Voci da un dizionario sfogliato
di Raffaele Cappelluti

Architettura
Il giovane Leopold alloggiava in un piano terra sulla discesa delle Camere Nuove. In quelle viuzze anguste e perennemente senza luce, lastricate da pietre sconnesse segnate da profonde spaccature o schegge, si fronteggiavano palazzi che non andavano oltre un piano di altezza con le facciate quasi ovunque trapassate dall’umidità e con gli intonaci che si sbriciolavano come croste di pane.
Tutte le inferriate dei balconi erano invase da spessi grumi di ruggine e di sudiciume, mentre a difendere in qualche modo gli interni restavano finestroni dipinti e ridipinti con vari strati di vernice verde smeraldo che il tempo aveva annientato, riportando un po’ ovunque il legno crudo. Tra i finestroni socchiusi, come se qualcuno vi soffiasse dentro, transitavano pigramente lembi di tende che avevano dimenticato il loro biancore chissà da quando ed ora si erano ridotti a cenci grigi e laceri. Talvolta un colpo più energico di vento finiva per impigliarli alle spalliere di qualche sedia dimenticata su quei balconi che serviva per appoggiare i pochi indumenti da asciugare.
Il resto dello sfascio e del disordine invece era sparso un po’ ovunque.
In uno di questi locali per l’appunto, abitava il giovane Leopold che era arrivato dalla Polonia qualche mese prima. Chi lo aveva già conosciuto diceva che aveva l’aspetto perennemente afflitto. Forse era ammalato, e i più vicini non mancavano di imbastire supposizioni e ipotesi di ogni genere fino ad arrivare alle più inverosimili conclusioni. – “Se vedete le mani! Sono bianche come quelle di un Cristo sceso dalla croce.” - “Ha il volto smunto come una mela rinsecchita.”, diceva qualche altro. Una leggera peluria dorata, che gli conferiva un insolito aspetto di distinzione tra quella gente, gli adornava il volto con l’effetto però di invecchiarlo. Non si vedeva quasi mai andare in giro, d’altronde con quel fisico mal ridotto dall’eccezionale magrezza, non si capisce che cosa avrebbe potuto fare e per di più che lavoro avrebbe potuto sopportare, per cui rimaneva gran parte del tempo chiuso in casa, in attesa di che cosa non si sapeva. Da quella casa però, insieme a quell’acre sentore di umidità e muffa, si sentiva molto spesso venire il suono basso e prolungato di uno strumento a corda. Forse un violoncello. Una musica in tutta sincerità che pareva piuttosto infastidire, giacchè sembrava metà lamento e metà un concerto funebre.
Era arrivato in quel quartiere richiamato da una sorella che per qualche tempo aveva lavorato presso una famiglia, assistendo l’anziana madre che non riusciva più badare a se stessa. Attraverso una catena di conoscenze che alla fine si perdeva, un architetto, che non aveva mai tempo per niente al di fuori dei suoi complicatissimi progetti di restauro di chiese, sacrestie e oratori, era riuscito finalmente ad arrivare alla giovane polacca. Poi in realtà la giovane era passata nel suo studio perché, avendo studiato pittura all’Accademia di Varsavia, era stato molto apprezzato il suo album da disegno che un giorno per dimenticanza era rimasto nella casa dell’anziana madre e che Grete per modestia aveva fino ad allora tenuto segreto. Secondo l’architetto invece aveva una mano d’oro nel riprodurre e copiare colonne, capitelli, battisteri, portali ed altri elementi da restaurare.
L’architetto, che tra l’altro non era nemmeno lui più tanto giovane, per qualche ragione in verità piuttosto astratta, vedeva nella giovane bionda con gli occhi azzurri come il colore del cielo a settembre uno spirito docile e soave che lo induceva a pensare ad un tempo e a dei sentimenti passati che riteneva purtroppo disfatti dalla modernità.
Nella sua incredibile immaginazione, in quei momenti scorgeva Grete con l’album da disegno sotto il braccio e una borsetta piena di penne e libri percorrere le strade infangate dalla pioggia e dalle urine di oche e papere come se fosse una figura dipinta in un quadro della Varsavia del Settecento del Bellotto. Oppure la paragonava a un personaggio di un film o di un romanzo ambientati in un paese dell’est. Era affascinato da quel genere di arte, di letteratura, persino di vestire, da quella cultura fatta anche da specchiere dorate, ceramiche smaltate, letteratura e psicanalisi e nebbie profonde. E la musica che Leopold suonava in sua presenza le rare volte che si incontravano quando lo invitava ad esibirsi a casa, gli procurava uno stato di pieno appagamento.
Per il troppo lavoro, era successo che delle sere l’architetto e Grete erano rimasti insieme fino a tardi. Esaminavano fotografie, disegni, riproducevano linee sui fogli millimetrati, poi scrivevano, si segnavano nomi e termini, anno di costruzione, materiali. In mezzo a matite, boccette di inchiostro, planimetrie, qualche volta capitava che l’architetto alzasse gli occhi verso Grete e, guardandola con pudore e distacco, si chiedeva: - “Che cosa riesce a capire di queste pietre e dell’oscuro medioevo delle nostre chiese intriso di santi, crociati, animali e simboli di una fede spietata e spaventosa?”.

