Il ritorno dell’escluso
di
Marino Centrone

È tornato con la violenza tragica dell’immagine lacerante di Giuliana Sgrena, l’altro, l’ecluso, lo straniero.
Per un anno sono comparse in video solo auto e case distrutte dalle bombe dei terroristi, ma non il popolo, la gente sempre costituita da volti anonimi, le donne vestite di nero, quelle donne in nero che hanno commosso tutto il mondo il giorno delle elezioni in Iraq.

Giuliana chiedeva il ritiro delle truppe e del contingente italiano dall’Iraq. Diceva che anche i giornalisti occidentali erano visti come nemici e come spie. Denunciava l’uso da parte degli americani delle cluster bombs, le bombe a frammentazione che avevano mutilato donne e bambini. Con gli occhi sbarrati dichiarava che tutta la campagna di guerra americana aveva portato solo morte e distruzione.

Bisogna interrogarsi su questo, bisogna interrogarsi sul ritorno dell’escluso. Sul ritorno degli esclusi.

La politica al contrario di cui è interprete Nichi Vendola non è comprensibile se non viene collocata in questo scenario internazionale perché pone al primo posto il problema della pace e la creazione di una nuova comunità. Una comunità che in primo luogo distrugga le industrie delle armi e riesca ad articolare un modo nuovo di vivere e di stare al mondo.

Il ritorno dell’escluso deve essere un programma strategico da proiettare nelle università, nelle scuole, nelle scadenze culturali, nei convegni.

Il ritorno dell’escluso è la nuova filosofia della decostruzione. Un risposta alla filosofia sterile impartita nelle università dell’Occidente. Tanti anni fa un’accademica di rango come Ruth Barcan Marcus si sentì oltraggiata dal fatto che Jacques Derrida era stato nominato presidente del Collège international de philosophie e aveva parlato di frode intellettuale messa in atto dal governo francese perché la decostruzione introduceva nel mondo universitario il gergo e la moda dei dadaisti. Se la filosofia accademica non riesce ad interpretare le domande del tempo presente, le urgenze del tempo presente, di questo dadaismo noi abbiamo bisogno. Per aggredire la mitologia bianca, la filosofia autoctona ereditata dal pensiero greco ( Nous autres Grecs) per fare entrare lo straniero.

Lo straniero nella filosofia della decostruzione ha un duplice significato: lo straniero è l’altro, un altro essere, un altro corpo, ma lo straniero è anche il rimosso, l’inconscio, quel magma sotterraneo prodotto dalle censure e dai verdetti di interdizione che ogni individuo si porta dietro.

La grande rimozione dell’Occidente si chiama oggi mondo islamico, dopo l’11 Settembre e la distruzione delle due torri di New York il popolo arabo e la religione islamica sono visti come nemici dell’Occidente. Per interpretare questi fenomeni bisogna inventare pratiche teoriche della contaminazione, un pensiero ibrido, un pensiero meticcio, non aver paura di spiazzare il pensiero, infettarlo con il corpo dell’altro.

Pensare oggi vuol dire pensare la sofferenza dei corpi degli altri. Pensare a sconfiggere la guerra, il cancro e l’AIDS. Il carattere autoctono del pensiero greco, della mitologia bianca e della filosofia accademica si corrompe con quel lungo discorso sull’ospitalità, la guerra, l’esclusione dalla città, dalla polis, sul posto dello straniero «ce long discours sur l’hospitalité, la guerre, l’exclu de la cité et la place de l’étranger dans la philosophie». Una potente operazione di eterogeneità e disseminazione per aggredire il prestigio dello Stesso, le prestige du Même, le Même, il pensiero autoreferenziale, il pensiero unico. Una filosofia del ponte per, una nuova forma di dialogo e di comunicazione, per prendere le distanze dal recente passato in cui il verbo leghista e una certa xenofobia hanno occultato il pensiero dell’arrivante.

“Perché l’origine dei nostri antenati non è quella degli arrivanti, né quella di meticci installati in questa terra in cui sarebbero giunti provenendo da altre regioni, ma quella di autoctoni che vivono da sempre nella loro terra e da essa sono stati nutriti.” ( Le passage des frontières. Autour du travail de J.Derrida, Colloque de Cerisy 1994 )
Contro questo pensiero autoctono, contro questa ricerca di purezza dobbiamo osare un modo di pensare barbaro. Un modo di pensare che penetra nelle istituzioni, nelle accademie, nella società, nello stato. In modo da fondare nuove città, nuove comunità in cui non domina lo sguardo di ghiaccio dello Stesso, ma vi sia posto per lo straniero. Perché in presenza degli dei tecnici e colonizzatori una città degna di questo nome, più che essere un dato, deve essere fondata, essere fondata nel rispetto dell’alterità, «devant ceux dieux technicians et colonisateurs la citè digne de nom, loin d’être un donnè, doit être fondée – et fondée sur l’altérité».

Numero speciale elezioni amministrative 2005