1.
Distruzione dell'esperienza
La figura del giocatore su cui W. Benjamin si sofferma nel saggio Di
alcuni motivi in Baudelaire rappresenta simbolicamente la condizione
alienata dell'uomo moderno nell'universo metropolitano del XX secolo.
L'immagine rimanda al concetto, elaborato dallo stesso autore, della
"distruzione dell'esperienza" provocata, alle soglie
del nuovo secolo, dalla rottura con la tradizione, nel passaggio alla
società industriale dove il tempo velocizzato della produzione
viene percepito esclusivamente nella dimensione del presente, un tempo
fatto di istanti immediatamente bruciati.
La dissipazione dell'eredità umana era, per Benjamin, l'espropriazione
della consapevolezza del passato nella società razionalizzata
dalla tecnica; come il giocatore, l'uomo moderno non può fare
tesoro dell'esperienza perché entrambi vivono dentro un tempo
regolato e scandito dalle regole del gioco, dall'evento, che si ripete,
della prossima carta1.
La metafora del gioco d'azzardo può essere ancora utile a leggere
la condizione dell'uomo flessibile dell'assetto produttivo post-fordista
la cui esistenza, esposta al rischio del mutamento, generato dai processi
di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, assume sempre più
i contorni incerti di ciò che è dominato dall'arbitrio
imprevedibile del caso o dalla complessità di un gioco ingestibile.
La flessibilità del lavoro, oggi presentata come una sorta di
stadio evolutivo naturalizzato dai falsi profeti del pensiero unico,
interessa in maniera sempre più significativa il panorama
nazionale e locale2. Lo sviluppo della
new economy e del lavoro immateriale corrispondono alla fase della organizzazione
produttiva in cui la valorizzazione del capitale non è più
legata solo alla produzione materiale ma alla sfera di produzione
delle conoscenze a mezzo di conoscenze, a quella incorporazione
in forma di merce di tutti gli ambiti del sapere che Rullani chiama
"capitalismo cognitivo"3.
Decaduto il modello di produzione fordista fondato su alcuni nessi "forti"
come la relazione tra l'aumento della produzione, l'aumento dell'occupazione
e l'aumento del salario, sotto la spinta del mutamento prodotto dalla
globalizzazione dei mercati, il mondo del lavoro è stato investito
da processi di trasformazione finalizzati ad eliminarne le forme di
rigidità. Nonostante gli apologeti del libero mercato si affannino
a dimostrare che la flessibilità costituisce un'occasione di
crescita professionale e di dinamismo sociale, la proliferazione delle
forme di lavoro a termine, lavoro a chiamata, interinale, etc., previste,
nel nostro paese, dalla cosiddetta "Legge Biagi" (30/2003),
approvata dal parlamento il 5 febbraio scorso, ha determinato profonde
trasformazioni anche nella modalità che i soggetti hanno di percepire
il lavoro ed una ricaduta significativa sulla possibilità di
progettare i propri percorsi di vita da parte dei giovani.
Una recente indagine4, realizzata sul territorio
barese, prendendo in esame un campione di soggetti iscritti presso le
agenzie interinali, punta a cogliere le differenze e /o affinità
nella percezione dell'esperienza della flessibilità da parte
dei soggetti interessati e ad indagare in quale misure queste dinamiche
incidano sul loro progetto di vita. La ricerca mette in luce il disagio
legato al carattere temporaneo e non continuativo dell'esperienza di
lavoro e lo scarto notevole tra le aspettative e le aspirazioni professionali
e la realtà.
L'esperienza del lavoro si frammenta, si accompagna all'incertezza,
costringe i soggetti ad entrare in una dimensione di competitività
che anima anche le relazioni personali (oltre che professionali). Queste
dinamiche rivelano di avere un grande impatto sociale se raffrontate
con il dato centrale che il lavoro ricopre ancora, nell'immaginario
collettivo, un ruolo centrale nella definizione dell'identità
individuale e sociale. Il lavoro è concepito come fine in sé,
da esso dipende l'immagine sociale che il soggetto ha di sé,
il legame con il mondo in cui si struttura la stessa identità
individuale. L'identità professionale, poi, viene vissuta come
l'esito di un percorso del tutto individuale di riuscita o di fallimento
che spesso dipende dalla propria responsabilità di avere o non
avere approfittato per tempo delle opportunità formative. Il
fallimento stesso, secondo Sennett, è il tabù, l'elemento
non metabolizzabile connaturato al rischio delle scelte dell'uomo flessibile5.
