che, per nascita e definizione stessa della politica, dovrebbe essere dalla politica stemperato ed equilibrato per evitare - o più credibilmente solo ridurre - fenomeni di darwinismo, di competizione selvaggia, dinamiche di esclusione e marginalizzazione dei più deboli, con conseguenze esiziali in termini di condivisione e appartenenza a processi sociali associativi, solidali e comunitari. Un primato molto presente e ben sviluppato nei paesi di religione protestante, penso ai paesi anglosassoni, appunto in coerenza e ossequio alle dottrine che vogliono l’affermazione in terra per conseguire poi il riconoscimento ultraterreno. E’ inutile, e non è il caso, ricordare Hobbes, Rousseau, la disputa fra chi crede nella bontà dell’uomo selvaggio e nei mali introdotti dalle strutture sociali, e viceversa; richiamare Freud e il disagio della civiltà; Jung e gli archetipi che guiderebbero in misura immanente i nostri comportamenti; pensare a Nietzsche che non vedeva nell’aumento della ricchezza economica dei popoli l’elemento sufficiente per la crescita dell’uomo; citare Joseph Conrad che metteva i governi sul chi vive rispetto agli scempi imperialisti; rispolverare Marx o Gramsci. Mi interessa di più indugiare su un altro aspetto, che è quello della perdita verticale di autorevolezza da parte della politica, sempre più subalterna ai conti economici, ai trasferimenti di capitale, al fare impresa e affari, e, insieme, alla perdita di memoria storica, anche di quella abbastanza recente, come hanno scritto Hobsbwaum e Ginsborg, che porta a voler redifinire l’uomo, a voler scrivere il futuro ex novo, a cancellare e censurare secoli di acquisizioni e di convinzioni stratificate, come se vivere nel terzo millennio debba comportare l’oblìo e di conseguenza una sorta di torsione antropologica, caratterizzata da coordinate, paradigmi e impostazioni tutti, e assolutamente, diversi da quelli noti, alcuni dei quali oggettivamente obsoleti e da rimpiazzare, altri invece solo da verificare e aggiornare.

E invece no, tanto che il modello capitalistico tout court implica sfruttamento, si basa sulla sopraffazione, sull’accaparramento di fonti energetiche e risorse che sono il plafond del modello di sviluppo che s’è andato via via consolidando e amplificando, fatto di eccessi, di superfluo, di opulenza, ma anche di enormi contraddizioni e acute asimmetrie sociali e ambientali, e con tale modello, che poi tanto nuovo non è, dobbiamo fare i conti.

Non è stata l’Onu o una cellula terroristica trozskista a gettare l’allarme sull’aggressione ambientale al pianeta, che ha raggiunto limiti di non più sopportabilità, e a documentare il fatto che negli ultimi venti anni i morti a seguito di catastrofi naturali sono stati più numerosi di quelli provocati da eventi bellici: sono stati il Papa e la Croce Rossa Internazionale, che, in mancanza e in supplenza di poteri e istituti in grado di fronteggiare lo sviluppo unidirezionale che viviamo, hanno fatto sentire le loro autorevoli voci.

Quanta gente, nel mondo muore per mancanza d’acqua, per fame, vive in slums indegni, è vittima di alluvioni, frane, mancanza di medicine per malattie provocate da condizioni climatiche inclementi, è vittima dell’inquinamento atmosferico, del progressivo estendersi dei deserti, delle congestioni delle metropoli, di cibi iperbulimici e dannosi, di regimi di vita sedentari, del taglio indiscriminato di foreste, dei sistemi di produzione eccetera? Ho volutamente messo insieme e mischiato un pò alla rinfusa “accidenti” delle società occidentali, più “moderne”, sofisticate e complesse, con i drammi e le emergenze dei diseredati, i quali sono in assoluto molto più numerosi di noi occidentali.

Eppure la storia dei popoli e dei continenti è rigidamente dipendente dalle condizioni ambientali, in senso lato: lo ha dimostrato rigorosamente e con uno studio interdisciplnare il premio Pulitzer Jared Diamond, qualche anno fa.

L’homo faber cosa fa, per mutare e curvare condizioni perniciose o per salvaguardare habitat e contesti da proteggere? Pensa illuministicamente d’essere il dominus incontrastato del mondo in cui vive, tutto decidere, tutto piegare agli interessi prevalenti e di parte?

Il venir meno del deterrente sovietico, che costituiva il riferimento e l’“ombrello” che guidava e “teneva buoni” tutti coloro che non entravano nella sfera d’influenza capitalistica, si è manifestato con altissimi gradi di entropia e ingovernabilità nell’acuirsi drammatico del fondamentalismo islamico, con le rivolte dei “dannati della terra”, con il crescere esponenziale dei rischi di guerra, terrorismo, perdita di sicurezza.

