Università: saperi, innovazione, sviluppo
di Massimo Veltri

Se fino a qualche anno fa il termine più usato in atti politici e istituzionali era “programmazione”, il “verbo” dei nostri tempi sembra essere “modernità”. Modernità cui s’accompagnano, quasi come corollari obbligati, altre parole d’ordine quali flessibilità, privatizzazione e deregulation.
E’ del tutto ovvio che i titolari, i decisori dei processi culturali, economici e sociali debbano essere di tipo politico. Politico nell’accezione weberiana del termine che intende la capacità di comprendere le dinamiche sia dal punto di vista di “sapere di cosa si parla”, sia di esercitare un’efficace capacità di mediazione e di sintesi. E politico anche nel senso di avere autorevolezza e credibilità nel comporre conflitti e proporre orizzonti lungo i quali mobilitare coscienze e intelligenze. Se non fosse la politica a esercitare questi ruoli, saremmo in presenza o di logiche darwinistiche e del prevalere lobbistico di pochi, o di sempre più crescenti esclusioni, a tutto vantaggio di una insostenibile atomizzazione della società.
Il fatto é, purtroppo, che in società complesse, quali sono le nostre, in cui il sistema complessivo sembra contraddistinguersi per una incapacità evidente del farsi carico della soluzione dei problemi, si assiste a una duplicità di fenomeni. Per un verso rincorrere schemi del passato che non appaiono più idonei ai temi, ai ritmi, alle esigenze dei giorni nostri. Per altro, un’idolatria acritica del “modernismo”, pesantemente intrisa della cancellazione della storia, della censura di identità, della mistica del mercato e del privato, del misurarsi nella competizione a scapito di diritti (e doveri), della abrogazione di valori ritenuti imprescindibili quali la solidarietà, la cultura, i saperi, l’approfondimento e così via, dell’imperativo categorico del profitto, del benessere materiale, dell’affermazione individuale. Mentre, per contro, sempre più impellenti e ineludibili si fanno le domande di specialismi, di approfondimenti, di discussioni, e soluzioni, nel merito delle cose.
Una politica, quindi, che deve rinnovarsi e riqualificarsi, riappropriandosi dei suoi spazi, che non devono essere invasivi né residuali, e che per farlo necessita anche, in misura non banale e prima di tutto, di conoscere il mondo in cui opera, di individuare priorità, di mettere in campo risorse – materiali e immateriali –, di attrezzare strumentazioni efficienti. Compito questo delle classi dirigenti in senso lato, senza confusione di ruoli, senza velleità di surroghe, ma con il preciso obiettivo di fare sistema, di integrare, cioè, all’interno di una tela comune, capacità e prerogative di vario tipo. Di mettere insieme, insomma, la società dei saperi e la galassia della politica.
E’ necessario comporre, in particolare, i molti pezzi della classe dirigente meridionale, con il compito di fornire contributi di metodo e di merito, alla soluzione dei troppi ritardi, delle tante inadeguatezze, delle ingiustizie per molti e dei privilegi per pochi, delle occasioni mancate, delle risorse male utilizzate, delle intelligenze sprecate, delle coscienze assopite. In uno, vorrei che il fatalismo, l’attendismo, l’eterodirezione, l’assistenzialismo, l’inadeguatezza progettuale e gestionale, che taluni hanno eretto di fatto a paradigmi “antropologici” di un Sud quasi derubricato, venissero ribaltati lungo un percorso graduale e condiviso di protagonismo responsabile. Viviamo tempi in cui il confronto e la tensione rivolti al Mezzogiorno e a un nuovo meridionalismo appaiono del tutto assenti; l’individualismo, l’opportunismo, un plebeismo che s’intreccia con il glamour, e l’effervescenza di facciata, l’afasia, contraddistinguono il disimpegno e la mancanza di riferimenti per intellettuali, studiosi, pensatori, cittadini comunque disorientati, che pure potrebbero fornire aggiornamenti e contributi di rilievo.