Z. Baumann, nel saggio Modernità liquida, analizzando
gli effetti sociali delle trasformazioni produttive, sostiene la tesi
che individualizzazione e solitudine sono generate dal disgregarsi delle
strutture e dei sistemi di relazione in cui l'individuo era integrato
e trovava i suoi punti di riferimento. I veloci processi di trasformazione
del lavoro hanno logorato tutte le forme di relazione e di appartenenza
a cui era legata anche la sicurezza, e il venir meno di regole e confini
proietta in un universo di possibilità infinite (il mercato delle
offerte formative), in una realtà liquida dove modelli
di dipendenza ed interazione, codici e linguaggi, hanno perso la loro
consistenza e solidità. Essendo soggetti ad un rapido mutamento;
essi "non sono più "dati" e tanto meno "assiomatici";
ce ne sono semplicemente troppi e in contrasto tra loro e in contraddizione
dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è
stato spogliato in buona parte dei propri poteri di coercizione"6.
Ne consegue, come dice Cassano,7 il venire
meno di ogni etica solidale e la rimozione della comunità
dall'immaginario collettivo, dove la nozione di "bene comune"
implicata dall'impegno sociale o politico è minata alla base
dalla pervasività di un modello imperniato sul mito del vincente.
è il trionfo dell'homo economicus, capace di vivere secondo
i parametri di una razionalità i cui coefficienti sono l'efficacia
e la produttività e il cui criterio d'azione è esclusivamente
l'interesse privato. Viceversa la marginalità e l'esclusione
dal mercato liberal della competizione sembra riguardare soprattutto
chi non possiede quel "capitale culturale" e quelle "risorse
sociali" che consentono di esporsi alla precarietà e all'incertezza
delle condizioni del lavoro. La cultura diventa il "luogo di confine"
delle disuguaglianze: chi non possiede professionalità ad alto
contenuto di specializzazione sarà tagliato fuori dalla competizione
sin dall'inizio. Su questo sfondo le agenzie educative e in modo particolare
la scuola sono chiamate a svolgere un ruolo cruciale ma, per non tradire
la loro vocazione educativa, dovrebbero sottrarsi ad ogni tentazione
tecnicistica. In questa analisi vorrei evidenziare come la già
menzionata "Legge Biagi" che disciplina l'occupazione e il
mercato del lavoro sia simmetrica ai provvedimenti normativi varati
dal governo di centro- destra riguardo alla scuola e che entrambe rientrano
nella logica di una trasformazione del mercato del lavoro in senso neoliberista.
La deregulation che investe le forme del lavoro, reso più
leggero e flessibile dai nuovi contratti e dalla caduta della concertazione,
si accompagna ad un massiccio e capillare intervento sul sistema dell'educazione-istruzione,
riformato per garantire la riproduzione di un sapere integrato e funzionale
ad un sistema produttivo che richiede una forza lavoro flessibile, docile
e spostabile.
2. La
posta in gioco
Alcuni aspetti della "riforma Moratti" e in particolare la
ristrutturazione degli studi medi superiori sono una espressione cruciale
dell'ideologia che è sottesa a tutti gli interventi normativi
di cambiamento che sino ad ora hanno riguardato la scuola. Mi riferisco
alla prospettata distinzione in due comparti del sistema degli studi
medi superiori: "Il secondo ciclo è costituito dal sistema
dei licei e dal sistema dell'istruzione e della formazione professionale";
un "congegno" che sembra fatto apposta per riperpetuare le
differenze di classe se viene adeguatamente scomposto e analizzato.