Insomma, si può vivere, si può governare la complessità, la multietnicità, la diversità culturale e storica del pianeta in regime di monopolio, con l’imposizione del diktat: “la democrazia e la civiltà sono queste, le nostre, o vi uniformate o sarete attaccati”? Si pensa per davvero che due superpotenze come Cina e India, che sempre più stanno estendendo i loro raggi d’influenza economica e politica potranno piegarsi al pensiero unico? E il sudamerica, da sempre terreno di conquista e spoliazione coloniale, se ne continuerà a stare buono buono fino a quando? D’altro canto istituzioni sovranazionali, tipo l’Onu e la Ue, sono per un verso in crisi di governance, essendosi troppo a lungo, una trastullata nell’essere un satellite statunitense, l’altra troppo giovane e gracile per esercitare ruoli e funzioni di contrappeso, alla ricerca di nuovi equilibri che possano mitigare le tentazioni del gendarme del mondo. Né è da dire ci siano stati il silenzio o la complicità da parte della Ue così come dell’Onu, che, anzi, con atti di indirizzo, risoluzioni, atti normativi e quant’altro hanno fatto sentire la loro voce, ma si sa, la politica è soprattutto fatta di potere reale… e chi non ce l’ha…

Il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale degli investimenti, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, questi, sì, hanno poteri e, il più delle volte scollegati da organismi politico-istituzionali, determinano dislocazioni di capitali, investimenti in questo piuttosto che in quel comparto, in questa o in quell’area, determinando crescita o marginalizzazione, successo o declino.

Mi viene in mente, a questo proposito, una relazione di cinque-sei anni fa della Corte Suprema di Giustizia Europea, nella quale si documentava, come i momenti decisionali, i poteri cioè, in ambito mondiale siano saldamente in mano di holding, corporations, istituti e agenzie che condizionano massicciamente i contesti politici, le scelte e gli orientamenti. E nello stesso documento, mentre si ammette il fatto che il potere giudiziario occupa un ruolo fin troppo debordante, addirittura vicario, rispetto agli altri, si invoca, opportunamente, saggiamente, il ritorno della politica a guidare i processi, a svolgere quella paziente, saggia, lungimirante azione di intermediazione che le è propria.

Molte sfaccettature, dunque, diverse angolazioni, numerosi i protagonisti, ma comunque, ancora, AAA politica cercasi. Politica in quanto composizione di conflitti, mediazioni fra parti, prospettazione di modelli e orizzonti condivisi, sintesi avanzata che comprenda in termini unitari processi e dinamiche. Cos’è la politica, oggi, nell’indolenza e nell’assopirsi di coscienze e intelligenze, sempre meno propense a esercizi critici, a cercare, a proporsi, a essere protagonisti, agenti e non agiti, il tutto mentre i tassi di scolarizzazione crescono, si legge di più, si è, in qualche modo, più vigili di qualche tempo fa, nonostanze televisioni, immagini, la rete e i computers abbiano sconvolto non solo abitudini e stili di vita, ma anche e soprattutto atteggiamenti culturali e comportamentali, che sempre più ci isolano, paradossalmente mentre siamo in contatto telematico con il mondo? E la politica, mi si consenta la voluta ingenuità della domanda, è per davvero così importante, ha sul serio quella funzione onnivora e cibernetica, come la definisce Giddens, il politologo britannico, ispiratore di Blair?

Altrettanto “ingenuamente” rispondo col dire che quanto più sono complessi i fenomeni, tanto più c’è bisogno di governance, e questa non può fare a meno della costruzione del consenso, dell’organizzazione e della condivisione di interessi e prospettive, della promozione di scenari verso i quali puntare. E la politica è ancor più necessaria laddove l’articolazione sociale è fragile, mancano strutture operative e associative intermedie, si è dipendenti di lobbies e interessi particolari: come in Calabria, per esempio. Ma prima guardiamo all’Italia.

L’Italia si situa in una collocazione con undipiù e qualcosa di significativamente diverso, dentro la cornice generale fin qui a grandi linee tratteggiata. Nel cuore del Mediterraneo, cerniera fra est e ovest, sede del Vaticano, unita da meno di centocinquant’anni, da sempre terra di conquiste, dal dopoguerra è stata caratterizzata, in epoca di guerra fredda, da due grandi partiti di massa, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista; dalla lacerante asimmetria delle “doppie fedeltà”, fatemi passare la semplificazione, o lo schematismo: allo Stato e alla Costituzione italiani per entrambi i partiti, e contemporaneamente agli Usa, per la DC, all’URSS, per il PCI.

