Una piccola storia dall'amazzonia
di Francesco Ciari

Il "Centro Fatima Zoocriadero", una manciata di ettari di Amazzonia. Non nelle profondità della foresta, ma là dove in corrispondenza delle prime propaggini delle Ande la selva lascia lentamente il posto al bosco umido di montagna. è una piccola riserva privata, a conduzione familiare.
I visitatori, sia ecuadoriani che stranieri, sono numerosi. Vengono a vedere gli animali che vi sono ospitati. Si possono vedere molte delle specie più famose della foresta amazzonica. caimani, serpenti boa, tapiri, capibara e alcune specie di scimmie sono tra le principali attrazioni. Niente giaguari, o altri grossi "gatti", troppo pericolosi e difficili da gestire.
Ma questo non è uno zoo. Gli animali sono per lo più liberi, o in recinzioni nelle quali i visitatori possono entrare. Certo non è la stessa cosa che vedere un animale libero nella foresta, ma le probabilità che questo accada sono piuttosto limitate. In un giro standard nella giungla, uno di quelli che le agenzie di viaggi di tutto l'Ecuador propongono ai turisti in cerca di avventura, gli unici animali feroci che vengono avvistati in abbondanza sono le zanzare. Un po' deludente. Non di rado allora sulla via del ritorno vengono a visitare il Centro Fatima.
Per gli Ecuadoriani, che invece in generale non hanno la benché minima intenzione di andarsene nella selva, questo é il tour più scomodo che sono disposti ad affrontare per vedere tutti quegli animali di cui hanno sentito parlare, ma che solitamente non hanno mai visto e che spesso non sono neanche in grado di riconoscere.
In comune con uno zoo c'è il fatto che gli animali ci sono stati portati. Nessuno è mai venuto in questo posto dicendo "Qui c'è una bella foresta con tanti animali, sarebbe bello proteggerli".
Nel 1987, quando il Centro vide la luce, da proteggere c´era ormai ben poco. Già da alcuni anni era cominciata quella grande, fallimentare avventura che prima o poi tutti i governi del bacino amazzonico hanno intrapreso. Colonizzare l'Amazzonia. La "Rivoluzione verde", così fu chiamata in Ecuador. Si aprirono strade, si costruirono nuovi villaggi, arrivò gente dalla costa e dagli altipiani. Gente povera e ignorante, gente in cerca di miglior fortuna in quello che era presentato come un futuro Eldorado. Bastava rimboccarsi le maniche e lavorare duro, e presto i risultati sarebbero arrivati. La foresta veniva distrutta in nome della civiltà. Sfruttamento del patrimonio boschivo prima, coltivazioni ed allevamenti estensivi poi, questa era la ricetta. Dimentichiamo per il momento il petrolio, quello è un problema a parte. La gente venne e lavorò duro, ma i risultati positivi non arrivarono, o furono molto fugaci. Il suolo dell'Amazzonia é insospettabilmente ed irrimediabilmente povero, completamente inadatto all´agricoltura. L'allevamento bovino poi risultò particolarmente distruttivo. Rendimenti bassissimi, pascoli enormi per poche vacche, la terra che rapidamente si esaurisce e spinge a cercare sempre nuovi terreni, il taglio della foresta che si allarga sempre piú, lasciando dietro di se spazi vuoti che ormai non servono più a nessuno. Questo era lo scenario quando tutto cominciò.
Medardo Tapia era un giovane agronomo da poco laureato, originario dell'altopiano ma affascinato dall'Amazzonia e dalla cultura degli indios che la abitavano. Ebbe un'idea che nella sua apparente banalità è quasi geniale: allevare gli animali della selva. Gli indios non lo hanno mai fatto. Non ne hanno mai avuto bisogno. Erano pochi, e seminomadi. Si stabilivano in un posto, ci restavano per anni cacciando secondo i loro bisogni, finché si rendevano conto che la selvaggina stava diminuendo. A quel punto si muovevano per stabilire un nuovo insediamento, quello vecchio intanto si sarebbe rigenerato, e così per millenni la foresta è rimasta intatta.Negli anni ottanta però la situazione era già ben diversa. Gli indigeni che continuavano a vivere in questo modo erano già relegati negli angoli più remoti della foresta, altri vivevano ormai su terre di confine, altri erano già assimilati al resto della popolazione, grazie anche all'opera di evangelizzazione dei missionari. Continuavano a cacciare ma con un fucile automatico al posto di una lancia. E con un'idea nuova e distruttiva in testa: non più per la sopravvivenza ma per il denaro.