Il punto di avvio, di verifica, di questo processo, di questa proposta, può essere individuato nell’Università. Le politiche europee da anni ormai privilegiano atti, misure e risorse nel campo del capitale umano, della formazione, dell’innovazione dei processi, della ricerca e dei saperi, indirizzati verso uno sviluppo in cui il PIL vada avanti, sì, speditamente, ma dentro il quale la distribuzione e la qualità della ricchezza assumano dimensioni e tenori diversi. In cui consapevolezza e padronanza diffuse siano i termini prevalenti e privilegiati.
Sono ancora presenti, nelle università italiane, evidenti tratti propri delle universitas medievali, associazioni di studenti e docenti, miranti a ottenere la massima autonomia di fronte sia all’autorità temporale che a quella ecclesiastica, e a investire nella conoscenza, così da formare un vero e proprio potere fra poteri. Più volte messo in discussione, questo impianto ha nel tempo subìto se non stravolgimenti, di certo sostanziali aggiustamenti, in specie in corrispondenza della nascita degli stati nazionali. Oggi, si può dire, il modello vigente da noi si basa su quello francese e su quello tedesco, accompagnando i processi di industrializzazione e di formazione dei quadri tecnici e amministrativi pubblici e privati. L’università disegnata da Humboldt é il luogo della formazione delle élite, nazionalizza l’istruzione superiore e la rende funzionale all’ottenimento di finalità pragmatiche e funzionali, oltre che alla riproduzione ideologica.
Più di recente - e non solo in Italia, non solo in Europa - il sistema universitario é riuscito a conservare un suo equilibrio, a volte un interscambio, fra due distinte impostazioni, comunque entrambe presenti al suo interno: da una parte ricerca e insegnamento, formazione scientifica e culturale; dall’altra formazione tecnica, esecutiva e professionale. Per essere più espliciti: di qua il luogo di formazione culturale, civile e della ricerca libera, con il compito, anche, di conservare e aggiornare lungo le generazioni l’assetto e il complesso dei saperi, di formare coscienze e cittadini consapevoli e liberi; di contro università come scuola superiore, per funzionari, manager, imprenditori, professionisti, finalizzati e rigidamente funzionali alle dinamiche di mercato. L’equilibrio è messo fortemente in discussione dalla massiccia domanda d’istruzione degli ultimi quarant’anni che ha prodotto la proliferazione indiscriminata di nuove università, spesso in aree sprovviste di un adeguato retroterra infrastrutturale e culturale, oltre che politico, rischiando di perseguire, nei fatti, solo una formazione puramente professionale o comunque culturale di profilo modesto. E, paradossalmente, questo rischio è maggiormente presente in quelle parti del Paese e del Mezzogiorno dove più che in altre è necessario accorciare la distanza fra cittadini e Stato, fra amministratori e amministrati, dove accanto alla formazione di classi dirigenti professionali è necessario, prioritario anzi, formare persone consapevoli di diritti e doveri, in grado di interagire con protagonismo e consapevolezza con il sistema dei poteri, quali che siano.
L’equilibrio, che appare e si denota, salvo necessari adeguamenti, fruttuoso e virtuoso ancora oggi, ha bisogno – come dice con acutezza Remo Ceserani – di massicci investimenti non finalizzati a risultati e profitti immediati, di sostegno e coordinamento delle istituzioni statali, di una rete organica e coordinata di centri di ricerca, di meccanismi di selezione corretti e trasparenti sia di docenti che di ricercatori e professori.
