Mare Monstrum. Dalla 'guerra per le risorse' alla 'risorsa guerra': il futuro del Mediterraneo
di Alberto Altamura

1. Un'analisi della relazione esistente tra il controllo delle risorse naturali e l'insorgere di conflitti, quando si spinge ad indagare quella forma particolare di conflitto armato che è la "guerra per le risorse", deve necessariamente tenere in grande considerazione la dimensione dello "stato di guerra globale", inaugurato, a livello planetario e in prospettiva temporalmente indefinita, dalla "guerra al terrorismo internazionale" promossa dalle coalizioni guidate dal governo statunitense.
Nell'accezione comune, una "guerra per le risorse" è un conflitto armato nel quale il controllo e la gestione delle risorse naturali costituiscono le motivazioni principali della mobilitazione dei belligeranti. Senza voler ridurre ad una singola ragione la complessità del fenomeno bellico, quello per il controllo delle risorse può essere spesso individuato come il fattore trainante di una guerra. Tuttavia, una categoria interpretativa come quella di "guerra per le risorse" risulta poco efficace per comprendere la natura costituente della guerra contemporanea, istitutrice della struttura organizzativa della società e, allo stesso tempo, garanzia del consolidamento dell'ordine globale1.
La categoria di "guerra per le risorse", infatti, ci porterebbe a leggere le guerre contemporanee secondo i criteri della guerra dei Paesi ricchi contro quelli poveri, o dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri tra loro, ma, come opportunamente osservano Hardt e Negri, la rilevanza che una tale lettura avrebbe per i protagonisti, si eclisserebbe qualora la prospettiva di indagine si volgesse, come è opportuno che sia, al quadro dell'attuale ordine globale1.
Le "guerre per le risorse" continueranno ad esserci, è ovvio, ma occorre comprendere che la principale risorsa, oggi, è proprio la guerra.

2. La categoria di "guerra per le risorse" risulta, del resto, ambigua, già per il fatto che è estremamente complesso interpretare quel "per" in relazione alla scarsità o all'abbondanza delle risorse.
Di solito si è portati a ritenere che le guerre siano legate, soprattutto, alla scarsità di risorse naturali, laddove occorrerebbe soffermarsi a riflettere sulle maggiori probabilità che un conflitto esploda dove ve ne sono in abbondanza. Proviamo a seguire per grandi linee i due ragionamenti2.
Assumendo la scarsità delle risorse come motivazione dei conflitti, siamo portati ad immaginare le popolazioni come disponibili, in linea di principio, a combattere ogni qualvolta si tratta di proteggere quanto necessita alla propria sopravvivenza. In questa prospettiva, i vari sistemi sociali sembrano essenzialmente incapaci di adattarsi alla scarsità, ragion per cui l'esaurimento di risorse, congiunto, in molti casi, a una rilevante crescita demografica non possono non diventare occasione di conflitto. Implicitamente, questo ragionamento tende a imputare ai sistemi sociali, dislocati in ambienti caratterizzati da risorse scarse o in via d'esaurimento, una sostanziale incapacità di innovazione o di investimento finanziario in settori alternativi, in grado di generare un livello sufficiente di ricchezza.
I contro-argomenti addotti, rispetto a questa tesi, puntano ad esaltare gli alti livelli di innovazione socio-economica e di diversificazione dell'economia molto spesso raggiunti proprio per ovviare alla scarsità delle risorse e a un correlato incremento demografico; mutamenti che finiscono col produrre anche una migliore distribuzione del potere nella società, dal momento che gli apparati statali, privati delle rendite scaturenti dalla gestione delle risorse naturali, diventano sempre più dipendenti dalle entrate provenienti dalla società, e, di conseguenza, sempre più disponibili a rappresentarla e a sentirsi responsabile nei suoi confronti.
In sintesi, non dovendo impegnarsi nella protezione della rendita elitaria connessa alla gestione delle risorse, la politica economica dei Paesi poveri di risorse può concentrarsi sullo sviluppo e sull'utilizzo di capitale umano. Queste argomentazioni sono suffragate dal fatto che, in numerosi casi, l'economia di Paesi poveri di risorse cresce più velocemente di quella dei Paesi ricchi.
Per quanto attiene agli argomenti che tendono a evidenziare la maggiore probabilità di conflitto presente nei Paesi con abbondanti, ma non rinnovabili, risorse, basterebbe ricordare che, nel corso degli anni Novanta, le guerre si sono combattute, soprattutto, in questi contesti territoriali [vd. tabella]. L'abbondanza di risorse, infatti, si combina spesso con alcuni fattori che determinano una maggiore probabilità di conflitto: il costante deficit di democrazia, la scarsa crescita economica, il comportamento predatorio delle élites al potere.
