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È difficile credere che la politica scolastica del governo Berlusconi sia così improvvida ed improvvisata come appare a molti osservatori.
Che essa sia animata da una visione della società italiana, che è ormai superata: grazie anche al processo virtuoso innescato dall'impegno profuso dalle forze migliori della scuola italiana sin dagli anni '601. E diretto ad immettere in un circuito di democratizzazione capillare vasti strati della società civile - fino ad allora esclusi dal pieno esercizio dei diritti di cittadinanza o comunque fortemente penalizzati in relazione alla capacità di negoziarne la progressiva estensione dei limiti d'applicazione - attraverso la trasmissione di un corredo culturale di base suscettibile di successive implementazioni a seguito del costante innalzamento dell'età di obbligatorietà scolare, per le generazioni in formazione; ovvero, per il tramite collaborativo dei sistemi di istruzione formale, non formale ed informale, per quelle già immesse nei processi produttivi e bisognose di un adeguamento ai ritmi evolutivi di quelli del quoziente di occupabilità inerente al proprio profilo professionale. Che voglia, per mera questione di puntiglio, mettere il punto ad una tradizione di elaborazioni didattico-culturali complesse ed autocritiche: le quali, oltre a raccogliere consensi non sul mero piano delle politiche educative nazionali, hanno di volta in volta saputo sempre lucidamente indicare, dall'interno di essa, gli interventi d'innovazione necessari ad assicurarne la perpetuazione anche in termini di efficacia. Ed andare a capo con una riforma che, già alle sue prime prove concrete - rappresentate dal Decreto Legislativo n° 59/042 e con la CM 29/043 - bordeggia confusa fra tutor, portfolio, personalizzazione, curricolo opzionale/facoltativo, suscitando un vespaio di proteste vibranti anche fra quei lavoratori della scuola che nella competizione elettorale del 2001 devono aver contribuito significativamente alla vittoria del centro-destra, accettando di seppellire le proprie monete d'oro nel campo dei miracoli di Arcore. È tanto più difficile crederlo dopo l'ingresso nel Ppe del partito del premier: e il conseguente suo sdoganamento dalle posizioni ostentatamente populistico-plebiscitarie assunte dopo la vittoria del '94, unito alla scoperta di una vocazione centrista e moderata. Un rituale battesimale che non deve essere sfuggito al popolo della scuola da sempre diffidente verso pratiche radicali ed eversive. Ma, allora, quale logica politica è sottesa ad una riforma che non piace alla scuola, non piace alla società civile, non piace, probabilmente, neppure ad autorevoli esponenti della maggioranza capaci, nel merito, di proposte di ben più alto profilo in anni nemmeno tanto lontani? Quale suprema istanza incalza l'esecutivo e lo spinge a tirare diritto, imponendo, anche con toni intimidatori4, l'immediata applicazione di una riforma che, per la delicatezza del settore che investe, avrebbe richiesto un'ampia e capillare consultazione di tutte le forze sociali, comprese evidentemente quelle che nel settore dell'istruzione lavorano, come ben sa persino la non bolscevica Francia di Chirac? Che cosa lo spinge, al di là di finalità di ordine economico-finanziario comunque di piccolo cabotaggio, a ritenere che il probabile costo elettorale di questa politica scolastica sarà ricompensato dal sostegno di poteri ben più forti come quelli rappresentati dalle corporazioni internazionali dell'impresa? Già: l'impresa. L'unica delle tre "i", che negli slogan propagandistici che strombazzavano gli assi culturali portanti di questa riforma, apparisse veramente (ed oscuramente) originale: di inglese e di internet la scuola "vecchia" ne aveva già abbastanza. Sul piano qualitativo. Su quello quantitativo, a dire il vero, pare ne avesse anche di più. Tuttavia, il riferimento all'impresa deve essere apparso in qualche misura meritevole di fiducia da parte di quelle fasce sociali e di quei lavoratori dell'istruzione