Se
fino a qualche anno fa il termine più usato in atti politici e
istituzionali era programmazione, il verbo dei
nostri tempi sembra essere modernità. Modernità
cui saccompagnano, quasi come corollari obbligati, altre parole
dordine quali flessibilità, privatizzazione e deregulation.
E del tutto ovvio che i titolari, i decisori dei processi culturali,
economici e sociali debbano essere di tipo politico. Politico nellaccezione
weberiana del termine che intende la capacità di comprendere
le dinamiche sia dal punto di vista di sapere di cosa si parla,
sia di esercitare unefficace capacità di mediazione e di
sintesi. E politico anche nel senso di avere autorevolezza e credibilità
nel comporre conflitti e proporre orizzonti lungo i quali mobilitare coscienze
e intelligenze. Se non fosse la politica a esercitare questi ruoli, saremmo
in presenza o di logiche darwinistiche e del prevalere lobbistico
di pochi, o di sempre più crescenti esclusioni, a tutto vantaggio
di una insostenibile atomizzazione della società.
Il fatto é, purtroppo, che in società complesse, quali sono
le nostre, in cui il sistema complessivo sembra contraddistinguersi per
una incapacità evidente del farsi carico della soluzione dei problemi,
si assiste a una duplicità di fenomeni. Per un verso rincorrere
schemi del passato che non appaiono più idonei ai temi, ai ritmi,
alle esigenze dei giorni nostri. Per altro, unidolatria acritica
del modernismo, pesantemente intrisa della cancellazione della
storia, della censura di identità, della mistica del mercato e
del privato, del misurarsi nella competizione a scapito di diritti (e
doveri), della abrogazione di valori ritenuti imprescindibili quali la
solidarietà, la cultura, i saperi, lapprofondimento e così
via, dellimperativo categorico del profitto, del benessere materiale,
dellaffermazione individuale. Mentre, per contro, sempre più
impellenti e ineludibili si fanno le domande di specialismi, di approfondimenti,
di discussioni, e soluzioni, nel merito delle cose.
Una politica, quindi, che deve rinnovarsi e riqualificarsi, riappropriandosi
dei suoi spazi, che non devono essere invasivi né residuali, e
che per farlo necessita anche, in misura non banale e prima di tutto,
di conoscere il mondo in cui opera, di individuare priorità, di
mettere in campo risorse materiali e immateriali , di attrezzare
strumentazioni efficienti. Compito questo delle classi dirigenti in senso
lato, senza confusione di ruoli, senza velleità di surroghe, ma
con il preciso obiettivo di fare sistema, di integrare, cioè, allinterno
di una tela comune, capacità e prerogative di vario tipo. Di mettere
insieme, insomma, la società dei saperi e la galassia della politica.
E necessario comporre, in particolare, i molti pezzi della classe
dirigente meridionale, con il compito di fornire contributi di metodo
e di merito, alla soluzione dei troppi ritardi, delle tante inadeguatezze,
delle ingiustizie per molti e dei privilegi per pochi, delle occasioni
mancate, delle risorse male utilizzate, delle intelligenze sprecate, delle
coscienze assopite. In uno, vorrei che il fatalismo, lattendismo,
leterodirezione, lassistenzialismo, linadeguatezza progettuale
e gestionale, che taluni hanno eretto di fatto a paradigmi antropologici
di un Sud quasi derubricato, venissero ribaltati lungo un percorso graduale
e condiviso di protagonismo responsabile. Viviamo tempi in cui il confronto
e la tensione rivolti al Mezzogiorno e a un nuovo meridionalismo appaiono
del tutto assenti; lindividualismo, lopportunismo, un plebeismo
che sintreccia con il glamour, e leffervescenza di
facciata, lafasia, contraddistinguono il disimpegno e la mancanza
di riferimenti per intellettuali, studiosi, pensatori, cittadini comunque
disorientati, che pure potrebbero fornire aggiornamenti e contributi di
rilievo.
