Universo sostenibile e povertà d'esperienza.
Alcune note sulla riforma della scuola
di Rossana De Gennaro

1. Distruzione dell'esperienza
La figura del giocatore su cui W. Benjamin si sofferma nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire rappresenta simbolicamente la condizione alienata dell'uomo moderno nell'universo metropolitano del XX secolo. L'immagine rimanda al concetto, elaborato dallo stesso autore, della "distruzione dell'esperienza" provocata, alle soglie del nuovo secolo, dalla rottura con la tradizione, nel passaggio alla società industriale dove il tempo velocizzato della produzione viene percepito esclusivamente nella dimensione del presente, un tempo fatto di istanti immediatamente bruciati.
La dissipazione dell'eredità umana era, per Benjamin, l'espropriazione della consapevolezza del passato nella società razionalizzata dalla tecnica; come il giocatore, l'uomo moderno non può fare tesoro dell'esperienza perché entrambi vivono dentro un tempo regolato e scandito dalle regole del gioco, dall'evento, che si ripete, della prossima carta1.
La metafora del gioco d'azzardo può essere ancora utile a leggere la condizione dell'uomo flessibile dell'assetto produttivo post-fordista la cui esistenza, esposta al rischio del mutamento, generato dai processi di precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, assume sempre più i contorni incerti di ciò che è dominato dall'arbitrio imprevedibile del caso o dalla complessità di un gioco ingestibile. La flessibilità del lavoro, oggi presentata come una sorta di stadio evolutivo naturalizzato dai falsi profeti del pensiero unico, interessa in maniera sempre più significativa il panorama nazionale e locale2. Lo sviluppo della new economy e del lavoro immateriale corrispondono alla fase della organizzazione produttiva in cui la valorizzazione del capitale non è più legata solo alla produzione materiale ma alla sfera di produzione delle conoscenze a mezzo di conoscenze, a quella incorporazione in forma di merce di tutti gli ambiti del sapere che Rullani chiama "capitalismo cognitivo"3.
Decaduto il modello di produzione fordista fondato su alcuni nessi "forti" come la relazione tra l'aumento della produzione, l'aumento dell'occupazione e l'aumento del salario, sotto la spinta del mutamento prodotto dalla globalizzazione dei mercati, il mondo del lavoro è stato investito da processi di trasformazione finalizzati ad eliminarne le forme di rigidità. Nonostante gli apologeti del libero mercato si affannino a dimostrare che la flessibilità costituisce un'occasione di crescita professionale e di dinamismo sociale, la proliferazione delle forme di lavoro a termine, lavoro a chiamata, interinale, etc., previste, nel nostro paese, dalla cosiddetta "Legge Biagi" (30/2003), approvata dal parlamento il 5 febbraio scorso, ha determinato profonde trasformazioni anche nella modalità che i soggetti hanno di percepire il lavoro ed una ricaduta significativa sulla possibilità di progettare i propri percorsi di vita da parte dei giovani.
Una recente indagine4, realizzata sul territorio barese, prendendo in esame un campione di soggetti iscritti presso le agenzie interinali, punta a cogliere le differenze e /o affinità nella percezione dell'esperienza della flessibilità da parte dei soggetti interessati e ad indagare in quale misure queste dinamiche incidano sul loro progetto di vita. La ricerca mette in luce il disagio legato al carattere temporaneo e non continuativo dell'esperienza di lavoro e lo scarto notevole tra le aspettative e le aspirazioni professionali e la realtà.
L'esperienza del lavoro si frammenta, si accompagna all'incertezza, costringe i soggetti ad entrare in una dimensione di competitività che anima anche le relazioni personali (oltre che professionali). Queste dinamiche rivelano di avere un grande impatto sociale se raffrontate con il dato centrale che il lavoro ricopre ancora, nell'immaginario collettivo, un ruolo centrale nella definizione dell'identità individuale e sociale. Il lavoro è concepito come fine in sé, da esso dipende l'immagine sociale che il soggetto ha di sé, il legame con il mondo in cui si struttura la stessa identità individuale. L'identità professionale, poi, viene vissuta come l'esito di un percorso del tutto individuale di riuscita o di fallimento che spesso dipende dalla propria responsabilità di avere o non avere approfittato per tempo delle opportunità formative. Il fallimento stesso, secondo Sennett, è il tabù, l'elemento non metabolizzabile connaturato al rischio delle scelte dell'uomo flessibile5.
