Il "Centro
Fatima Zoocriadero", una manciata di ettari di Amazzonia. Non nelle
profondità della foresta, ma là dove in corrispondenza
delle prime propaggini delle Ande la selva lascia lentamente il posto
al bosco umido di montagna. è una piccola riserva privata, a
conduzione familiare.
I visitatori, sia ecuadoriani che stranieri, sono numerosi. Vengono
a vedere gli animali che vi sono ospitati. Si possono vedere molte delle
specie più famose della foresta amazzonica. caimani, serpenti
boa, tapiri, capibara e alcune specie di scimmie sono tra le principali
attrazioni. Niente giaguari, o altri grossi "gatti", troppo
pericolosi e difficili da gestire.
Ma questo non è uno zoo. Gli animali sono per lo più liberi,
o in recinzioni nelle quali i visitatori possono entrare. Certo non
è la stessa cosa che vedere un animale libero nella foresta,
ma le probabilità che questo accada sono piuttosto limitate.
In un giro standard nella giungla, uno di quelli che le agenzie di viaggi
di tutto l'Ecuador propongono ai turisti in cerca di avventura, gli
unici animali feroci che vengono avvistati in abbondanza sono le zanzare.
Un po' deludente. Non di rado allora sulla via del ritorno vengono a
visitare il Centro Fatima.
Per gli Ecuadoriani, che invece in generale non hanno la benché
minima intenzione di andarsene nella selva, questo é il tour
più scomodo che sono disposti ad affrontare per vedere tutti
quegli animali di cui hanno sentito parlare, ma che solitamente non
hanno mai visto e che spesso non sono neanche in grado di riconoscere.
In comune con uno zoo c'è il fatto che gli animali ci sono stati
portati. Nessuno è mai venuto in questo posto dicendo "Qui
c'è una bella foresta con tanti animali, sarebbe bello proteggerli".
Nel 1987, quando il Centro vide la luce, da proteggere c´era ormai
ben poco. Già da alcuni anni era cominciata quella grande, fallimentare
avventura che prima o poi tutti i governi del bacino amazzonico hanno
intrapreso. Colonizzare l'Amazzonia. La "Rivoluzione verde",
così fu chiamata in Ecuador. Si aprirono strade, si costruirono
nuovi villaggi, arrivò gente dalla costa e dagli altipiani. Gente
povera e ignorante, gente in cerca di miglior fortuna in quello che
era presentato come un futuro Eldorado. Bastava rimboccarsi le maniche
e lavorare duro, e presto i risultati sarebbero arrivati. La foresta
veniva distrutta in nome della civiltà. Sfruttamento del patrimonio
boschivo prima, coltivazioni ed allevamenti estensivi poi, questa era
la ricetta. Dimentichiamo per il momento il petrolio, quello è
un problema a parte. La gente venne e lavorò duro, ma i risultati
positivi non arrivarono, o furono molto fugaci. Il suolo dell'Amazzonia
é insospettabilmente ed irrimediabilmente povero, completamente
inadatto all´agricoltura. L'allevamento bovino poi risultò
particolarmente distruttivo. Rendimenti bassissimi, pascoli enormi per
poche vacche, la terra che rapidamente si esaurisce e spinge a cercare
sempre nuovi terreni, il taglio della foresta che si allarga sempre
piú, lasciando dietro di se spazi vuoti che ormai non servono
più a nessuno. Questo era lo scenario quando tutto cominciò.
Medardo Tapia era un giovane agronomo da poco laureato, originario dell'altopiano
ma affascinato dall'Amazzonia e dalla cultura degli indios che la abitavano.
Ebbe un'idea che nella sua apparente banalità è quasi
geniale: allevare gli animali della selva. Gli indios non lo hanno mai
fatto. Non ne hanno mai avuto bisogno. Erano pochi, e seminomadi. Si
stabilivano in un posto, ci restavano per anni cacciando secondo i loro
bisogni, finché si rendevano conto che la selvaggina stava diminuendo.
A quel punto si muovevano per stabilire un nuovo insediamento, quello
vecchio intanto si sarebbe rigenerato, e così per millenni la
foresta è rimasta intatta.Negli anni ottanta però la situazione
era già ben diversa. Gli indigeni che continuavano a vivere in
questo modo erano già relegati negli angoli più remoti
della foresta, altri vivevano ormai su terre di confine, altri erano
già assimilati al resto della popolazione, grazie anche all'opera
di evangelizzazione dei missionari. Continuavano a cacciare ma con un
fucile automatico al posto di una lancia. E con un'idea nuova e distruttiva
in testa: non più per la sopravvivenza ma per il denaro.