più disponibili a credere alle magnifiche sorti e progressive del nuovo mondo che la politica neocons andava vagheggiando anche per loro. È, infatti, l'operazione di accostamento dell'impresa ad un'istituzione di forte tradizione democratica ad evocare scenari idilliaci di una scuola che sviluppi una nuova cultura d'impresa, che metta sotto la propria autorevole tutela formativa un settore strategico per lo sviluppo economico del paese e da sempre riottoso a concepire la propria crescita come legata a doppio filo a quella della tutela del lavoro e dei diritti sociali. Che il senso dell'accostamento non sia affatto quello, ma piuttosto un altro e di segno opposto, risulta di sufficiente evidenza a chi compia un'operazione, per così dire, di distanziamento rispetto ai pur significativi documenti riformatori già ufficializzati e a quelli che sono in via di elaborazione, ma che a breve dovrebbero travolgere anche il segmento della secondaria superiore: e allarghi lo sguardo per contemplarli in una prospettiva armoniosamente devastante di strategie mirate alla tutela degli interessi del capitale e della finanza globale attraverso la longa manus di istituzioni internazionali quali il WTO, il FMI e la Banca Mondiale. E comprendere così, pur nel quadro di un'essenziale ricognizione del problema, che è almeno dal 1994, cioè dalla costituzione a Marrakech della Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), di cui fa parte anche l'Unione Europea, che gli organismi finanziari internazionali hanno iscritto nelle priorità della propria agenda la privatizzazione e la mercificazione dei servizi pubblici, compresi quelli assai delicati dell'istruzione, della sanità e della previdenza sociale. Ed hanno assunto impegni reciprocamente vincolanti, stipulando intese quali i GATS (Accordi Generali sul Commercio nei Servizi) propugnati con una determinazione che concede assai poco all'euforia con cui il Forum Sociale Mondiale ha salutato il fallimento dell'ultimo vertice del WTO a Cancùn: non rientra, infatti, nello stile delle multinazionali, le vere ispiratrici del WTO, arrendersi alle prime difficoltà. Cogliere, invece, circostanze maggiormente propizie per ritornare all'assalto e condurre operazioni di sfondamento delle linee residuali di resistenza è ciò che esse ordinariamente fanno, giovandosi della collaborazione sollecita delle aristocrazie politiche locali. Comprese quelle europee ed italiane. Alle quali è affidato il ruolo delicato di fiaccare lentamente, subdolamente la resistenza civile attraverso la realizzazione-imposizione di riforme spesso di breve respiro, ma i cui effetti corrosivi si disvelano nella modificazione della mentalità di massa a medio e lungo periodo: e la rendono, perciò, più arrendevole all'avidità del capitale mondiale. Alla quale, appunto, il controllo totale di un mercato di 30 bilioni di dollari, qual è (secondo fonti OCSE) quello intorno a cui si stima il giro d'affari mondiale dell'Educazione, fa certo gola. Né - si può starne certi, nonostante Cancùn - vi rinuncerà facilmente. Privatizzazione, perciò, è la parola d'ordine intorno a cui vengono chiamate all'opera le politiche sedicenti riformiste del liberismo mondiale. Perché ribattano, variamente modulandola, l'idea che nell'adozione delle formule meno stato più impresa, meno vincoli più mercato, stia la soluzione del problema del rilancio della qualità dei servizi pubblici, previa necessaria trasformazione degli stessi da diritti in merci. E delle collettività, che ne erano portatrici, in clienti. Privatizzare significa, perciò, rendere i sistemi di erogazione dei servizi in grado di attrarre i capitali delle imprese perché individuino in essi opportunità di realizzazione di profitti cospicui: il che si verifica solo se, nella fattispecie, il servizio erogato costa poco e produce molto. Di qui la necessità di diminuire i costi di gestione dei servizi. Perché tali ormai devono essere riguardati i vincoli imposti agli standard di qualità degli stessi, di cui fanno parte anche le sicurezze