Z. Baumann, nel saggio Modernità liquida, analizzando gli effetti sociali delle trasformazioni produttive, sostiene la tesi che individualizzazione e solitudine sono generate dal disgregarsi delle strutture e dei sistemi di relazione in cui l'individuo era integrato e trovava i suoi punti di riferimento. I veloci processi di trasformazione del lavoro hanno logorato tutte le forme di relazione e di appartenenza a cui era legata anche la sicurezza, e il venir meno di regole e confini proietta in un universo di possibilità infinite (il mercato delle offerte formative), in una realtà liquida dove modelli di dipendenza ed interazione, codici e linguaggi, hanno perso la loro consistenza e solidità. Essendo soggetti ad un rapido mutamento; essi "non sono più "dati" e tanto meno "assiomatici"; ce ne sono semplicemente troppi e in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato in buona parte dei propri poteri di coercizione"6.
Ne consegue, come dice Cassano,7 il venire meno di ogni etica solidale e la rimozione della comunità dall'immaginario collettivo, dove la nozione di "bene comune" implicata dall'impegno sociale o politico è minata alla base dalla pervasività di un modello imperniato sul mito del vincente. è il trionfo dell'homo economicus, capace di vivere secondo i parametri di una razionalità i cui coefficienti sono l'efficacia e la produttività e il cui criterio d'azione è esclusivamente l'interesse privato. Viceversa la marginalità e l'esclusione dal mercato liberal della competizione sembra riguardare soprattutto chi non possiede quel "capitale culturale" e quelle "risorse sociali" che consentono di esporsi alla precarietà e all'incertezza delle condizioni del lavoro. La cultura diventa il "luogo di confine" delle disuguaglianze: chi non possiede professionalità ad alto contenuto di specializzazione sarà tagliato fuori dalla competizione sin dall'inizio. Su questo sfondo le agenzie educative e in modo particolare la scuola sono chiamate a svolgere un ruolo cruciale ma, per non tradire la loro vocazione educativa, dovrebbero sottrarsi ad ogni tentazione tecnicistica. In questa analisi vorrei evidenziare come la già menzionata "Legge Biagi" che disciplina l'occupazione e il mercato del lavoro sia simmetrica ai provvedimenti normativi varati dal governo di centro- destra riguardo alla scuola e che entrambe rientrano nella logica di una trasformazione del mercato del lavoro in senso neoliberista. La deregulation che investe le forme del lavoro, reso più leggero e flessibile dai nuovi contratti e dalla caduta della concertazione, si accompagna ad un massiccio e capillare intervento sul sistema dell'educazione-istruzione, riformato per garantire la riproduzione di un sapere integrato e funzionale ad un sistema produttivo che richiede una forza lavoro flessibile, docile e spostabile.

2. La posta in gioco
Alcuni aspetti della "riforma Moratti" e in particolare la ristrutturazione degli studi medi superiori sono una espressione cruciale dell'ideologia che è sottesa a tutti gli interventi normativi di cambiamento che sino ad ora hanno riguardato la scuola. Mi riferisco alla prospettata distinzione in due comparti del sistema degli studi medi superiori: "Il secondo ciclo è costituito dal sistema dei licei e dal sistema dell'istruzione e della formazione professionale"; un "congegno" che sembra fatto apposta per riperpetuare le differenze di classe se viene adeguatamente scomposto e analizzato.