Allevare gli animali selvaggi anziché cacciarli potrebbe risolvere
molti problemi. Per allevarli non c'è bisogno di distruggere
la foresta, perché quello è il loro habitat. Il rendimento,
per esempio, di un allevamento di capibara è enormemente maggiore
di quello di un allevamento bovino. Là dove adesso è rimasta
terra morta si potrebbe piano piano ricostituire la foresta. Mancherebbe
l'interesse per distruggerne di nuova, e ce ne sarebbe anzi per riparare
quanto giá devastato. Le parti di selva ancora intatte quindi
potrebbero rimanere tali, e gli animali che le popolano avere, nel peggiore
dei casi, solo gli obiettivi dei turisti puntati contro.
Questa è l'idea, e questo è il bel mondo, purtroppo immaginario,
che a Fatima viene dipinto ai turisti alla fine del loro giro per il
parco.
Ma che possibilità ci sono che questo mondo si realizzi? Cosa
sta succedendo adesso all'Amazzonia, o almeno alla sua porzione ecuadoriana?
Le prospettive di sviluppo non sembrano molte. Il turismo, certo, ha
ancora grandi potenzialità inespresse. Ma perché si realizzino
sono sicuramente necessarie infrastrutture migliori e, parallelamente,
anche una seria politica di conservazione. Senza questa, una nuova strada
porta più velocemente le compagnie petrolifere che i turisti.
E se poi anche il petrolio non c'è, arrivano velocemente tutti
i mali delle grandi città, trasformando questo lontano mondo
al di là delle montagne in una periferia del loro degrado.
Non ci si può neanche aspettare che il turismo sia la panacea
che risolve tutti i mali ed i problemi, né che l'Amazzonia diventi
un unico grande parco naturale.
Il turismo dà una spinta positiva verso la protezione dell'ambiente,
ma è spesso veicolo di costumi e stili di vita che azzerano immediatamente
i vantaggi portati.
Lo stato non sembra riuscire a trovare nessuna nuova ricetta che migliori
le condizioni di vita di questa gente. Se l'idea della colonizzazione
è ormai giocoforza archiviata, almeno nei termini precedentemente
immaginati, lo stato investe in progetti a volte anche imponenti, ma
che raramente hanno ricadute benefiche sulla popolazione.
La politica di conservazione è spesso applicata in modo controverso.
La popolazione, da parte sua, si limita ad uno sfruttamento disordinato,
spesso ai margini della legge, delle risorse che la foresta ancora offre.
In questo quadro, un'idea come quella del centro Fatima dovrebbe far
breccia, sia tra le istituzioni che tra la gente. Ma questo non succede.
La Provincia di Pastaza, nella quale il centro risiede, ben conosce
il progetto del Sig. Tapia e potrebbe facilmente proporre un programma
per incentivare l'allevamento di animali della selva. Ma la collaborazione
è molto limitata. L'unico contatto continuativo è quello
dovuto al recupero degli animali da parte delle forze dell'ordine. Esiste
naturalmente un fiorente traffico di animali della selva, alimentato
da noi occidentali, e dal nostro "amore" per gli animali esotici.
Nella zona, se un animale viene recuperato dalla polizia, finisce sicuramente
al centro Fatima. Il Centro si assume, di fronte allo stato, degli obblighi
verso l'animale. Essi vengono meno solo con la sua liberazione o con
la sua morte. Lo scopo ovviamente sarebbe la loro "rieducazione"
e la loro conseguente reintroduzione in natura. Ma ogni animale in più
è anche un'attrazione in più, per la quale i visitatori
pagheranno un biglietto. Se un animale sarà costretto a rimanere
per il resto dei suoi giorni qui nessuno se ne dispera. Il gioco vale
quindi ampiamente la candela.
E qui si vede chiaramente quella che è la principale contraddizione
del Centro. è un ente privato, e fa giustamente il suo interesse.
Allo stesso tempo, si pone come promotore di un'iniziativa di interesse
pubblico, e proprio per questo riesce spesso a commuovere qualche turista
straniero, che finisce per lasciare molto più del prezzo del
biglietto. Il sospetto che si sfrutti la buona idea per far soldi, sbandierando
ideali che fanno presa sulla gente, è legittimo. Soprattutto
vedendo tutto questo dall'interno. Si capisce velocemente che gli animali
sono nutriti il minimo indispensabile, e senza preoccuparsi troppo della
dieta che dovrebbero seguire. Un animale si libera se, e solo se, è
assolutamente evidente per chiunque che potrebbe tornare alla vita silvestre.