sociali e le forme di garanzia della stabilità occupazionale di coloro che lavorano per fornirli: un lavoratore tutelato offre un servizio di migliore qualità di chi sente pendere perennemente sul capo la minaccia della precarietà. Sicché, precarizzazione e privatizzazione finiscono con il costituire ciascuna il presupposto e l'effetto dell'altra: il che è a dire, con l'identificarsi. Non si danno terze vie, nelle politiche economiche nazionali illuminate dal WTO. Non son più tempi di diritti e di tutele, pare, quando di mezzo c'è la concorrenza globale. Ce lo ricorda paternalisticamente il "Libro Bianco sul welfare", contributo locale, si direbbe nazional-popolare, alla deregolamentazione planetaria auspicata dal WTO: "La concorrenza tra i modelli economico-sociali è una forza pervasiva. Capace di modificare la solidarietà sociale anche all'interno di economie in grado di rispondere positivamente all'intensificata pressione del mercato. Il vero cambiamento sta tutto qui: la concorrenza rende obsoleta qualunque politica sociale e salariale di tipo egalitaristico basata su vecchi modelli. Proprio a causa dei vincoli originati dalla concorrenza, oggi non è possibile pensare di perseguire la giustizia sociale limitandosi a trasferire ricchezze dai settori o dalle aree a più alta produttività verso quelli meno produttivi. Per il semplice motivo che i primi, per poter continuare ad esistere, hanno bisogno di reinvestire il proprio surplus economico o quantomeno di conservarlo per il futuro"5. A questo processo di revisione e di ristrutturazione di rapporti economico-sociali in cui la precarizzazione è idolatrata come la necessaria premessa della privatizzazione non può sottrarsi anche il mondo dell'educazione, dell'istruzione e della formazione. Anzi, viene fatto di pensare che, dal momento che "viviamo in un'epoca in cui il sapere stesso costituisce la forma dominante del lavoro produttivo, in cui pressoché nulla è distinto dal 'lavoro' aggiunto della conoscenza"6, precarizzare le forme e le condizioni della produzione (versante dei lavoratori cognitivi, che vivono producendo conoscenza) e della distribuzione-ricezione (versante dei soggetti in formazione) del sapere (dalla scuola dell'infanzia all'università) significa precarizzare la forma dominante del lavoro produttivo. Il che avviene quando si rendono di fatto impraticabili le vie di accesso al longlife learning, abbreviando e squalificando quei processi formativi di base che lo sviluppo della knowledge society ritiene prescrittivi al fine di garantire al soggetto diuturna occupabilità ed adattabilità professionale7. Ma precarizzare la formazione è anche indurre le scuole, tramite un esercizio miserabile dell'autonomia didattica, alla costruzione di percorsi formativi fortemente appiattiti sulle specifiche competenze richieste da un mercato del lavoro che è breve sia nel tempo (perché costitutivamente instabile) che nello spazio. Il mercato cui sono costrette a guardare le diverse scuole, trasformate in improbabili aziende della formazione - se vogliono sperare di costituirsi come polo d'attrazione di risorse presenti nei settori locali del sistema produttivo, allo scopo di integrare quelle sempre più esili assegnate alla formazione dall'amministrazione centrale - è appunto quello locale. Naturalmente, in questo assetto il grado di autonomia e, dunque, di resistenza dei saperi trasmessi risulta fortemente limitato dalle vocazioni produttive in un determinato momento prioritarie nel quadro locale: e, perciò, in grado di imporre il possesso di troppo specifiche competenze quali requisiti di occupabilità. Anche il valore del titolo di studio si subordina alla possibilità di documentare il possesso di competenze spendibili nel mercato del lavoro. Lì dove, invece, obiettivo trasversale e pertinace dell'istruzione dovrebbe essere la formazione alla cultura del lavoro del soggetto in apprendimento. Il che, in particolare, significa fornirgli una formazione che non sia supinamente appiattita sulle esigenze