Se facciamo una breve cronistoria della (contro) riforma Moratti scopriamo che con l'approvazione della legge di Riforma della scuola si chiude un percorso che è iniziato con un'altra legge-delega del 1997, ossia la famosa legge Bassanini (59/97) che nell'art. 21 introduceva l'autonomia scolastica. L'autonomia sembra essere uno strumento formidabile per integrare la scuola in una logica di mercato realizzando la scuola impresa che produce una specifica merce rispondente alle domande degli utenti e istituendo la competizione, sul mercato dell'istruzione, tra le scuole. L'aziendalizzazione e la privatizzazione dell'istruzione, supposte da tale provvedimento, sono state però poste con forza da una legge-architrave approvata il 10 marzo 2000: la legge di parità scolastica, con cui viene assegnata, alla scuola privata (che è scuola di parte) lo stesso ruolo e funzione e portata della scuola pubblica che dovrebbe essere la scuola di tutti, quella che, a norma del dettato dell'art. 3, non deve istituire distinzioni di sorta quanto al ceto sociale, alle possibilità economiche, alle differenze di credo religioso o di orientamento culturale. Ora che queste due realtà sono unificate nel medesimo sistema di istruzione nazionale, la scuola pubblica, come luogo che dovrebbe garantire l'istruzione nel rispetto dell'uguaglianza e dell'accettazione reciproca, appare minata nel suo stesso statuto. A questa logica di distruzione del servizio pubblico, coerentemente con l'attacco ai vari settori del Welfare, sembrano riconducibili anche altri provvedimenti che negli ultimi due anni hanno caratterizzato l'azione del governo nei confronti della scuola: dalla parificazione della condizione degli insegnanti delle scuole private a quella degli insegnanti della scuola pubblica, allo smantellamento del valore legale del titolo di studio, con l'"esame interno"; dalla immissione in ruolo degli insegnanti di religione cattolica, ai maggiori finanziamenti alle scuole private, sino ai tagli previsti per la scuola dalla Finanziaria del 2003 e del 2004 e alle recenti proposte di legge relative al nuovo statuto giuridico dei docenti. Sarebbe troppo complesso parlare della riforma della scuola nella sua globalità e riassumere le critiche che sono state mosse al decreto attuativo della legge 53/03 riguardante la scuola primaria. Qui possiamo solo sottolineare che la scelta di progettare due sistemi di formazione per il secondo ciclo segna e orienta l'intero disegno di cambiamento contenuto nella legge 53/03 e rappresenta una cesura radicale nei confronti del filo conduttore che ha guidato le scelte di politica scolastica dagli anni '60 in poi, prodotte da una battaglia per una scuola laica, libera ed aperta a tutti.
La proposta di anticipare a 14 anni la scelta del sistema formativo (alla conclusione del primo ciclo) e la trasformazione dell'obbligo dell'istruzione nel biennio di studi superiori in diritto-dovere, inoltre, devono costituire elemento di riflessione. Se nell'accesso di tutti all'istruzione si costituiscono le basi di una società democratica, come non interrogarsi sulla " filosofia" sottesa a questo disegno di riforma? La cancellazione dell'obbligo – in un'età molto delicata – si converte nella sottrazione di un diritto, specie alla luce del processo di privatizzazione che investe il servizio educativo pubblico.
Il percorso formativo nell'età dell'adolescenza dovrebbe prevedere il prolungamento dell'obbligo di istruzione di almeno due anni; ciò "...Rappresenterebbe una tappa storica nel processo che dall'inizio degli anni sessanta segna lo sviluppo della scuola nella direzione di un suo rilancio e della sua rivalutazione come istituzione costituzionale. E' una scelta che, superando ma non annullando quelle degli anni settanta – novanta, ridisegna la scuola come uno dei fondamentali motori della democrazia, contrapponendosi allo strisciante processo di descolarizzazione che si respira in alcuni atteggiamenti sociali e politici."8
Se si costruiscono due percorsi formativi alternativi tra loro, uno più lungo (5 anni) che all'inizio sia di sola istruzione, finalizzato al raggiungimento delle professioni più alte tramite l'accesso all'università dopo il diploma; ed uno più corto (quattro anni) che destina verso attività professionali per le quali l'istruzione e la formazione professionale sono tutt'uno già all'età di quattordici anni, appare piuttosto chiaro che si configurano due diversi sistemi educativi.
Il primo tipo di scuola sembra incentrato su principi gentiliani; il secondo sistema, denominato di istruzione e formazione professionale, nasce dal superamento dell'attuale distinzione tra istituti tecnici, professionali, e formazione professionale regionale.
