“La pista è polverosa e la mia strada potrebbe essere aspra, ma le strade migliori stanno aspettando e, ragazzi, non sono troppo lontane..”: caro vecchio Bob Dylan, aggirati per le nostre strade di Puglia e ascolta Nichi Vendola mentre suona il suo blues di rabbia e di impegno.
La Puglia, quella che si è mobilitata per difendere i suoi diritti primari, a chiedere pace e accoglienza mentre si imponevano guerra ed egoismo, quella delle carovane per la legalità e la giustizia sociale, veri antidoti alla prepotenza criminale e all’affarismo, ha compreso che “il tempo del cambiamento è ora”.
C’è una novità in questa campagna elettorale: gli ultimi e gli invisibili non sono nelle loro case ad attendere che qualcuno bussi alle porte per chiedergli un voto, sono nelle strade, li abbiamo visti mentre si riprendono la partecipazione.
Chi si era rassegnato a vedere lo sfascio della sanità, le città ammorbate fra amianto e gas industriali, a vivere in una terra che sembra una sterminata base militare, alle esistenze precarie, ai migranti stipati in quelle carceri che si chiamano Cpt, ha capito che c’è una possibilità di riscatto.
Nelle parole del candidato c’è il richiamo a non lasciare nessuno indietro: scacciate alchimie e bizantinismi, il territorio si riappropria della sua centralità, i confini di chi divide fra padani e non, gli sfrenati individualisti del liberismo sono più lontani.
E’ già un buon punto di partenza, per niente affatto scontato di questi tempi.
Se il centrosinistra si impegna davvero per superare la subalternità al pensiero unico possiamo sconfiggere il berlusconismo non solo nella cabina elettorale, ma nella società.
Non sarebbe giusto né utile scaricare su “l’uomo nuovo” il peso del cambiamento senza attivare le buone pratiche di tutte e di tutti.
C’è da rivedere, tanto per cominciare, il rapporto fra associazionismo, movimenti e mondo dei partiti. Le energie – ad esagerare possiamo definirle “generazionali” ma forse è meglio dire “del tempo” – prima o poi finiscono.
Non ci sono “nottate dei movimenti che prima o poi passano” o “partiti in cui si deve entrare per cambiarli”, è sufficiente impostare nuove forme di dialogo e compiti diversi ma chiari per gli uni e per gli altri. Pensiamo di avere altre possibilità o crediamo di farcela con il brontolio litigioso di chi – alla finestra - guarda il cadavere della nostra democrazia che passa giù in strada?
Qui e ora: la Puglia può essere laboratorio ma per farlo davvero dovrà diradare il fumo degli alambicchi, mettere insieme politico e sociale, dire e fare. Siamo sfiniti e annoiati dal dibattito sulla casa e sul nome da mettere al campanello, quando vorremmo parlare di come si aprono le porte e dell’odore di pulito nelle stanze.
La sfida pugliese è per questo affascinante e pericolosa. Sappiamo che possiamo farcela, ma non ci accontenteremo di vincere.
Alla Puglia che può cambiare affidiamo i sogni delle persone, che non sono elettori o clienti ma donne e uomini che cercano casa, si ammalano, hanno famiglia o vivono soli, alcuni fuggono da guerre e miserie, altri vorrebbero una vita meno precaria.
Fra qualche anno nel Mediterraneo ci sarà una zona di libero scambio che interesserà almeno mezzo miliardo di persone, saremo capaci - scriveva Tom Benetollo - di “impegnarci per nuovi standard di diritti o accetteremo passivamente che il dialogo euromediterraneo si trascini nel tempo, lasciando gli squilibri e le ingiustizie e le violazioni dei diritti al fato?…”.
Ci sono leggi regionali inadeguate: pensiamo alla legge regionale sui servizi sociali emanata senza un reale dialogo con il terzo settore e con le associazioni di volontariato in particolare, la cui consulta – svuotata di significato – resta deserta. C’è da rimettere al centro della normativa la persona ed i suoi bisogni. Superare la logica dell’emergenza o degli interventi a tempo determinato.
Servono le leggi regionali per l’associazionismo di promozione sociale e per il servizio civile volontario delle ragazze e dei ragazzi. Per costruire la rete partecipativa e solidale, non per distribuire a pioggia fondi che servono solo a lacerare un mondo che, per sopravvivere, rischia di doversi affidare al signor “a Fra’ che te serve?”.
C’è da costruire una Regione aperta, che non perda i fondi per l’accoglienza come già è accaduto, mentre nascono le nuove carceri etniche che sono i Cpt. La rinascita della nostra Regione passa da un turismo più sostenibile per le nostre coste ma anche dalle contaminazioni culturali, da politiche accoglienti, dalla ricchezza - non solo economica – che ogni migrazione porta con sé e soprattutto al Paese d’approdo. Servono nuove politiche in tema di cooperazione e commercio con i Balcani e con l’Africa, senza la carità pelosa o la presunzione di essere i più civili e moderni.
C’è da rivedere l’idea di produzioni culturali e ci sono giovani artisti da convincere che qui può essere il luogo della creazione, ci sono meno premi e cotillons da distribuire e più spazi da riusare.
C’è insomma una Puglia migliore da scrivere. |