Qual é il grado di ricaduta dei risultati della ricerca scientifica, in Italia, nella produzione e nei processi industriali? Molto basso, purtroppo, se la quotazione italiana in termini di innovazione ci vede relegati al fondo. Così come, con 0,16 laureati ogni mille abitanti, contro una media europea di 0,56 e il top della Svezia con 1,24, siamo sconsolatamente in coda anche alla Grecia e al Portogallo. Per la ricerca in Italia si spende l’1,04 del PIL contro una media UE dell’1,94; i ricercatori sono 28 ogni 1000 abitanti (131 in Finlandia), le esportazioni in alta tecnologia calano con ritmi del 6 per cento annuo. E se vi sono nazioni - tranne l’Austria, la Grecia, il Portogallo - in cui gli investimenti dell’industria privata risultano massicci e concorrono con quelli statali, compensandoli in alcuni casi, in Italia non c’è traccia di una presenza in tal senso da parte del mondo imprenditoriale, che mostra così tutti i suoi limiti di gracilità e di scarsa strategia innovativa.
Risulta del tutto evidente come ci sia la necessità di interventi correttivi, quindi, nel nostro sistema tanto formativo che scientifico, sia per formare cittadini-professionisti, sia per concorrere nella sfida dell’innovazione. In che direzione vanno gli atti governativi? Nelle Linee Guida per la Politica Scientifica e Tecnologica del Governo é richiamato con grande evidenza l’obiettivo proposto dal Consiglio d’Europa di Lisbona: “intensificare gli sforzi e gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, nell’innovazione e nella formazione”. E ancora: “accelerare produzione, diffusione e utilizzazione di conoscenze”. Il Sesto Programma Quadro Ricerca e Sviluppo della UE ha come obiettivi generali il rafforzamento delle basi scientifiche della Comunità; favorire lo sviluppo della sua competitività; promuovere le azioni di ricerca. Prevede risorse per 17,5 miliardi di euro su sette aree tematiche, e strumenti quali le reti di centri d’eccellenza, i progetti integrati, programmi specifici. Il Quadro Comunitario di Sostegno 2000-2006 per le regioni dell’Obiettivo 1 promuove interventi finalizzati al miglioramento permanente del contesto economico, sociale e ambientale del Mezzogiorno, con risorse significative devolute alla ricerca e all’alta formazione. Più in generale, sono almeno otto, le azioni disponibili, nel contesto europeo, cui fare riferimento: PRIN (d’interesse nazionale), FIRB (ricerca di base), FAR (agevolazione della ricerca), FISR (fondo integrativo), FIT (innovazione tecnologica), FOE (enti pubblici di ricerca), PON (operativo nazionale), RSF (ricerca sanitaria finalizzata).
Se questo è lo sfondo, in altre sedi il Governo Nazionale sta portando avanti, fra smentite e conferme, due progetti che riguardano, uno il Consiglio Nazionale delle Ricerche e i grandi centri di ricerca, l’altro l’intervento privato nelle Università mediante lo strumento delle Fondazioni. Lo smembramento del CNR in più megaistituti, la presenza prevalente nei board di gestione e di indirizzo di soggetti privati e di diretta emanazione politica (anche qui siamo in presenza di fondazioni di diritto privato), la soppressione di prestigiosi centri, la riforma dell’ENEA, dell’ASI, degli Istituti di Sperimentazione Agraria, eccetera, sono in una fase che va aldilà della mera enunciazione. E i pronunciamenti, le prese di posizioni, il “movimento” che è nato nella comunità scientifica nazionale deve trovare, io ritengo, una sua eco pù vibrante anche nel Sud. Non perché non si debba innovare, ma perchè sarebbe buona norma attivare un confronto fra decisori e destinatari delle decisioni, e anche perchè la portata delle riforme rischia di sortire risultati di vero e proprio arretramento.
Una Commissione della Conferenza dei Rettori delle Università italiane sta elaborando per il Ministro Moratti un documento e un testo articolato di riforma del sistema universitario in cui, oltre al già citato intervento privatistico, sono messi in discussione acquisizioni e capisaldi di civiltà a mio parere intangibili, e la Legge Finanziaria smentisce l’assunto e le indicazioni del documento ministeriale, oltre che delle politiche comunitarie, non solo non incrementando, ma addirittura tagliando pesantemente i fondi per le università e per la ricerca.