Il percorso liceale è costruito sull'idea di uno studio "disinteressato" finalizzato alla formazione culturale (la metacognizione, il metagiudizio); nel secondo ordine di studi le conoscenze dovrebbero essere selezionate e "dosate" in base all'obiettivo della formazione professionalizzante da raggiungere. Evidentemente il passaggio da un sistema all'altro non è biunivoco; si può supporre che avverrà più facilmente dal primo al secondo ordine di studi dove la teoria è immediatamente finalizzata ad un fare pratico. Le parole di L. Carrera mi sembrano illuminanti per chiarire il problema a cui mi riferisco: Ciò che rimane ancora da chiedersi è se un modello formativo teso a trasferire saperi tecnicamente adeguati sia funzionale rispetto al fine di costruire la capacità di gestire consapevolmente quegli stessi saperi, e per la formazione di una cultura politica di cittadinanza attiva che renda ciascun soggetto in grado di giudicare i processi in atto e di operare scelte ampie che eccedono la sua singolare ed immediata situazione9.
Va sottolineato che nell'adolescenza il lavoro può essere veicolato solo nella dimensione della formazione culturale e che tale formazione, quando avviene al di sotto dei 18 anni, pone le condizioni di base per le reali possibilità di accesso alla formazione in futuro. La cultura che può servire per il lavoro, è quella che, secondo L. Gallino, assicura la capacità di dare operatività ad un sistema di conoscenze, di ordinarle, di organizzarle all'interno di un processo lavorativo.
Oggi il mercato del lavoro è profondamente cambiato: le professionalità richieste sono sempre più complesse e conoscono una sempre più rapida evoluzione; a fronte di questi processi l'istruzione non è più trasmissione di conoscenze inerti e la formazione non è più addestramento o una forma di istruzione minore e subordinata, o, almeno, così dovrebbe essere; le due funzioni non dovrebbero sussistere in alternativa e separatamente ma integrarsi in una maniera complementare. La disintegrazione dell'esperienza conoscitiva sussiste proprio nella separazione tra le dimensioni emotiva, cognitiva, operativa; nell'avallare una cultura del thèorein contro una dell'operare, nel considerare gli aspetti teorici distinti da quelli operativi, l'approccio induttivo come separato da quello deduttivo. Le competenze culturali non possono essere pensate come estranee alla cultura delle professioni: alcune di esse non si sviluppano in riferimento esclusivo all'acquisizione di uno specifico professionale, perché sono profonde, trasversali, pervasive e persistenti e quindi autonome rispetto al profilo professionale.
Se è fondamentale che la scuola incontri il lavoro lo dovrebbe fare con i mezzi che le sono propri, ossia quelli della cultura. L'alternanza scuola-lavoro nel triennio, prevista nella 53/03, continuando una linea espressa dai documenti presenti nel dibattito sin dagli anni '90 (quelli della commissione Bertagna), è invece riconducibile all'idea di rivalutare la formazione professionale come percorso formativo alternativo a quello dell'istruzione sin dai 13/14 anni. Non solo configura la rinuncia della scuola a ricoprire un ruolo nell'emancipazione sociale ma sembra rispecchiare la convinzione che l'istruzione funzioni per una parte della popolazione e non sia proponibile per la rimanente.
3. Regionalizzazione e privatizzazione
La logica che sta dietro al doppio sistema non solo elude il serio problema della formazione professionale, sicuramente uno dei grandi temi da affrontare in un processo di innovazione del sistema formativo, ma rimanda alla nuova filosofia del lavoro di stampo neoliberista che ha animato la politica del governo dai patti territoriali alla Legge Biagi.
Tra le diverse tipologie di contratto di formazione lavoro quest'ultima prevede, tramite il Dlgs 276/2003, oltre al tirocinio (non retribuito), l'apprendistato, che sono le modalità principali in cui si realizza l'alternanza scuola-lavoro stabilita dall'art. 4 della legge Moratti sulla scuola .
Per l'attivazione del tirocinio sono previste apposite convenzioni tra i soggetti promotori: Centri per l'impiego, Uffici scolastici regionali, Scuole, Centri di formazione professionale e le imprese, nonché l'elaborazione di specifici progetti di formazione-orientamento nei quali sono indicati obiettivi e modalità di svolgimento del tirocinio, da svolgersi sotto la direzione di un tutor nominato dalla scuola
Nel testo inoltre si distinguono tre forme dell'apprendistato. Accanto all'apprendistato per l'espletamento del diritto dovere d'istruzione e formazione, riservato a giovani e adolescenti fra i 15 e i 18 anni, della durata massima di tre anni, determinato in base alla qualifica, al titolo di studio, ai crediti professionali e formativi acquisiti, nonchè alle specifiche richieste dei soggetti privati accreditati o dei servizi pubblici, c'è l'apprendistato professionalizzante, per giovani diciassettenni che dopo i quattro anni di studi professionali previsti dalla riforma Moratti, hanno una qualifica professionale ed aspirano.a migliorarla. Infine, per quanto concerne la terza tipologia, l'apprendistato finalizzato al conseguimento di un diploma o ad un percorso di alta formazione, durata e caratteristiche sono stabilite dalle regioni, in accordo con le parti sociali e le istituzioni formative.