Allevare gli animali selvaggi anziché cacciarli potrebbe risolvere molti problemi. Per allevarli non c'è bisogno di distruggere la foresta, perché quello è il loro habitat. Il rendimento, per esempio, di un allevamento di capibara è enormemente maggiore di quello di un allevamento bovino. Là dove adesso è rimasta terra morta si potrebbe piano piano ricostituire la foresta. Mancherebbe l'interesse per distruggerne di nuova, e ce ne sarebbe anzi per riparare quanto giá devastato. Le parti di selva ancora intatte quindi potrebbero rimanere tali, e gli animali che le popolano avere, nel peggiore dei casi, solo gli obiettivi dei turisti puntati contro.
Questa è l'idea, e questo è il bel mondo, purtroppo immaginario, che a Fatima viene dipinto ai turisti alla fine del loro giro per il parco.
Ma che possibilità ci sono che questo mondo si realizzi? Cosa sta succedendo adesso all'Amazzonia, o almeno alla sua porzione ecuadoriana? Le prospettive di sviluppo non sembrano molte. Il turismo, certo, ha ancora grandi potenzialità inespresse. Ma perché si realizzino sono sicuramente necessarie infrastrutture migliori e, parallelamente, anche una seria politica di conservazione. Senza questa, una nuova strada porta più velocemente le compagnie petrolifere che i turisti.
E se poi anche il petrolio non c'è, arrivano velocemente tutti i mali delle grandi città, trasformando questo lontano mondo al di là delle montagne in una periferia del loro degrado.
Non ci si può neanche aspettare che il turismo sia la panacea che risolve tutti i mali ed i problemi, né che l'Amazzonia diventi un unico grande parco naturale.
Il turismo dà una spinta positiva verso la protezione dell'ambiente, ma è spesso veicolo di costumi e stili di vita che azzerano immediatamente i vantaggi portati.
Lo stato non sembra riuscire a trovare nessuna nuova ricetta che migliori le condizioni di vita di questa gente. Se l'idea della colonizzazione è ormai giocoforza archiviata, almeno nei termini precedentemente immaginati, lo stato investe in progetti a volte anche imponenti, ma che raramente hanno ricadute benefiche sulla popolazione.
La politica di conservazione è spesso applicata in modo controverso. La popolazione, da parte sua, si limita ad uno sfruttamento disordinato, spesso ai margini della legge, delle risorse che la foresta ancora offre.
In questo quadro, un'idea come quella del centro Fatima dovrebbe far breccia, sia tra le istituzioni che tra la gente. Ma questo non succede. La Provincia di Pastaza, nella quale il centro risiede, ben conosce il progetto del Sig. Tapia e potrebbe facilmente proporre un programma per incentivare l'allevamento di animali della selva. Ma la collaborazione è molto limitata. L'unico contatto continuativo è quello dovuto al recupero degli animali da parte delle forze dell'ordine. Esiste naturalmente un fiorente traffico di animali della selva, alimentato da noi occidentali, e dal nostro "amore" per gli animali esotici.
Nella zona, se un animale viene recuperato dalla polizia, finisce sicuramente al centro Fatima. Il Centro si assume, di fronte allo stato, degli obblighi verso l'animale. Essi vengono meno solo con la sua liberazione o con la sua morte. Lo scopo ovviamente sarebbe la loro "rieducazione" e la loro conseguente reintroduzione in natura. Ma ogni animale in più è anche un'attrazione in più, per la quale i visitatori pagheranno un biglietto. Se un animale sarà costretto a rimanere per il resto dei suoi giorni qui nessuno se ne dispera. Il gioco vale quindi ampiamente la candela.
E qui si vede chiaramente quella che è la principale contraddizione del Centro. è un ente privato, e fa giustamente il suo interesse. Allo stesso tempo, si pone come promotore di un'iniziativa di interesse pubblico, e proprio per questo riesce spesso a commuovere qualche turista straniero, che finisce per lasciare molto più del prezzo del biglietto. Il sospetto che si sfrutti la buona idea per far soldi, sbandierando ideali che fanno presa sulla gente, è legittimo. Soprattutto vedendo tutto questo dall'interno. Si capisce velocemente che gli animali sono nutriti il minimo indispensabile, e senza preoccuparsi troppo della dieta che dovrebbero seguire. Un animale si libera se, e solo se, è assolutamente evidente per chiunque che potrebbe tornare alla vita silvestre. Gli studi che dovrebbero essere parte integrante, se non preminente, del lavoro svolto, sono ormai solo un ricordo. All'inizio sì che si faceva veramente. Adesso si fanno vedere i libricini che ne sono stati ricavati, con il doppio intento di testimoniare l'impegno scientifico (che non c'è più) e di pubblicizzarli nella speranza di venderli. Ma per la ricerca non c'è più tempo, bisogna stare dietro ai turisti, sono loro che portano il denaro.