Ma c’é, nella politica del Governo, qualcosa di meno tangibile e non per questo meno pericoloso: c’é l’obiettivo di dequalificare le università pubbliche a vantaggio di centri privati d’eccellenza; c’é lo scopo di subordinare ogni forma di produzione culturale e scientifica a logiche di contabilità aziendale; c’é l’obiettivo di marginalizzare e sterilizzare i saperi critici. Non s’avverte grande attenzione e sufficiente tensione, nel nostro mondo, rispetto a tutto questo, a questa voglia matta di trasformare il sapere in un supermarket. C’é un assopimento delle coscienze e una oggettiva omologazione al trend prevalente, anche, e purtroppo, da parte di chi, per vocazione e mestiere, deve esercitare strumenti di indagine e di capacità critica.
L’ultimo documento governativo di riordino dello stato giuridico del personale docente, e non solo, in verità ha innescato una miccia che sta ardendo in tutti o quasi gli atenei: il trattamento Co.Co.Co. assegnato alle future leve del personale docente e di ricerca è quanto di più umiliante e autolesionista si possa pensare. Riuscirà il movimento creatosi e sviluppatosi ad arrestare la deriva inaccettabile cui il Governo vorrebbe marginalizzare l’istruzione pubblica?
Le politiche regionali, quelle calabresi in particolare, per finire.
Non c’é spazio, nè forse è questa la sede, per tentare una sommaria ricostruzione di come nacque l’Università della Calabria, di come si passò alle Università di Reggio Calabria e di Catanzaro, di com’è nato il Sistema Universitario Calabrese. Delle attese, delle realizzazioni, delle trasformazioni radicali che le università hanno prodotto nella mentalità, nei costumi, nella vita e nell’economia delle nostre genti, delle resistenze che hanno incontrato e incontrano. E’ il caso, qui, di soffermarsi sul gap di integrazione che c’é fra università e territorio, e sul ruolo, quindi, che l’università é oggettivamente chiamata a svolgere, oggi e domani.
Io sono certo, da tempo, che il primo passo fra politica e intellettualità deve compierlo la politica, che, per definizione, ha il compito di portare a sintesi, per gli interessi generali, le attività e i settori della vita civile: senza invasività, ma con sobrie e decise doti e dosi di direzione. Nè un certo modo di intendere e praticare la politica può, di fatto, assumere il luogo dei saperi e dell’emancipazione come un ricettacolo intellettualoide da strumentalizzare quando serve, da ghettizzare quasi sempre, perché potenzialmente sede della messa in discussione di rapporti di sudditanza, di plebeismo e notabilato, di rottura del patto perverso che lega i “signori” della politica ai cittadini succubi.
Telcal, Crai, Cud, Calpark, Crati valley, Intersiel, Carisiel, sigle e progetti degli ultimi dieci anni, che sembravano strumenti forti, nel terziario avanzato, dell’informatica e della telematica, quale confronto, quali tranche de vie comuni hanno visto fra politica e saperi? Al 31 dicembre 2002, quando il progetto Telematica Calabria, con oltre 400 miliardi di lire d’investimenti cash, ha ultimato il suo compito, cosa è restato in Calabria, e cosa è stato delle decine di figure professionali formatesi con alto grado di know how? Calpark, negli ultimi tempi presente nell’agroalimentare, è diventato un oggetto misterioso; il CUD, Consorzio per l’Università a Distanza, non c’è più, forse anche perché troppo baricentrato su commesse pubbliche; il CRAI, Consorzio per la Ricerca Applicata in Informatica, ora TESI, versa in condizioni preagoniche, probabilmente per le stesse ragioni; in CARISIEL, azienda informatica per i servizi bancari, si respira area di smobilitazione. E le numerose aziende e i consorzi sorti nel campo della telematica e dell’informatica su tutto il territorio regionale, seppure espressione di dinamismo, pagano lo scotto dell’assenza d’intervento e di strategie regionali e nazionali. Telecom, come la grande parte dell’industria nazionale, sceglie la via dell’intermediazione finanziaria, marginalizzando o dismettendo investimenti e gestione nel settore; le risorse economiche, pur potenzialmente disponibili a valle di progetti, non si vedono.