contingenti, caduche, transitorie di un mercato del lavoro che si dà regole tutte interne alla tutela degli interessi padronali: bensì una cultura che lo ponga in condizione di negoziare su un piano di parità non solo le regole del mercato, ma anche di declinarne gli obiettivi e i valori. Una cultura, cioè, non curvata sul qui ed ora. Che eviti l'obsolescenza delle proprie competenze centrifugate dalla rapida evoluzione di un mercato globale che fissa le sue regole altrove e non si perita ad espellere il lavoratore, implicitamente colpevolizzandolo, quando non è più capace di risposte forti alle domande complesse poste dalla incessante innovazione tecnologica del mercato medesimo. Certo, più il lavoratore di domani (che è lo studente di oggi) sarà minato da questa intrinseca fragilità, più debole sarà il suo potere contrattuale; più sarà ricattabile da un mercato del lavoro che baratterà lavoro precario e malpagato in cambio di diritti e sicurezza. Se, poi, si guarda da vicino a quello che sta accadendo in particolare nelle scuole elementari e medie da quando il D. Lvo 59/04 ha imposto la ristrutturazione di quel segmento di scolarità ci si rende conto che lì la messa in stato di precarietà del sistema statale di istruzione è già in atto. Le ore facoltative/opzionali (da modularsi sulle mutevoli prevalenti richieste delle famiglie) dei nuovi curricoli morattian-bertagneschi, infatti, sono l'area candidata alla esternalizzazione della formazione (tramite contratti d'opera): con effetti di precarizzazione riferibili non solo alla contrazione degli organici dei docenti, ma anche - sotto un profilo più strettamente culturale e pedagogico - alla concezione del curricolo come processo unitario di formazione che si esprime nella coordinata pluralità degli apporti dei vari docenti del consiglio di classe. Si tratta, in altri termini, della proiezione curricolare di quella frammentazione dei saperi che la cultura neocons persegue allo scopo, da una parte, di ridurne il potenziale trasformativo della realtà, dall'altra di aumentarne l'appetibilità di massa come merce di consumo impacchettata e pronta all'uso. Le ore affidate ad esterni, infatti, creano il presupposto per una concezione del curricolo "a mosaico", fatto di tessere-pacchetti di informazione, compiuti ed autosufficienti, offerti sul mercato della formazione a domanda. È, in buona sostanza, facile prefigurare uno scenario prossimo in cui, una volta che una parte del curricolo sia stata trasformata in spazio di soddisfacimento di bisogni formativi dell'utenza (meglio, di una parte di essa: quella che saprà chiedere e sarà in grado eventualmente anche di pagare) non rilevati e riconosciuti come tali dall'Istituzione, ma piuttosto rivendicati dall'utenza medesima, quella parte medesima diverrà terra di conquista per agenzie formative private che se la contenderanno a colpi di campagne pubblicitarie intese alla induzione di effimeri bisogni formativi, cui la scuola non avrà la possibilità di opporre alcun filtro critico. Potrà, invece, soltanto candidarsi ad essere un'agenzia formativa fra le altre. Non avrà scelta. Se almeno vorrà limitare i rischi di una progressiva marginalizzazione rispetto a processi di formazione non più ormai mirati alla costruzione di una serie di strumenti culturali e simbolici il cui possesso renda effettivo l'esercizio di una cittadinanza consapevole, anche attraverso l'attenuazione di condizionamenti socio-economici di partenza degli studenti. La scuola dovrà, perciò, mettere da parte come un vecchio arnese il suo ruolo istituzionale e costituzionale e buttarsi sul mercato alla conquista di studenti-clienti da soddisfare. È meglio non accennare neppure - parlando di precarizzazione del lavoro cognitivo - all'ulteriore frastagliamento e polverizzazione della qualità dell'offerta formativa nazionale che si determinerebbero con l'attuazione della quota regionale del curricolo prevista dalla riforma dei rapporti e dei ruoli dello Stato e delle Regioni cui la maggioranza sta lavorando, incalzata in questo