Corpo
Grete non era molto alta. I vestiti che indossava erano vestitini sfiancati oppure pantaloni e magliette. Erano sempre di almeno una taglia più grande delle sue misure, per cui, muovendosi o spostandosi, sembrava sbattere nel tessuto come il manico di una scopa in un cilindro vuoto. In questo modo non veniva percepito nessun segno del suo corpo. Eppure ai suoi sorrisi, al suo comportamento gentile, al tono sommesso della voce, al modo di camminare e di chinarsi per prendere una matita nuova dall’ultimo cassetto della scrivania, soggiaceva un richiamo tenue, flebile e pur tuttavia tangibile e irresistibile. Era come se dalla banalità della sua giovinezza sgorgasse una casuale e semplice voluttà che si disperdeva nell’aria. Grete non era bella, ma il chiarore della carnagione proprio come quella di una bambina e soprattutto i movimenti e il modo di parlare la rendevano desiderabile come un frutto acerbo dai colori ancora accesi e profumato da tenere in un piatto e guardare, poiché sicuramente né l’architetto, né Grete avrebbero mai abbandonato alla vacuità i loro pensieri.
Un giorno l’architetto prese la mano destra di Grete, le tolse la matita con cui stava disegnando e le disse: “La tua mano è mossa dalla bellezza”. Grete arrossì.

Crocifisso
Al centro, sulla parete della piccola camera da letto ricavata dividendo in due il locale con una coperta marrone appoggiata ad una fune, era appeso un crocifisso di legno scuro con un Cristo di gesso con un piede rotto che i due fratelli si erano portati da Varsavia.
Ogni sera, dopo aver ripulito il tavolo dai residui della cena, i due fratelli si riunivano per pregare. Grete leggeva anche qualche pagina del Vangelo, dopodichè si addormentavano affidando a quel crocifisso uno sguardo sofferente e pieno di lacrime. Né Grete, né Leopold erano capaci di dire una sola parola ad alta voce.

Lettera
Carissima mamma,
ti inviamo tutto quello che siamo riusciti a mettere da parte questo mese. So che non è molto, ma purtroppo io non riesco ancora a trovare un lavoro. Tra l’altro in questi giorni ho un forte mal di denti e … A proposito sai come lo sto curando? Con impacchi di alcool puro. Me lo ha detto Grete. Dice di aver letto che il nostro amato Chopin curava i suoi frequenti mal di denti nello stesso modo.
A parte questo Grete ed io stiamo bene.
Qui c’è sempre il sole e la gente sta volentieri fuori di casa. Io invece preferisco rimanere a casa e studiare. Ho conosciuto un sacerdote che insegna in una Scuola di musica che si trova a pochi passi da noi. Qualche giorno fa si è trovato a passare per caso davanti a casa nostra, ha sentito suonare ed è entrato. Devo dire che è stato molto gentile con me. Ieri mi ha portato alcuni libri di solfeggio ormai introvabili. Mi ha detto di averli trovati su una bancarella in un mercatino.
Carissima mamma, qualche sera fa sono stato invitato a casa dell’architetto. Mi ha detto di essere stato contento della visita. Grete ha preparato qualcosa da mangiare. Del formaggio con il miele. Il vino era buono naturalmente, però sono stato male fino all’arrivo a casa. Puoi immaginare com’è finita.
Vorrei che tu fossi sempre vicino a me. Vorrei poterti vedere. Te, Irina, papà, i compagni del Conservatorio, Witold il violinaio. Mi mancano le tue caramelle di vetro e le tue letture delle poesie di Szymborska. Vorrei ritornare a Varsavia, affacciarmi al balcone di casa e spargere sul davanzale i chicchi di granoturco ai colombi. Come una volta.

Racconto
Questo è un racconto sulla separazione e sulla musica. Sull’età adulta e sulla consapevolezza.
A Grete, a Leopold, all’architetto e a tutti gli altri non sta succedendo niente di particolare. Ognuno di loro sta prendendo la consapevolezza di perdere la capacità di amare.

Si bemolle maggiore
Quando Leopold prendeva il violoncello tra le mani e cominciava a far scivolare l’archetto sulle corde, soffermandosi sul si bemolle maggiore, avvertiva una vertigine, un istante di giramento di testa, poiché l’armonia di quella nota gli entrava nel cuore, partendo dalla punta delle dita indurite dai calli. Quel sottile spasimo si trasformava in uno stato di leggera estasi in cui la musica diventava causa di tutto il benessere possibile, fino ad arrivare alla perdita dei sensi. La percezione materiale di ciò che gli era attorno svaniva. Nel suono erano contenute l’emozione e la felicità. La poesia e il calore. Andava su e giù sulle corde, avanti, poi indietreggiava lentamente con l’archetto come si fa sulla schiena di un corpo e in quel frangente si sentiva finalmente svuotato dalle paure e dai tormenti. – “Più veloce, più veloce, Leopold.”, gli gridava il maestro, ma Leopold quel si bemolle maggiore di Bramhs sentiva che doveva essere prolungato il più possibile.

Termine
Grete rientrò come al solito per l’ora di cena. La lampadina era accesa perché dalla strada si intravedeva che il locale era ancora illuminato.
Quando entrò vide Leopold seduto alla sedia con il capo all’indietro. Teneva ancora nelle mani il violoncello come se avesse voluto trattenerlo per evitare che cadesse. Grete non ebbe nemmeno la forza di gridare, le sembrava quasi ovvio quello che vedeva.
Dopo qualche giorno prese lei a scrivere alla madre, assicurandola che Leopold non poteva farlo soltanto perché era impegnato con gli studi su Brahms con quel sacerdote che gli aveva promesso un impiego come insegnante di solfeggio. – “Poi c’è anche quel mal di denti che negli ultimi giorni si è aggravato.”
Naturalmente tutti e due erano ben consapevoli che molto spesso la verità è inutile.

gennaio - aprile 2005