Il punto di avvio, di verifica, di questo processo, di questa proposta,
può essere individuato nellUniversità. Le politiche
europee da anni ormai privilegiano atti, misure e risorse nel campo del
capitale umano, della formazione, dellinnovazione dei processi,
della ricerca e dei saperi, indirizzati verso uno sviluppo in cui il PIL
vada avanti, sì, speditamente, ma dentro il quale la distribuzione
e la qualità della ricchezza assumano dimensioni e tenori diversi.
In cui consapevolezza e padronanza diffuse siano i termini prevalenti
e privilegiati.
Sono ancora presenti, nelle università italiane, evidenti tratti
propri delle universitas medievali, associazioni di studenti e
docenti, miranti a ottenere la massima autonomia di fronte sia allautorità
temporale che a quella ecclesiastica, e a investire nella conoscenza,
così da formare un vero e proprio potere fra poteri. Più
volte messo in discussione, questo impianto ha nel tempo subìto
se non stravolgimenti, di certo sostanziali aggiustamenti, in specie in
corrispondenza della nascita degli stati nazionali. Oggi, si può
dire, il modello vigente da noi si basa su quello francese e su quello
tedesco, accompagnando i processi di industrializzazione e di formazione
dei quadri tecnici e amministrativi pubblici e privati. Luniversità
disegnata da Humboldt é il luogo della formazione delle élite,
nazionalizza listruzione superiore e la rende funzionale allottenimento
di finalità pragmatiche e funzionali, oltre che alla riproduzione
ideologica.
Più di recente - e non solo in Italia, non solo in Europa - il
sistema universitario é riuscito a conservare un suo equilibrio,
a volte un interscambio, fra due distinte impostazioni, comunque entrambe
presenti al suo interno: da una parte ricerca e insegnamento, formazione
scientifica e culturale; dallaltra formazione tecnica, esecutiva
e professionale. Per essere più espliciti: di qua il luogo di formazione
culturale, civile e della ricerca libera, con il compito, anche, di conservare
e aggiornare lungo le generazioni lassetto e il complesso dei saperi,
di formare coscienze e cittadini consapevoli e liberi; di contro università
come scuola superiore, per funzionari, manager, imprenditori, professionisti,
finalizzati e rigidamente funzionali alle dinamiche di mercato. Lequilibrio
è messo fortemente in discussione dalla massiccia domanda distruzione
degli ultimi quarantanni che ha prodotto la proliferazione indiscriminata
di nuove università, spesso in aree sprovviste di un adeguato retroterra
infrastrutturale e culturale, oltre che politico, rischiando di perseguire,
nei fatti, solo una formazione puramente professionale o comunque culturale
di profilo modesto. E, paradossalmente, questo rischio è maggiormente
presente in quelle parti del Paese e del Mezzogiorno dove più che
in altre è necessario accorciare la distanza fra cittadini e Stato,
fra amministratori e amministrati, dove accanto alla formazione di classi
dirigenti professionali è necessario, prioritario anzi, formare
persone consapevoli di diritti e doveri, in grado di interagire con protagonismo
e consapevolezza con il sistema dei poteri, quali che siano.
Lequilibrio, che appare e si denota, salvo necessari adeguamenti,
fruttuoso e virtuoso ancora oggi, ha bisogno come dice con acutezza
Remo Ceserani di massicci investimenti non finalizzati a risultati
e profitti immediati, di sostegno e coordinamento delle istituzioni statali,
di una rete organica e coordinata di centri di ricerca, di meccanismi
di selezione corretti e trasparenti sia di docenti che di ricercatori
e professori.