Perché la disciplina di queste tre forme di apprendistato sia operativa è necessaria la regolamentazione dei profili professionali demandata dal Dgsl alle Regioni e alle province autonome10.
La strumentalità della scuola nei confronti della logica economica dell'impresa si legge sin da ora nella preoccupazione che la formazione-istruzione produca competenze che siano sempre più strettamente commisurate alle esigenze produttive del territorio: i crediti formativi, rilasciati dalla scuola, dovrebbero infatti servire a certificare il possesso di saperi spendibili sul mercato del lavoro, acquisiti tramite spezzoni di esperienza lavorativa sottopagata o priva di compenso; e i famigerati progetti di cui nella scuola dell'Autonomia è costellato il percorso didattico rischiano di riferirsi in misura sempre maggiore ad obiettivi formativi calibrati sulle esigenze economiche delle imprese locali.
Il fatto che questo sistema di studi superiori sia destinato, negli aspetti più specificatamente volti alla formazione di competenze professionali, ad essere finanziato dalle regioni, e gestito da aziende presenti sul territorio, apre ulteriori interrogativi sulle prospettive qualitative della formazione che verrà garantita in territori meno attrezzati sotto il profilo della competitività industriale, e in una logica di privatizzazione. Si intravede lo scenario, preoccupante, di una marginalità economica e produttiva che proietta le sue conseguenze sulla formazione dei profili professionali che vengono "prodotti" dalle scuole del Sud, sempre più arretrate e lontane dagli standard che consentono di partecipare alla competizione.
Riportare a 16 anni l'obbligo scolastico, mantenendo fermo l'obiettivo di innalzare le competenze di base di tutti, per poi definire un triennio superiore differenziato e integrato, di istruzione- formazione professionale- apprendistato, appare necessario per realizzare obiettivi di eguaglianza sociale e democrazia. Ridare fiato alla progettazione culturale, ed invertire la politica economica sulla scuola, contrastare i provvedimenti di una finanziaria iniqua che prevede tagli su risorse sociali come la cultura e la formazione, appaiono, più che obiettivi, strumenti per intervenire sull'immagine che gli operatori della scuola hanno di se stessi, per attivare fermenti positivi che agiscano sull'inerzia e la passività.

4. Per una cultura della cittadinanza
La critica ad una cultura e ad un modello educativo in cui domina incontrastato il paradigma di una razionalità formale richiama la premonizione espressa, già nella Crisi delle scienze europee (1935-37), dal filosofo tedesco Husserl, che, di fronte alla crisi della civiltà e all'avanzare dei totalitarismi, avvertiva che "le scienze di fatto creano meri uomini di fatto", espressione con cui intendeva richiamare la necessità di un ripensamento dello statuto epistemologico delle scienze alla luce di un sapere critico. La conoscenza non può appiattirsi nella dimensione della thècne perché ciò significa la scelta per una razionalità sistemica da cui è totalmente espunta l'interrogazione etica sul fine e la destinazione della conoscenza stessa. In modo analogo la formazione culturale non può ridursi alla trasmissione di scampoli di operatività o di conoscenze tecnologiche ad alto contenuto di specializzazione. Il ruolo della scuola è di favorire l'accesso alla conoscenza come "bene in sé", e oggi, particolarmente, strumento di inclusione o di esclusione sociale. La formazione-istruzione può costituire il filo conduttore che consente di ricostruire il senso delle esperienze fatte e garantire significato ai frammenti della propria esistenza nei diversi ambiti di vita. Per Adorno, che già nel 1947 avvertiva l'effetto sconvolgente che la dialettica dell'illuminismo avrebbe prodotto nelle rappresentazioni culturali dell'uomo della società post-industriale, quando la cultura cessa di essere elaborazione consapevole della conoscenza è Halb-Bildung, un patrimonio slegato di conoscenze di cui il soggetto non si appropria mai completamente. Il semicolto è colui che sa molte cose e si appaga di informazioni effimere e sostituibili ma non sa produrre una sintesi costruttiva e creativa in grado di attivare quelle conoscenze e renderle strumento di esperienza nel mondo.