Tutto questo ha sortito, in aggiunta, il fattore K, la conventio ad excludendum, il consociativismo, doppiezze e aporie, per cui mentre si prospettava alla masse il sol dell’avvenire si facevano accordi per fare leggi e assumere provvedimenti; per cui mentre si terrorizzava la gente con la minaccia dei cosacchi pronti a bivaccare sul Tevere, il dialogo fra opposti e avversari continuava e cresceva. E non poteva essere altrimenti: un quarto, un terzo degli italiani, fra i fondatori della repubblica, presenti nei gangli vitali della società, era brutto, sporco e cattivo, e perciò bisognava, dico di più: si poteva, ghettizzarlo?

Quale contributo democratico e di crescita abbiano dato Togliatti, Berlinguer eccetera al paese uscito dalla guerra e dalla guerra civile è un dato assodato, riconosciuto, incontrovertibile. Quale scuola abbia costituito il Pci per milioni d’italiani, in termini di senso civico, senso dello stato, trasparenza, correttezza e operosità, tutto ciò è altrettanto chiaramente scritto nei libri di storia e che qualcuno vorrebbe cancellare. Insieme alla Dc era il partito-stato, una Democrazia Cristiana che conteneva al suo interno numerose culture e aspirazioni che comunque restavano insieme e assicuravano cultura politica e senso dello stato. Ma c’erano il patto atlantico e il blocco di Varsavia… L’Italia cresceva, se pure fra tanti contraddizioni, il mondo cambiava, con le sue schizofrenie, e accadde che il modello su cui il nostro paese s’era andato formando non reggeva più, e il mondo politico o non se ne accorse o non seppe correre ai ripari. Voglio dire che entrò il crisi il fordismo; il manufatturiero contava sempre di meno a fronte dell’economia dei servizi; divennero protagonisti istanze nuove quali quelle espresse dai giovani, dalle donne, dalle tematiche ambientali, dai diritti civili; aumentavano consapevolezze e voglia di contare, si vedeva che c’era, c’è tuttora, bisogno di classi politiche nuove e dotate di background diversi e più appropriati, mentre il sistema politico e istituzionale sembrava sclerotizzato ed era basato, perdipiù, su una società, quella del primo dopoguerra, agrario-impiegatizio e su una suddivisione in classi che per molti aspetti mostrava la corda. Il ciclone Craxi che, spogliandolo dei suoi eccessi mercantili, voleva superare l’impasse del duopolio DC-PCI, proponendosi come assopigliatutto, fu l’anticamera della seconda repubblica. Che nacque sì per gli effetti della corruzione dilagante e di tangentopoli, ma soprattutto vide la luce per una manifesta incapacità del ceto politico a capire che le cose erano cambiate, ancor più stavano cambiando, con dinamiche e intensità mai viste prima, e che rendevano necessario un riferimento non solo formale ai saperi, alle conoscenze, a una visione globale aggiornata, anche in termini di strumenti e opportunità, che via via mutavano. La scomparsa dei grandi partiti, il sistema maggioritario, la Lega, la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, le Regioni con sempre maggiori attribuzioni, la nascita dell’ Europa, sono alcune fra le più significative novità del panorama conseguente. Un panorama che vuole buttare in un cassetto programmazione, certezza delle regole, stato di diritto, ammortizzatori sociali, welfare, e vorrebbe relegare le forze organizzate della politica, le organizzazioni produttive e sindacali, a semplici comprimari se non convitati di pietra al tavolo delle scelte, alcune volte con la complicità, altre con il balbettìo di parte di questi stessi soggetti. Un panorama che ha una star in Berlusconi, nel berlusconismo e nello sdoganamento della destra postfascista, che fa da pendant alla svolta della Bolognina, all’abbandono delle sirene comuniste, all’abbraccio dell’opzione riformista. Un PCI stravolto, da partito antistato alle origini, confuso nello stato in seguito, e in ultimo partito dell’alleggeremento dello stato: una parabola conchiusa, se non fosse per gli eccessivi ritardi nel configurarsi, anche in termini di ceto politico e di effettiva cultura politica, come partito riformista, spinto a sinistra da Bertinotti e al suo interno attraversato da più di un dubbio, se non da vere e proprie contrarietà. Un terremoto micidiale, insomma, dal quale non siamo usciti, e che vede per un verso la sfiducia delle persone verso una politica che sembra voler cambiare pelle, ma sempre quella finisce per essere: roba per pochi, fatta d’un ceto inossidabile o quasi, con assenza di partecipazione e condivisione e il perpetuarsi dei meccanismi di delega; per altro una miscela, difficile da digerire, di populismo, leaderismo, demagogia e dilettantismo, che fa leva sulla politica-marketing e cavalca tutte le pulsioni più primitive dell’uomo. I partiti, di molto alleggeriti, mostrano una mobilità d’appartenenza molto alta e notevoli capacità migratorie, una militanza ridottissima e, soprattutto, una capacità di leggere processi e di orientare l’opinione pubblica molto molto affievolita rispetto ai partiti di una ventina d’anni fa, per cui facile risulta il persuasionismo più o meno occulto di altre fonti, e alto rimane il disorientamento e quindi lo scollamento fra società reale e società politica. Si dice che le ideologie sono finite, che fra destra e sinistra ormai non c’è più grande differenza, che contano gli uomini, che i partiti non servono più e la società civile è migliore della società politica. Non sono affatto d’accordo: l’impero del mercato e della forza non sono ideologie? Fra destra e sinistra la differenza è costituita dal diverso, opposto, pensare allo stato e alle persone. La qualità delle persone conta, certo, ma aldifuori da improponibili e inattuali suggestioni salvifiche dell’uomo della provvidenza, se le persone non sono inserite in contesti, in impianti, in progetti, che cosa possono produrre?