Qual é il grado di ricaduta dei risultati della ricerca scientifica,
in Italia, nella produzione e nei processi industriali? Molto basso, purtroppo,
se la quotazione italiana in termini di innovazione ci vede relegati al
fondo. Così come, con 0,16 laureati ogni mille abitanti, contro
una media europea di 0,56 e il top della Svezia con 1,24, siamo sconsolatamente
in coda anche alla Grecia e al Portogallo. Per la ricerca in Italia si
spende l1,04 del PIL contro una media UE dell1,94; i ricercatori
sono 28 ogni 1000 abitanti (131 in Finlandia), le esportazioni in alta
tecnologia calano con ritmi del 6 per cento annuo. E se vi sono nazioni
- tranne lAustria, la Grecia, il Portogallo - in cui gli investimenti
dellindustria privata risultano massicci e concorrono con quelli
statali, compensandoli in alcuni casi, in Italia non cè traccia
di una presenza in tal senso da parte del mondo imprenditoriale, che mostra
così tutti i suoi limiti di gracilità e di scarsa strategia
innovativa.
Risulta del tutto evidente come ci sia la necessità di interventi
correttivi, quindi, nel nostro sistema tanto formativo che scientifico,
sia per formare cittadini-professionisti, sia per concorrere nella sfida
dellinnovazione. In che direzione vanno gli atti governativi? Nelle
Linee Guida per la Politica Scientifica e Tecnologica del Governo é
richiamato con grande evidenza lobiettivo proposto dal Consiglio
dEuropa di Lisbona: intensificare gli sforzi e gli investimenti
nella ricerca scientifica e tecnologica, nellinnovazione e nella
formazione. E ancora: accelerare produzione, diffusione
e utilizzazione di conoscenze. Il Sesto Programma Quadro Ricerca
e Sviluppo della UE ha come obiettivi generali il rafforzamento delle
basi scientifiche della Comunità; favorire lo sviluppo della sua
competitività; promuovere le azioni di ricerca. Prevede risorse
per 17,5 miliardi di euro su sette aree tematiche, e strumenti quali le
reti di centri deccellenza, i progetti integrati, programmi specifici.
Il Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006 per le regioni dellObiettivo
1 promuove interventi finalizzati al miglioramento permanente del contesto
economico, sociale e ambientale del Mezzogiorno, con risorse significative
devolute alla ricerca e allalta formazione. Più in generale,
sono almeno otto, le azioni disponibili, nel contesto europeo, cui fare
riferimento: PRIN (dinteresse nazionale), FIRB (ricerca di base),
FAR (agevolazione della ricerca), FISR (fondo integrativo), FIT (innovazione
tecnologica), FOE (enti pubblici di ricerca), PON (operativo nazionale),
RSF (ricerca sanitaria finalizzata).
Se questo è lo sfondo, in altre sedi il Governo Nazionale sta portando
avanti, fra smentite e conferme, due progetti che riguardano, uno il Consiglio
Nazionale delle Ricerche e i grandi centri di ricerca, laltro lintervento
privato nelle Università mediante lo strumento delle Fondazioni.
Lo smembramento del CNR in più megaistituti, la presenza prevalente
nei board di gestione e di indirizzo di soggetti privati e di diretta
emanazione politica (anche qui siamo in presenza di fondazioni di diritto
privato), la soppressione di prestigiosi centri, la riforma dellENEA,
dellASI, degli Istituti di Sperimentazione Agraria, eccetera, sono
in una fase che va aldilà della mera enunciazione. E i pronunciamenti,
le prese di posizioni, il movimento che è nato nella
comunità scientifica nazionale deve trovare, io ritengo, una sua
eco pù vibrante anche nel Sud. Non perché non si debba innovare,
ma perchè sarebbe buona norma attivare un confronto fra decisori
e destinatari delle decisioni, e anche perchè la portata delle
riforme rischia di sortire risultati di vero e proprio arretramento.
Una Commissione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane
sta elaborando per il Ministro Moratti un documento e un testo articolato
di riforma del sistema universitario in cui, oltre al già citato
intervento privatistico, sono messi in discussione acquisizioni e capisaldi
di civiltà a mio parere intangibili, e la Legge Finanziaria smentisce
lassunto e le indicazioni del documento ministeriale, oltre che
delle politiche comunitarie, non solo non incrementando, ma addirittura
tagliando pesantemente i fondi per le università e per la ricerca.