Se facciamo una breve cronistoria della (contro) riforma Moratti scopriamo
che con l'approvazione della legge di Riforma della scuola si chiude
un percorso che è iniziato con un'altra legge-delega del 1997,
ossia la famosa legge Bassanini (59/97) che nell'art. 21 introduceva
l'autonomia scolastica. L'autonomia sembra essere uno strumento formidabile
per integrare la scuola in una logica di mercato realizzando la scuola
impresa che produce una specifica merce rispondente alle domande degli
utenti e istituendo la competizione, sul mercato dell'istruzione, tra
le scuole. L'aziendalizzazione e la privatizzazione dell'istruzione,
supposte da tale provvedimento, sono state però poste con forza
da una legge-architrave approvata il 10 marzo 2000: la legge di parità
scolastica, con cui viene assegnata, alla scuola privata (che è
scuola di parte) lo stesso ruolo e funzione e portata della scuola pubblica
che dovrebbe essere la scuola di tutti, quella che, a norma del dettato
dell'art. 3, non deve istituire distinzioni di sorta quanto al ceto
sociale, alle possibilità economiche, alle differenze di credo
religioso o di orientamento culturale. Ora che queste due realtà
sono unificate nel medesimo sistema di istruzione nazionale, la scuola
pubblica, come luogo che dovrebbe garantire l'istruzione nel rispetto
dell'uguaglianza e dell'accettazione reciproca, appare minata nel suo
stesso statuto. A questa logica di distruzione del servizio pubblico,
coerentemente con l'attacco ai vari settori del Welfare, sembrano
riconducibili anche altri provvedimenti che negli ultimi due anni hanno
caratterizzato l'azione del governo nei confronti della scuola: dalla
parificazione della condizione degli insegnanti delle scuole private
a quella degli insegnanti della scuola pubblica, allo smantellamento
del valore legale del titolo di studio, con l'"esame interno";
dalla immissione in ruolo degli insegnanti di religione cattolica, ai
maggiori finanziamenti alle scuole private, sino ai tagli previsti per
la scuola dalla Finanziaria del 2003 e del 2004 e alle recenti proposte
di legge relative al nuovo statuto giuridico dei docenti. Sarebbe troppo
complesso parlare della riforma della scuola nella sua globalità
e riassumere le critiche che sono state mosse al decreto attuativo della
legge 53/03 riguardante la scuola primaria. Qui possiamo solo sottolineare
che la scelta di progettare due sistemi di formazione per il secondo
ciclo segna e orienta l'intero disegno di cambiamento contenuto nella
legge 53/03 e rappresenta una cesura radicale nei confronti del filo
conduttore che ha guidato le scelte di politica scolastica dagli anni
'60 in poi, prodotte da una battaglia per una scuola laica, libera ed
aperta a tutti.
La proposta di anticipare a 14 anni la scelta del sistema formativo
(alla conclusione del primo ciclo) e la trasformazione dell'obbligo
dell'istruzione nel biennio di studi superiori in diritto-dovere,
inoltre, devono costituire elemento di riflessione. Se nell'accesso
di tutti all'istruzione si costituiscono le basi di una società
democratica, come non interrogarsi sulla " filosofia" sottesa
a questo disegno di riforma? La cancellazione dell'obbligo – in
un'età molto delicata – si converte nella sottrazione di
un diritto, specie alla luce del processo di privatizzazione che investe
il servizio educativo pubblico.
Il percorso formativo nell'età dell'adolescenza dovrebbe prevedere
il prolungamento dell'obbligo di istruzione di almeno due anni; ciò
"...Rappresenterebbe una tappa storica nel processo che dall'inizio
degli anni sessanta segna lo sviluppo della scuola nella direzione di
un suo rilancio e della sua rivalutazione come istituzione costituzionale.
E' una scelta che, superando ma non annullando quelle degli anni settanta
– novanta, ridisegna la scuola come uno dei fondamentali motori
della democrazia, contrapponendosi allo strisciante processo di descolarizzazione
che si respira in alcuni atteggiamenti sociali e politici."8
Se si costruiscono due percorsi formativi alternativi tra loro, uno
più lungo (5 anni) che all'inizio sia di sola istruzione, finalizzato
al raggiungimento delle professioni più alte tramite l'accesso
all'università dopo il diploma; ed uno più corto (quattro
anni) che destina verso attività professionali per le quali l'istruzione
e la formazione professionale sono tutt'uno già all'età
di quattordici anni, appare piuttosto chiaro che si configurano due
diversi sistemi educativi.
Il primo tipo di scuola sembra incentrato su principi gentiliani; il
secondo sistema, denominato di istruzione e formazione professionale,
nasce dal superamento dell'attuale distinzione tra istituti tecnici,
professionali, e formazione professionale regionale.