I partiti, certo vanno aggiornati, sia in termini di mission che di ceto politico, ma aldifuori di essi c’è il dilettantismo, l’antipolitica e l’ improvvisazione.

E’ vero, piuttosto, che ci sono gli inciuci, c’è un rincorrersi sullo stesso terreno e con argomentazioni a volte coincidenti, da parte dei due schieramenti, mentre si ricorre all’ingegneria istituzionale per individuare nell’uninomale e nel maggioritario le cause di tutti i mali, quando occorerebbe mettersi in discussione e cercare nuove frontiere della rappresentanza politica, al riparo dall’autotela e dalla salvaguardia delle rendite di posizione personali. Tutto questo mi serve per arrivare, infine, alla Calabria. Grandi uomini politici, in una regione povera e difficile, priva di strutture organizzate e di capacità imprenditoriali. Vittima dell’antistato mafioso e della riottosità delle sue genti a stare insieme, come fra gli altri ha detto bene ultimamente Augusto Placanica. Grandi uomini, troppi, in perenne competizione personale e campanilistica fra loro, i più afflitti da notabilato e incapaci di promuovere emancipazione, crescita diffusa e dal basso, innervati nel sistema assistito, spartitorio e clientelare, ma che hanno comunque vissuto stagioni importanti, in cui tutto si decideva cencellinianamente a Roma, nella stagione dei grandi e meno grandi pacchetti. Almeno un tratto li accomunava: la convinzione dell’immodificabilità delle cose, con le conseguenti, imposte e subite, subalternità sociali e civili verso il ceto politico, con il corollario di un ceto borghese sempre alla ricerca d’una sua identità, oscillante fra il prostrarsi ai piedi del principe e la stizzita contrapposizione di principio o di rivalsa. Siamo reduci di molti anni della gestione regionale segnata da troppe difficoltà nel rappresentare un momento di svolta e di crescita. Autonomie mortificate, fondi spesi a pioggia e non in termini produttivi, mancanza di programmazione e di deleghe, scarso appeal verso l’opinione pubblica. E dall’opposizione non si sono ricevuti segnali esaltanti, tanto che in più d’un’occasione le scelte, poco felici, sono stape assunte tutti insieme d’accordo. Fra pochi giorni si andrà alle urne, sapremo chi governerà, capiremo se i programmi, gli uomini, le scelte ci condurranno verso un riscatto reale o ci terranno nel limbo del trantran di sempre, a farci restare nelle regioni in ritardo di sviluppo, a piangere verso Roma che ci ha abbandonato. La questione meridionale, da troppo tempo sopìta, ha visto anche il silenzio o l’incapacità dei ceti intellettuali ad agitare discussioni, porre questioni, avanzare proposte, anzi troppe volte s’è assistito a compiacenze, complicità e convenienze opportunistiche. Oggi come non mai, la cosiddetta nuova questione meridionale si propone in tutta la sua attualità e impellenza, e ha come pressuposto un imperativo ineludibile, quello dell’ affermazione dei diritti di cittadinanza e libertà. Ogni cittadino calabrese deve pervenire al convincimento e al risultato che è portatore di diritti e di doveri, che è un uomo libero nei confronti di qualsiasi espressione o imposizione di potere, che deve liberarsi dai bisogni, e anche della maledizione di un destino cinico e baro, che gli hanno detto, cala implacabile dall’alto. No: il suo destino sta nelle sue mani, nel suo ragionare, operare, credere e fare sclte. Facile a dirsi, difficile da inverare, con passato e storia così pesanti, ma questo è il compito che ci aspetta, soprattutto per quanto riguarda la nascita di una nuova, e moderna per davvero, classe dirigente.

Tutto il resto viene dopo: infrastrutture, legalità, sicurezza eccetera eccetera.

E non è una novità: Salvemini e Dorso lo avevano lucidamente diagnosticato, per il sud il problema dei problemi è quello della sua classe dirigente.

Numero speciale elezioni amministrative 2005