Ma cé, nella politica del Governo, qualcosa di meno tangibile
e non per questo meno pericoloso: cé lobiettivo di
dequalificare le università pubbliche a vantaggio di centri privati
deccellenza; cé lo scopo di subordinare ogni forma
di produzione culturale e scientifica a logiche di contabilità
aziendale; cé lobiettivo di marginalizzare e sterilizzare
i saperi critici. Non savverte grande attenzione e sufficiente tensione,
nel nostro mondo, rispetto a tutto questo, a questa voglia matta di trasformare
il sapere in un supermarket. Cé un assopimento delle coscienze
e una oggettiva omologazione al trend prevalente, anche, e purtroppo,
da parte di chi, per vocazione e mestiere, deve esercitare strumenti di
indagine e di capacità critica.
Lultimo documento governativo di riordino dello stato giuridico
del personale docente, e non solo, in verità ha innescato una miccia
che sta ardendo in tutti o quasi gli atenei: il trattamento Co.Co.Co.
assegnato alle future leve del personale docente e di ricerca è
quanto di più umiliante e autolesionista si possa pensare. Riuscirà
il movimento creatosi e sviluppatosi ad arrestare la deriva inaccettabile
cui il Governo vorrebbe marginalizzare listruzione pubblica?
Le politiche regionali, quelle calabresi in particolare, per finire.
Non cé spazio, nè forse è questa la sede, per
tentare una sommaria ricostruzione di come nacque lUniversità
della Calabria, di come si passò alle Università di Reggio
Calabria e di Catanzaro, di comè nato il Sistema Universitario
Calabrese. Delle attese, delle realizzazioni, delle trasformazioni radicali
che le università hanno prodotto nella mentalità, nei costumi,
nella vita e nelleconomia delle nostre genti, delle resistenze che
hanno incontrato e incontrano. E il caso, qui, di soffermarsi sul
gap di integrazione che cé fra università e territorio,
e sul ruolo, quindi, che luniversità é oggettivamente
chiamata a svolgere, oggi e domani.
Io sono certo, da tempo, che il primo passo fra politica e intellettualità
deve compierlo la politica, che, per definizione, ha il compito di portare
a sintesi, per gli interessi generali, le attività e i settori
della vita civile: senza invasività, ma con sobrie e decise doti
e dosi di direzione. Nè un certo modo di intendere e praticare
la politica può, di fatto, assumere il luogo dei saperi e dellemancipazione
come un ricettacolo intellettualoide da strumentalizzare quando serve,
da ghettizzare quasi sempre, perché potenzialmente sede della messa
in discussione di rapporti di sudditanza, di plebeismo e notabilato, di
rottura del patto perverso che lega i signori della politica
ai cittadini succubi.
Telcal, Crai, Cud, Calpark, Crati valley, Intersiel, Carisiel, sigle e
progetti degli ultimi dieci anni, che sembravano strumenti forti, nel
terziario avanzato, dellinformatica e della telematica, quale confronto,
quali tranche de vie comuni hanno visto fra politica e saperi?
Al 31 dicembre 2002, quando il progetto Telematica Calabria, con oltre
400 miliardi di lire dinvestimenti cash, ha ultimato il suo compito,
cosa è restato in Calabria, e cosa è stato delle decine
di figure professionali formatesi con alto grado di know how? Calpark,
negli ultimi tempi presente nellagroalimentare, è diventato
un oggetto misterioso; il CUD, Consorzio per lUniversità
a Distanza, non cè più, forse anche perché
troppo baricentrato su commesse pubbliche; il CRAI, Consorzio per la Ricerca
Applicata in Informatica, ora TESI, versa in condizioni preagoniche, probabilmente
per le stesse ragioni; in CARISIEL, azienda informatica per i servizi
bancari, si respira area di smobilitazione. E le numerose aziende e i
consorzi sorti nel campo della telematica e dellinformatica su tutto
il territorio regionale, seppure espressione di dinamismo, pagano lo scotto
dellassenza dintervento e di strategie regionali e nazionali.