specifico aspetto dalla sua componente leghista8. La stabilizzazione, dunque, della precarietà anche nel settore dell'istruzione, e la sua estensione, tramite analoghi o più radicali strumenti normativi, dal segmento primario a quello secondario, è, dunque, l'obiettivo che il governo Berlusconi raggiungerà assai rapidamente, rimeritandosi la confortevole gratitudine dei grossi poteri finanziari che sostanziano il WTO. Sempre che le prossime scadenze elettorali gli rinnovino il mandato: propizia, magari, l'inerzia o la rassegnazione di quella parte del mondo della scuola che ha da tempo rinunciato anche a sperare di poter resistere e di potersi opporre. Il che non è storicamente fondato escludere. Per l'intanto, questa parte sonnacchiosa avrà forse modo di scuotersi dal proprio torpore l'anno venturo, quando il ridimensionamento quali-quantitativo della offerta formativa della scuola elementare e media deflagrerà a seguito di un'applicazione del citato D.Lvo 59/04 priva di anestetici: l'abolizione di alcune discipline (per es. l'educazione tecnica) e la riduzione del monte ore annuale di altre, unite alla conseguente drastica contrazione degli organici di diritto e di fatto9, non mancheranno di far scorrere il brivido della precarietà lungo la schiena dei dormienti. E, forse, sarà troppo tardi perché essi si destino e si levino. Si sa. Il sonno è fratello della morte. 1 Data al 31 dicembre 1962 la legge 1859, istitutiva della scuola media unica, che qui si può simbolicamente collocare a monte di quel processo di democratizzazione della istruzione che la scuola di Stato repubblicana ha quasi da subito avocato a sé come suo specifico contributo di sostegno alle dinamiche di sviluppo sociali postfasciste. 2 Decreto Legislativo n° 59 del 19 febbraio 2004, "Definizione delle norme generali relative alla Scuola dell'infanzia e al primo ciclo dell'istruzione, a norma dell'articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n° 53". Si tratta del primo decreto applicativo dei tanti previsti dalla c.d. Legge Moratti. 3 Circolare Ministeriale n° 29 del 5 marzo 2004, che aspira ad impartire istruzioni in merito all'applicazione del succitato decreto. 4 Si veda al riguardo la Nota Ministeriale Riservata del 30 giugno 2004, "Applicazione riforma", inviata ai direttori regionali a firma del capo dipartimento, dott. Pasquale Capo. 5 "Libro bianco sul welfare. Proposte per una società dinamica e solidale", cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Roma, febbraio 2003, p. 5 (consultabile sul sito www.welfare.gov.it). Il corsivo è d'autore. 6 T. De Simone, "Lo spreco, il mercato e l'alternativa", in Alternative, n° 4, 2001, p. 56. 7 Sorprende rinvenire considerazioni interessanti nel merito persino su "Il Sole 24 ore - Scuola", dove si possono leggere in un articolo comparso di recente (n°14, anno VI, 17-30 settembre 2004, p. 28) dal titolo "La lunga strada verso Lisbona", a firma di Paola Nicoletti, ricercatrice ISFOL. La quale tra l'altro osserva: "Per garantire il successo delle politiche di longlife learning, è indispensabile accrescere l'impegno per l'istruzione di base e la formazione professionale iniziale, non soltanto perché propedeutiche alla successiva formazione personale dell'individuo, ma soprattutto perché l'apprendimento permanente - per tutta la vita di ogni cittadino - richiede un livello di competenze culturali e scientifiche minimo, al di sotto del quale non è possibile beneficiare in modo efficace della formazione permanente". 8 Cfr. art. 117 Cost.: "Le regioni attivano la competenza esclusiva nella definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico delle regioni". 9 A titolo d'esempio, si consideri la riduzione del monte ore annuale di cattedre come quella di italiano, storia e geografia nella scuola media che passa dalle attuali 363 a 297; una riduzione pari a più di 1/6. Tradotto in cattedre, ciò significa una riduzione di 1/6 di quelle attualmente afferenti alla cl. Conc. 43/A. |
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