Intanto, chiudono anche quelle aziende manufatturiere, poche in verità, possibili tasselli di quella filiera del legno che passa dalla chimica al bosco alle aree interne, all’agricoltura, ai parchi naturali, attraverso lo sviluppo sostenibile e la nuova politica agricola comunitaria, con diretti ed evidenti nessi con i profili identitari di intere comunità, in balìa di una distorta e perversa applicazione supìna dei meccanismi di globalizzazione.
E, dulcis in fundo, il Distretto Scientifico e Tecnologico. Risorse economiche ingentissime, capacità professionali e manageriali esistenti, progettualità da mettere sul terreno, disponibilità da parte di imprese attratte e interessate, pure. La lotta fra i campanili, gli appetiti di qualche uomo di governo nel privilegiare il proprio bacino elettorale, altri interessi volti a valorizzare preesistenze dismesse e rendite fondiarie, liti all’interno dei decisori: e così pare tutto sia rinviato ad altra data, in attesa di altri tempi e di altri attori, e anche di perderli, questi fondi, come pure, purtroppo, c’è il rischio che accada per l’ammontare dei fondi europei nel complesso, il cui tasso d’utilizzazione è al minimo assoluto. La Basilicata fra breve uscirà dalle aree dell’obiettivo 1: in Calabria si ha più che la sensazione che si faccia, oggettivamente, di tutto per restarci e perseverare nella politica delle mance, dell’assistenza, della subalternità e del bisogno, che una certa politica è maestra nell’interpretare, dato che solo questa conosce, mentre il Governo Nazionale di fatto cancella il Mezzogiorno (vedi le ultime e l’ultima in particolare legge finanziaria).
Ma cosa facciamo dell’università, del sistema universitario regionale? Vinta abbondantemente, e da tempo, la scommessa di portare all’istruzione universitaria tanti giovani che altrimenti sarebbero stati esclusi, proseguendo nel compito di amalgamare provenienze geografiche e sociali diverse, così da costruire coscienze e profili professionali non solo locali, è maturo il tempo di mettere le università nel fuoco del dibattito riguardante la progettualità politica, il futuro della nostra terra.
Con quale frequenza e intensità ci si è relazionati con le università, viste quasi sempre come oggetti un po’ misteriosi? La programmazione dal basso, l’asse Por, i Pit, a prescindere anche qui da qualche meritoria per quanto parziale sinergia, come si stanno gestendo? Sono evidenti le azioni che l’Università della Calabria ha intrapreso sia sul versante dell’ internazionalizzazione che su quello dei rapporti con l’ imprenditoria, ma lo sforzo da compiere è quello di ricondurre tutto all’interno di una logica di sistema, correggendo anche, in sede di autocritica, talune timidezze, certi impacci, forse anche un deficit di piglio positivo e propositivo da parte delle università calabresi.
Al ceto politico, tutto, alle istituzioni locali e regionali, ai tanti cittadini in deficit di riferimento in una società sempre più caratterizzata da un tasso crescente di entropia è rivolto questo argomentare e la disponibilità della comunità scientifica e universitaria. In Campania una commissione di “saggi”, fra cui trenta docenti delle università di Napoli e di Salerno, da qualche mese sta elaborando, su incarico della Giunta Regionale, un rapporto sulle politiche di sviluppo; in Basilicata il destino dell’università è legato al consolidamento e al rafforzamento del rapporto delle istituzioni universitarie e dei centri di ricerca con le amministrazioni locali: vogliamo estendere e generalizzare questo modello?

gennaio - aprile 2005