Telecom, come la grande parte dellindustria nazionale, sceglie la
via dellintermediazione finanziaria, marginalizzando o dismettendo
investimenti e gestione nel settore; le risorse economiche, pur potenzialmente
disponibili a valle di progetti, non si vedono.
Intanto, chiudono anche quelle aziende manufatturiere, poche in verità,
possibili tasselli di quella filiera del legno che passa dalla chimica
al bosco alle aree interne, allagricoltura, ai parchi naturali,
attraverso lo sviluppo sostenibile e la nuova politica agricola comunitaria,
con diretti ed evidenti nessi con i profili identitari di intere comunità,
in balìa di una distorta e perversa applicazione supìna
dei meccanismi di globalizzazione.
E, dulcis in fundo, il Distretto Scientifico e Tecnologico. Risorse economiche
ingentissime, capacità professionali e manageriali esistenti, progettualità
da mettere sul terreno, disponibilità da parte di imprese attratte
e interessate, pure. La lotta fra i campanili, gli appetiti di qualche
uomo di governo nel privilegiare il proprio bacino elettorale, altri interessi
volti a valorizzare preesistenze dismesse e rendite fondiarie, liti allinterno
dei decisori: e così pare tutto sia rinviato ad altra data, in
attesa di altri tempi e di altri attori, e anche di perderli, questi fondi,
come pure, purtroppo, cè il rischio che accada per lammontare
dei fondi europei nel complesso, il cui tasso dutilizzazione è
al minimo assoluto. La Basilicata fra breve uscirà dalle aree dellobiettivo
1: in Calabria si ha più che la sensazione che si faccia, oggettivamente,
di tutto per restarci e perseverare nella politica delle mance, dellassistenza,
della subalternità e del bisogno, che una certa politica è
maestra nellinterpretare, dato che solo questa conosce, mentre il
Governo Nazionale di fatto cancella il Mezzogiorno (vedi le ultime e lultima
in particolare legge finanziaria).
Ma cosa facciamo delluniversità, del sistema universitario
regionale? Vinta abbondantemente, e da tempo, la scommessa di portare
allistruzione universitaria tanti giovani che altrimenti sarebbero
stati esclusi, proseguendo nel compito di amalgamare provenienze geografiche
e sociali diverse, così da costruire coscienze e profili professionali
non solo locali, è maturo il tempo di mettere le università
nel fuoco del dibattito riguardante la progettualità politica,
il futuro della nostra terra.
Con quale frequenza e intensità ci si è relazionati con
le università, viste quasi sempre come oggetti un po misteriosi?
La programmazione dal basso, lasse Por, i Pit, a prescindere anche
qui da qualche meritoria per quanto parziale sinergia, come si stanno
gestendo? Sono evidenti le azioni che lUniversità della Calabria
ha intrapreso sia sul versante dell internazionalizzazione che su
quello dei rapporti con l imprenditoria, ma lo sforzo da compiere
è quello di ricondurre tutto allinterno di una logica di
sistema, correggendo anche, in sede di autocritica, talune timidezze,
certi impacci, forse anche un deficit di piglio positivo e propositivo
da parte delle università calabresi.
Al ceto politico, tutto, alle istituzioni locali e regionali, ai tanti
cittadini in deficit di riferimento in una società sempre più
caratterizzata da un tasso crescente di entropia è rivolto questo
argomentare e la disponibilità della comunità scientifica
e universitaria. In Campania una commissione di saggi, fra
cui trenta docenti delle università di Napoli e di Salerno, da
qualche mese sta elaborando, su incarico della Giunta Regionale, un rapporto
sulle politiche di sviluppo; in Basilicata il destino delluniversità
è legato al consolidamento e al rafforzamento del rapporto delle
istituzioni universitarie e dei centri di ricerca con le amministrazioni
locali: vogliamo estendere e generalizzare questo modello?
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gennaio - aprile 2005
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