Gli studi che dovrebbero essere parte integrante, se non preminente,
del lavoro svolto, sono ormai solo un ricordo. All'inizio sì
che si faceva veramente. Adesso si fanno vedere i libricini che ne sono
stati ricavati, con il doppio intento di testimoniare l'impegno scientifico
(che non c'è più) e di pubblicizzarli nella speranza di
venderli. Ma per la ricerca non c'è più tempo, bisogna
stare dietro ai turisti, sono loro che portano il denaro.
Il Sig. Tapia dice che non dipende da un impegno insufficiente da parte
sua se l'idea non prende campo, ma principalmente da due altri fattori.
Il primo sarebbero gli allevatori del Pastaza, che costituirebbero un
fattore di pressione troppo potente perché alla provincia abbraccino
apertamente la sua idea. Il secondo sarebbero semplicemente i soldi,
a sentir lui appena sufficienti per mandare avanti la baracca. Avendo
passato alcuni mesi sul posto, penso che il primo argomento sia credibile,
ma faccio fatica a non dubitare del secondo. Nonostante questo, volendo
giudicare la situazione, non mi sento di poter dare al sig. Tapia né
un'assoluzione piena, né una condanna definitiva.
Mi sembra che sia soprattutto vittima della sua idea; troppo grande,
e potenzialmente rivoluzionaria, per passare inosservata. Non abbastanza
forte, da sola, per farsi strada a dispetto degli interessi in gioco.
E allora, addio al sogno di cambiare il mondo, che forse era anche sincero,
e si vive meglio che si può, facendo attenzione a non pestare
troppi piedi.
Trovo che questa piccola storia sia abbastanza emblematica per la situazione
della foresta amazzonica, e per vari aspetti dell'America latina in
generale.
*
* *
In Ecuador,
il presidente Gutierrez è riuscito a farsi eleggere facendosi
difensore dei diritti dei popoli indigeni, salvo poi dimenticare tutto
una volta eletto, a tal punto da far reprimere duramente le nuove proteste
degli indigeni, scatenate dalla sua stessa politica. La politica di
conservazione del governo alterna nuove "inclusioni" a nuove
"esclusioni".
L'opinione pubblica europea, molto sensibile al problema dell'ambiente,
si può rallegrare del grande numero di parchi nazionale in Ecuador
e del numero crescente di aree protette in genere.
Però come un'area protetta viene gestita dipende dalle scelte
politiche. Se è un'attrazione turistica sufficientemente importante
viene effettivamente ed efficacemente protetta. Se è "solo"
un'area di conservazione, ma di difficile accesso per il turismo amaro
destino delle grandi riserve amazzoniche, lo stato è subito pronto
ad aprire la porta alla prima compagnia petrolifera, che, spinta dalla
nostra infinita sete di petrolio, voglia, "nel rispetto della natura",
eseguire nuove prospezioni.
Con atteggiamento simile, nascondendo dietro l'impegno per l'ambiente
ben altre intenzioni, vengono stanziati milioni e milioni di dollari
per "securizzare" le aree protette vicine alla Colombia. Difficile
non vedervi un qualche rapporto con il famigerato "Plan Colombia",
più che una vera preoccupazione di difendere la natura.
Per fortuna in molti luoghi del Sudamerica la gente che si rende conto
dell'inghippo è sempre più numerosa. Soprattutto tra le
popolazioni indigene, sta pian piano riaffiorando una coscienza, che
purtroppo per alcune generazioni era scomparsa. Ma la piena coscienza
del problema è ancora molto marginale. Finché saranno
solamente i dirigenti a canalizzare lo scontento popolare verso certe
istanze, difficilmente cambierà qualcosa.
La salvezza dell'Amazzonia passa per una nuova sensibilità, diffusa,
popolare, generale ma non generica, informata e consapevole dei reali
bisogni dell'ambiente; una nuova sensibilità che riscopra anche
quell'antica saggezza che ha guidato per secoli i popoli di questi luoghi,
e sappia rinnovarla e riproiettarla in un modo ormai irrimediabilmente
cambiato, non solo combattendone i nuovi demoni, ma anche sfruttandone
al meglio le nuove possibilità.
La salvezza dell'Amazzonia passa per questo cammino di conoscenza, oppure
non sarà.
Senza questo humus in cui crescere, anche buone idee come quelle del
centro Fatima, sono destinate a rimanere lettera morta. Senza questo
percorso, rimarrà facile per i ricchi ed i potenti abusare delle
popolazioni, pretendendo di fare qualcosa, ma facendo in realtà
l'opposto. E diventa più difficile biasimare chi dimentica i
buoni propositi e si adegua all'andazzo generale, ritrovandosi a fare
quello che un intero continente è già impegnato a fare:
sopravvivere.