è Cassano nell'ultimo suo saggio, Homo civicus, a sottolineare l'importanza della formazione civile ed etica per facilitare lo sviluppo, non solo economico, del Sud, da cui emigrano le migliori energie intellettuali.
La cittadinanza attiva, egli sostiene: "E' l'unica forma attraverso la quale gli interessi comuni ritornano, senza imposizioni dall'alto, al centro dell'attenzione degli individui, la forma libera e democratica con cui si combatte l'idiotismo di massa e i suoi interessati tutori e cantori, quell'uscita dalla solitudine che è assolutamente necessaria per coloro che sono i più deboli"11.
La capacità di partecipare alla propria esistenza politica e sociale si gioca all'interno di una dimensione culturale in cui non sono implicate le nuove categorie del problem solving .... ma piuttosto le competenze critiche e riflessive, la capacità di assimilare valori sociali "su cui si può rifondare la pratica dell'appartenenza collettiva".
Alla dispersione individualistica e alla marginalizzazione dei più deboli, che senza un legame comune rimarrebbero schiacciati dalla condivisione di modelli omologati, bisognerebbe opporre una cultura educativa che favorisca la condivisione di valori comuni, l'attivarsi della cooperazione e della solidarietà. Rinsaldare la cultura del solidarismo e del bene comune, costituisce la risposta più alta al pericolo del nuovo totalitarismo rappresentato dal biopotere, imperante sulla vita di individui inerti e passivi che nel consumo esprimono compiutamente la loro sudditanza.
Pensare che un altro mondo è possibile, evoca un'altra bellissima immagine di Benjamin: quella dell'Angelo della Storia che si erige sulle macerie dell'umanità per riscattarla dalla catastrofe, per ridare fiato all'utopia12.


1 Il fatto di ricominciare sempre di nuovo è l'idea regolativa del gioco così come del lavoro salariato (W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1982, p. 114). La deprivazione dell'esperienza umana equivale all'essere espropriati della consapevolezza del passato, generata dal rapportarsi dell'uomo alla nuova dimensione del tempo velocizzato della produzione e della comunicazione che determinano il suo rapido consumo: ogni ora viene subito bruciato e collocato nell'archivio del passato.
è una "condizione inautentica" dove il rapporto tra mezzi e fini è capovolto e nella quale gli uomini stessi "Desiderano essere esonerati dalle esperienze, desiderano un ambiente in cui possono far risaltare la propria povertà, quella esteriore, e, in definitiva, quella interiore." L'analisi della distruzione dell'esperienza si trova anche nel breve saggio di W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Critica e storia, Venezia 1980, da cui è tratta la nostra citazione.
2 L. Carrera, Viaggiare a vista, F. Angeli, Milano 2004
3 Sul tema vedi l'articolo di A. Altamura, Il sapere della moltitudine nell'età del capitalismo cognitivo, in "Passioni di sinistra" n. 5- Gennaio-Aprile 2004
4 L. Carrera, op. cit.
5 Richardt Sennett, L'uomo flessibile, Milano 2003
6 Zigmut Baumann, Modernità liquida, Feltrinelli, Milano 2004, p. XIII
7 Franco Cassano, Homo civicus, Dedalo, Bari 2004
8 Domenico Chiesa, Per ragionare sui percorsi formativi nell'età dell'adolescenza,15 giugno 2004, p. 2 nella sezione Educazione e scuola (http./www.edscuola.it/archivio/ped.)
9 L. Carrera , op. cit., p.65
10 Ulteriori riferimenti normativi oltre al DL 276/2003 negli articoli 40, per il tirocinio e 47/53 per l'apprendistato, sono , rispettivamente, la circolare ministeriale del 10/09/04, n. 32 e quella del 14/10/04, n. 40
11 F. Cassano, op. cit. p. 29
12 L'immagine è tratta dalle Tesi sulla storia in Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1982

gennaio - aprile 2005