Il percorso liceale è costruito sull'idea di uno studio "disinteressato"
finalizzato alla formazione culturale (la metacognizione, il metagiudizio);
nel secondo ordine di studi le conoscenze dovrebbero essere selezionate
e "dosate" in base all'obiettivo della formazione professionalizzante
da raggiungere. Evidentemente il passaggio da un sistema all'altro non
è biunivoco; si può supporre che avverrà più
facilmente dal primo al secondo ordine di studi dove la teoria è
immediatamente finalizzata ad un fare pratico. Le parole di L. Carrera
mi sembrano illuminanti per chiarire il problema a cui mi riferisco:
Ciò che rimane ancora da chiedersi è se un modello
formativo teso a trasferire saperi tecnicamente adeguati sia funzionale
rispetto al fine di costruire la capacità di gestire consapevolmente
quegli stessi saperi, e per la formazione di una cultura politica di
cittadinanza attiva che renda ciascun soggetto in grado di giudicare
i processi in atto e di operare scelte ampie che eccedono la sua singolare
ed immediata situazione9.
Va sottolineato che nell'adolescenza il lavoro può essere veicolato
solo nella dimensione della formazione culturale e che tale formazione,
quando avviene al di sotto dei 18 anni, pone le condizioni di base per
le reali possibilità di accesso alla formazione in futuro. La
cultura che può servire per il lavoro, è quella che, secondo
L. Gallino, assicura la capacità di dare operatività ad
un sistema di conoscenze, di ordinarle, di organizzarle all'interno
di un processo lavorativo.
Oggi il mercato del lavoro è profondamente cambiato: le professionalità
richieste sono sempre più complesse e conoscono una sempre più
rapida evoluzione; a fronte di questi processi l'istruzione non è
più trasmissione di conoscenze inerti e la formazione non è
più addestramento o una forma di istruzione minore e subordinata,
o, almeno, così dovrebbe essere; le due funzioni non dovrebbero
sussistere in alternativa e separatamente ma integrarsi in una maniera
complementare. La disintegrazione dell'esperienza conoscitiva sussiste
proprio nella separazione tra le dimensioni emotiva, cognitiva, operativa;
nell'avallare una cultura del thèorein contro una dell'operare,
nel considerare gli aspetti teorici distinti da quelli operativi, l'approccio
induttivo come separato da quello deduttivo. Le competenze culturali
non possono essere pensate come estranee alla cultura delle professioni:
alcune di esse non si sviluppano in riferimento esclusivo all'acquisizione
di uno specifico professionale, perché sono profonde, trasversali,
pervasive e persistenti e quindi autonome rispetto al profilo professionale.
Se è fondamentale che la scuola incontri il lavoro lo dovrebbe
fare con i mezzi che le sono propri, ossia quelli della cultura. L'alternanza
scuola-lavoro nel triennio, prevista nella 53/03, continuando una linea
espressa dai documenti presenti nel dibattito sin dagli anni '90 (quelli
della commissione Bertagna), è invece riconducibile all'idea
di rivalutare la formazione professionale come percorso formativo alternativo
a quello dell'istruzione sin dai 13/14 anni. Non solo configura la rinuncia
della scuola a ricoprire un ruolo nell'emancipazione sociale ma sembra
rispecchiare la convinzione che l'istruzione funzioni per una parte
della popolazione e non sia proponibile per la rimanente.
3. Regionalizzazione e privatizzazione
La logica che sta dietro al doppio sistema non solo elude il serio problema
della formazione professionale, sicuramente uno dei grandi temi da affrontare
in un processo di innovazione del sistema formativo, ma rimanda alla
nuova filosofia del lavoro di stampo neoliberista che ha animato la
politica del governo dai patti territoriali alla Legge Biagi.
Tra le diverse tipologie di contratto di formazione lavoro quest'ultima
prevede, tramite il Dlgs 276/2003, oltre al tirocinio (non retribuito),
l'apprendistato, che sono le modalità principali in cui si realizza
l'alternanza scuola-lavoro stabilita dall'art. 4 della legge Moratti
sulla scuola .
Per l'attivazione del tirocinio sono previste apposite convenzioni
tra i soggetti promotori: Centri per l'impiego, Uffici scolastici regionali,
Scuole, Centri di formazione professionale e le imprese, nonché
l'elaborazione di specifici progetti di formazione-orientamento nei
quali sono indicati obiettivi e modalità di svolgimento del tirocinio,
da svolgersi sotto la direzione di un tutor nominato dalla scuola
Nel testo inoltre si distinguono tre forme dell'apprendistato. Accanto
all'apprendistato per l'espletamento del diritto dovere d'istruzione
e formazione, riservato a giovani e adolescenti fra i 15 e i 18 anni,
della durata massima di tre anni, determinato in base alla qualifica,
al titolo di studio, ai crediti professionali e formativi acquisiti,
nonchè alle specifiche richieste dei soggetti privati accreditati
o dei servizi pubblici, c'è l'apprendistato professionalizzante,
per giovani diciassettenni che dopo i quattro anni di studi professionali
previsti dalla riforma Moratti, hanno una qualifica professionale ed
aspirano.a migliorarla. Infine, per quanto concerne la terza tipologia,
l'apprendistato finalizzato al conseguimento di un diploma o ad un
percorso di alta formazione, durata e caratteristiche sono stabilite
dalle regioni, in accordo con le parti sociali e le istituzioni formative.