Il Sig. Tapia dice che non dipende da un impegno insufficiente da parte sua se l'idea non prende campo, ma principalmente da due altri fattori. Il primo sarebbero gli allevatori del Pastaza, che costituirebbero un fattore di pressione troppo potente perché alla provincia abbraccino apertamente la sua idea. Il secondo sarebbero semplicemente i soldi, a sentir lui appena sufficienti per mandare avanti la baracca. Avendo passato alcuni mesi sul posto, penso che il primo argomento sia credibile, ma faccio fatica a non dubitare del secondo. Nonostante questo, volendo giudicare la situazione, non mi sento di poter dare al sig. Tapia né un'assoluzione piena, né una condanna definitiva.
Mi sembra che sia soprattutto vittima della sua idea; troppo grande, e potenzialmente rivoluzionaria, per passare inosservata. Non abbastanza forte, da sola, per farsi strada a dispetto degli interessi in gioco. E allora, addio al sogno di cambiare il mondo, che forse era anche sincero, e si vive meglio che si può, facendo attenzione a non pestare troppi piedi.
Trovo che questa piccola storia sia abbastanza emblematica per la situazione della foresta amazzonica, e per vari aspetti dell'America latina in generale.

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In Ecuador, il presidente Gutierrez è riuscito a farsi eleggere facendosi difensore dei diritti dei popoli indigeni, salvo poi dimenticare tutto una volta eletto, a tal punto da far reprimere duramente le nuove proteste degli indigeni, scatenate dalla sua stessa politica. La politica di conservazione del governo alterna nuove "inclusioni" a nuove "esclusioni".
L'opinione pubblica europea, molto sensibile al problema dell'ambiente, si può rallegrare del grande numero di parchi nazionale in Ecuador e del numero crescente di aree protette in genere.
Però come un'area protetta viene gestita dipende dalle scelte politiche. Se è un'attrazione turistica sufficientemente importante viene effettivamente ed efficacemente protetta. Se è "solo" un'area di conservazione, ma di difficile accesso per il turismo amaro destino delle grandi riserve amazzoniche, lo stato è subito pronto ad aprire la porta alla prima compagnia petrolifera, che, spinta dalla nostra infinita sete di petrolio, voglia, "nel rispetto della natura", eseguire nuove prospezioni.
Con atteggiamento simile, nascondendo dietro l'impegno per l'ambiente ben altre intenzioni, vengono stanziati milioni e milioni di dollari per "securizzare" le aree protette vicine alla Colombia. Difficile non vedervi un qualche rapporto con il famigerato "Plan Colombia", più che una vera preoccupazione di difendere la natura.
Per fortuna in molti luoghi del Sudamerica la gente che si rende conto dell'inghippo è sempre più numerosa. Soprattutto tra le popolazioni indigene, sta pian piano riaffiorando una coscienza, che purtroppo per alcune generazioni era scomparsa. Ma la piena coscienza del problema è ancora molto marginale. Finché saranno solamente i dirigenti a canalizzare lo scontento popolare verso certe istanze, difficilmente cambierà qualcosa.
La salvezza dell'Amazzonia passa per una nuova sensibilità, diffusa, popolare, generale ma non generica, informata e consapevole dei reali bisogni dell'ambiente; una nuova sensibilità che riscopra anche quell'antica saggezza che ha guidato per secoli i popoli di questi luoghi, e sappia rinnovarla e riproiettarla in un modo ormai irrimediabilmente cambiato, non solo combattendone i nuovi demoni, ma anche sfruttandone al meglio le nuove possibilità.
La salvezza dell'Amazzonia passa per questo cammino di conoscenza, oppure non sarà.
Senza questo humus in cui crescere, anche buone idee come quelle del centro Fatima, sono destinate a rimanere lettera morta. Senza questo percorso, rimarrà facile per i ricchi ed i potenti abusare delle popolazioni, pretendendo di fare qualcosa, ma facendo in realtà l'opposto. E diventa più difficile biasimare chi dimentica i buoni propositi e si adegua all'andazzo generale, ritrovandosi a fare quello che un intero continente è già impegnato a fare: sopravvivere.

gennaio - aprile 2005