Perché la disciplina di queste tre forme di apprendistato sia
operativa è necessaria la regolamentazione dei profili professionali
demandata dal Dgsl alle Regioni e alle province autonome10.
La strumentalità della scuola nei confronti della logica economica
dell'impresa si legge sin da ora nella preoccupazione che la formazione-istruzione
produca competenze che siano sempre più strettamente commisurate
alle esigenze produttive del territorio: i crediti formativi, rilasciati
dalla scuola, dovrebbero infatti servire a certificare il possesso
di saperi spendibili sul mercato del lavoro, acquisiti tramite spezzoni
di esperienza lavorativa sottopagata o priva di compenso; e i famigerati
progetti di cui nella scuola dell'Autonomia è costellato
il percorso didattico rischiano di riferirsi in misura sempre maggiore
ad obiettivi formativi calibrati sulle esigenze economiche delle imprese
locali.
Il fatto che questo sistema di studi superiori sia destinato, negli
aspetti più specificatamente volti alla formazione di competenze
professionali, ad essere finanziato dalle regioni, e gestito da aziende
presenti sul territorio, apre ulteriori interrogativi sulle prospettive
qualitative della formazione che verrà garantita in territori
meno attrezzati sotto il profilo della competitività industriale,
e in una logica di privatizzazione. Si intravede lo scenario, preoccupante,
di una marginalità economica e produttiva che proietta le sue
conseguenze sulla formazione dei profili professionali che vengono "prodotti"
dalle scuole del Sud, sempre più arretrate e lontane dagli standard
che consentono di partecipare alla competizione.
Riportare a 16 anni l'obbligo scolastico, mantenendo fermo l'obiettivo
di innalzare le competenze di base di tutti, per poi definire un triennio
superiore differenziato e integrato, di istruzione- formazione professionale-
apprendistato, appare necessario per realizzare obiettivi di eguaglianza
sociale e democrazia. Ridare fiato alla progettazione culturale, ed
invertire la politica economica sulla scuola, contrastare i provvedimenti
di una finanziaria iniqua che prevede tagli su risorse sociali come
la cultura e la formazione, appaiono, più che obiettivi, strumenti
per intervenire sull'immagine che gli operatori della scuola hanno di
se stessi, per attivare fermenti positivi che agiscano sull'inerzia
e la passività.
4. Per
una cultura della cittadinanza
La critica ad una cultura e ad un modello educativo in cui domina incontrastato
il paradigma di una razionalità formale richiama la premonizione
espressa, già nella Crisi delle scienze europee (1935-37),
dal filosofo tedesco Husserl, che, di fronte alla crisi della civiltà
e all'avanzare dei totalitarismi, avvertiva che "le scienze
di fatto creano meri uomini di fatto", espressione con cui
intendeva richiamare la necessità di un ripensamento dello statuto
epistemologico delle scienze alla luce di un sapere critico. La conoscenza
non può appiattirsi nella dimensione della thècne
perché ciò significa la scelta per una razionalità
sistemica da cui è totalmente espunta l'interrogazione etica
sul fine e la destinazione della conoscenza stessa. In modo analogo
la formazione culturale non può ridursi alla trasmissione di
scampoli di operatività o di conoscenze tecnologiche ad alto
contenuto di specializzazione. Il ruolo della scuola è di favorire
l'accesso alla conoscenza come "bene in sé",
e oggi, particolarmente, strumento di inclusione o di esclusione sociale.
La formazione-istruzione può costituire il filo conduttore che
consente di ricostruire il senso delle esperienze fatte e garantire
significato ai frammenti della propria esistenza nei diversi ambiti
di vita. Per Adorno, che già nel 1947 avvertiva l'effetto sconvolgente
che la dialettica dell'illuminismo avrebbe prodotto nelle rappresentazioni
culturali dell'uomo della società post-industriale, quando la
cultura cessa di essere elaborazione consapevole della conoscenza è
Halb-Bildung, un patrimonio slegato di conoscenze di cui il soggetto
non si appropria mai completamente. Il semicolto è colui che
sa molte cose e si appaga di informazioni effimere e sostituibili ma
non sa produrre una sintesi costruttiva e creativa in grado di attivare
quelle conoscenze e renderle strumento di esperienza nel mondo.
è Cassano nell'ultimo suo saggio, Homo civicus, a sottolineare
l'importanza della formazione civile ed etica per facilitare lo sviluppo,
non solo economico, del Sud, da cui emigrano le migliori energie intellettuali.
La cittadinanza attiva, egli sostiene: "E' l'unica forma attraverso
la quale gli interessi comuni ritornano, senza imposizioni dall'alto,
al centro dell'attenzione degli individui, la forma libera e democratica
con cui si combatte l'idiotismo di massa e i suoi interessati tutori
e cantori, quell'uscita dalla solitudine che è assolutamente
necessaria per coloro che sono i più deboli"11.
La capacità di partecipare alla propria esistenza politica e
sociale si gioca all'interno di una dimensione culturale in cui non
sono implicate le nuove categorie del problem solving .... ma piuttosto
le competenze critiche e riflessive, la capacità di assimilare
valori sociali "su cui si può rifondare la pratica dell'appartenenza
collettiva".
Alla dispersione individualistica e alla marginalizzazione dei più
deboli, che senza un legame comune rimarrebbero schiacciati dalla condivisione
di modelli omologati, bisognerebbe opporre una cultura educativa che
favorisca la condivisione di valori comuni, l'attivarsi della cooperazione
e della solidarietà. Rinsaldare la cultura del solidarismo e
del bene comune, costituisce la risposta più alta al pericolo
del nuovo totalitarismo rappresentato dal biopotere, imperante sulla
vita di individui inerti e passivi che nel consumo esprimono compiutamente
la loro sudditanza.
Pensare che un altro mondo è possibile, evoca un'altra
bellissima immagine di Benjamin: quella dell'Angelo della Storia che
si erige sulle macerie dell'umanità per riscattarla dalla catastrofe,
per ridare fiato all'utopia12.
1
Il fatto di ricominciare sempre di nuovo è l'idea regolativa del
gioco così come del lavoro salariato (W. Benjamin, Di alcuni
motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1982,
p. 114). La deprivazione dell'esperienza umana equivale all'essere espropriati
della consapevolezza del passato, generata dal rapportarsi dell'uomo alla
nuova dimensione del tempo velocizzato della produzione e della comunicazione
che determinano il suo rapido consumo: ogni ora viene subito bruciato
e collocato nell'archivio del passato.
è una "condizione inautentica" dove il rapporto tra mezzi
e fini è capovolto e nella quale gli uomini stessi "Desiderano
essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possono
far risaltare la propria povertà, quella esteriore, e, in definitiva,
quella interiore." L'analisi della distruzione dell'esperienza
si trova anche nel breve saggio di W. Benjamin, Esperienza e povertà,
in Critica e storia, Venezia 1980, da cui è tratta la nostra
citazione.
2 L. Carrera, Viaggiare a vista, F. Angeli, Milano
2004
3 Sul tema vedi l'articolo di A. Altamura, Il sapere
della moltitudine nell'età del capitalismo cognitivo, in "Passioni
di sinistra" n. 5- Gennaio-Aprile 2004
4 L. Carrera, op. cit.
5 Richardt Sennett, L'uomo flessibile, Milano 2003
6 Zigmut Baumann, Modernità liquida, Feltrinelli,
Milano 2004, p. XIII
7 Franco Cassano, Homo civicus, Dedalo, Bari 2004
8 Domenico Chiesa, Per ragionare sui percorsi formativi
nell'età dell'adolescenza,15 giugno 2004, p. 2 nella sezione
Educazione e scuola (http./www.edscuola.it/archivio/ped.)
9 L. Carrera , op. cit., p.65
10 Ulteriori riferimenti normativi oltre al DL 276/2003
negli articoli 40, per il tirocinio e 47/53 per l'apprendistato, sono
, rispettivamente, la circolare ministeriale del 10/09/04, n. 32 e quella
del 14/10/04, n. 40
11 F. Cassano, op. cit. p. 29
12 L'immagine è tratta dalle Tesi sulla storia
in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1982
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gennaio - aprile 2005
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