Generalmente associata a prestazioni economiche scarse e a grandi disuguaglianze socio-economiche, l'abbondanza di risorse naturali può produrre una serie di perversi effetti economici e istituzionali, che vanno da una bassa crescita economica, determinata molto spesso dall'abbandono di settori non immediatamente legati alle risorse disponibili e dal basso livello di relazioni economiche, a diffuse pratiche di corruzione nelle istituzioni statali, a una cattiva gestione del bilancio pubblico, a un alto livello di indebitamento con l'estero, a una alta vulnerabilità rispetto a interventi esterni, specialmente legati alla quotazione internazionale delle risorse.
Quando le risorse garantiscono una rendita sufficiente, i governi sono poco incentivati a sviluppare una diversificazione dell'economia, che potrebbe far emergere fonti alternative di potere economico, fino a rafforzare temuti competitori politici. I Paesi in via di sviluppo con abbondanti risorse, ad esempio, sono spesso caratterizzati da governi predatori, impegnati unicamente a difendere interessi corporativi, e da violentissimi conflitti, dal momento che, in assenza di un diffuso consenso politico, la violenza diventa la principale se non la sola strada per garantire la ricchezza e il potere delle élites.
In contesti caratterizzati da "abbondanza di risorse" è possibile, inoltre, registrare guerre di secessione, promosse dalle regioni più ricche e, naturalmente, ricorrenti interventi stranieri, promossi da stati, da multinazionali e da mercenari impegnati a sostenere colpi di stato, frodi elettorali, insurrezioni locali e persino annessioni manu militari.
Nella prospettiva della "guerra per abbondanza di risorse" può inscriversi anche l'analisi che Bellofiore sviluppa dell'intervento anglo-americano in Iraq. L'importanza dell'Iraq, dal punto di vista energetico, è nota: anche se al momento è al secondo posto per riserve petrolifere (112 miliardi di barili), rispetto all'Arabia Saudita (262 miliardi), la scoperta di nuovi giacimenti nel deserto occidentale (220 miliardi di barili, secondo il Dipartimento dell'Energia degli USA) gli aprono prospettive egemoniche significative. L'interesse anglo-americano nell'area non è, quindi, semplicemente dettato dalla volontà di controllare il prezzo del petrolio, ma è, soprattutto, determinato dalla necessità di impedire che si radichino in quel contesto gli interessi delle compagnie russe, francesi e italiane: "Non interessa solo controllare il prezzo del petrolio, ma soprattutto tenere in pugno chi più degli USA dipende dal petrolio di quella zona: Europa e Giappone, per il 30% e l'81%, mentre gli USA ne prelevano solo il 15%. Sullo sfondo c'è ovviamente la Cina, il temuto gigante economico del XXI secolo."3. Si tratta, i fin dei conti, degli stessi obiettivi perseguiti nell'area centro-asiatica per sottrarre a Russia e Iran il controllo dei "corridoi" degli oleodotti e dei gasdotti; obiettivi che consentono di spiegare gli interventi in Kosovo e Afghanistan.

3. Proviamo ad applicare queste considerazioni generali al Mediterraneo.
Naturalmente non ci avventureremo nella definizione di una "regione mediterranea". I problemi, a questo proposito, restano ancora quelli sollevati, quasi sessant'anni fa, dall'opera di Fernand Braudel La Mediterranèe et le Monde mèditerranèen à l'èpoque de Philippe II. Tuttavia, pur considerando la scarsa omogeneità della "grande vita" che pulsa in questo mondo costellato da comunità unite in modo vario da legami etnici, culturali, linguistici e religiosi (indo-europei, arabi, ebrei, curdi, armeni, berberi, sahariani, ecc. ecc.), è opportuno, per gli obiettivi della nostra analisi, tentare di circoscrivere lo spazio mediterraneo secondo prospettive geo-strategiche e geo-economiche. In questo caso, assumendo i bacini marini come riferimento, potremmo delimitare una regione che si estende dall'accesso di Gibilterra - attraverso il Mar Mediterraneo e i territori adiacenti, così come dal Mar Egeo e dal Mar Nero - sino al Caucaso e, attraverso il Canale di Suez e il Mar Rosso, sino al Medio Oriente. Il Mar Adriatico e i Balcani costituiscono una componente significativa della regione4.
Se prendiamo in considerazione i conflitti armati esplosi negli anni Novanta [vd. tabella], ci accorgeremo che nello spazio mediterraneo, nella ampia definizione geo-strategica e geo-economica precedentemente offerta, sono presenti tutti i problemi connessi all'abbondanza di risorse.
I Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, come è evidente, hanno uno sviluppo economico fortemente condizionato dall'ampia disponibilità delle risorse energetiche. L'intera regione è, pertanto, influenzata dall'ascesa o dal ribasso del prezzo del petrolio, e in una fase, come quella più recente, caratterizzata da un aumento del prezzo, i benefici della rendita petrolifera, oltre che interessare i paesi produttori, si spalmano su un territorio più ampio comprendente Paesi quali la Giordania, la Siria, la Palestina. Non distribuita solo nella forma dell'aiuto diretto, la rendita petrolifera si diffonde anche attraverso l'immigrazione.
Gli effetti perversi scaturenti dall'abbondanza di risorse, ovviamente, non mancano in quest'area. La rendita petrolifera e altri flussi finanziari, infatti, finiscono con il disincentivare esportazioni non petrolifere, sostengono spesso irragionevolmente la spesa militare, rafforzano il ruolo del potere governativo a scapito della società, determinano l'abnorme espansione delle città costiere e la conseguente devastazione della costa e dell'habitat marino.
L'ordine regionale, tuttavia, non sembra essere compromesso direttamente da questioni legate alla disponibilità di risorse, come è stato nel passato. Del resto, ci si accorge facilmente che la "conflittualità legata alle risorse" presente nell'area mediterranea è soltanto una porzione, anche se significativa, di quella diffusa a livello mondiale5.
La posta in gioco appare un'altra.
Nella ridefinizione delle politiche regionali promossa dalla "guerra al terrorismo internazionale" il Mediterraneo è stato scelto come il laboratorio nel quale produrre quella grande risorsa rinnovabile che è la guerra.
In questa prospettiva, guardando alla sponda settentrionale del Mediterraneo, anche le guerre balcaniche degli anni Novanta, fino all'intervento Nato contro la Serbia, sono molto di più che "guerre per le risorse": secessione delle regioni ricche della ex-Jugoslavia, controllo del "corridoio 8", gestione degli straordinari giacimenti di lignite presenti nel Kosovo.
Ciò non significa, ovviamente, che le risorse non c'entrano più, ma che il controllo delle risorse e delle popolazioni avviene attraverso la costruzione di presidi militari che, una volta impegnati nella singola azione militare, sono pronti a dislocarsi su nuovi scenari bellici allo scopo di garantire la mondializzazione capitalistica. La "guerra securitaria permanente" diventa il contenitore e, allo stesso tempo, l'incubatrice, di quelli che possono sembrare singolari episodi bellici.

4. Un rapporto col Mediterraneo fondato unicamente sulla sicurezza non poteva, ovviamente, essere imposto con la forza. C'è stato pertanto bisogno di costruire le condizioni perché venissero scartate le possibilità di una partnership equa e solidale. Il momento più evidente di questa strategia è rappresentato dalla Conferenza di Barcellona nel 1995.
A Barcellona, l'Unione Europea, fortemente pressata dall'asse Parigi-Roma-Madrid, ha proposto ai Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo la creazione, entro il 2010, di una zona di libero scambio, in grado di coinvolgere i 27 Paesi che si affacciano sulle sponde del bacino mediterraneo. La Tunisia, la Giordania, il Marocco e l'Algeria sono stati fra i primi ad accettare la proposta europea. L'accettazione deve essere confortata, superfluo ricordarlo, da provvedimenti politici volti a ristrutturare l'economia, a destatalizzare, ad aprire i mercati interni. Insomma, ciò che si richiede ai paesi della sponda sud è un vero e proprio aggiustamento strutturale.
Sembrerebbe, tutto sommato, una situazione molto simile a quella proposta/imposta ai dieci Paesi dell'est europeo da poco entrati nell'Unione. Pur volendo trascurare, e non è facile, il fatto che ai Paesi del Sud del Mediterraneo si chiede di traghettare alla liberalizzazione sistemi economici che, fino a pochi anni fa, erano nazionalizzati e, prima ancora, colonizzati; ciò che balza immediatamente agli occhi è il diverso sostegno offerto dall'Unione Europea ai Paesi dell'Est rispetto a quelli del Sud. Infatti, mentre per i dieci Paesi dell'Est sono stati stanziati, nel triennio 2004-2006, 40,4 miliardi di euro di sovvenzioni comunitarie, risorse in ogni caso ritenute insufficienti dai governi interessati; per i Paesi del sud e dell'est del Mediterraneo l'Unione Europea ha stanziato, fra il 1992 e il 1998, solo 753 milioni di euro a titolo di "sostegno all'aggiustamento strutturale", a cui vanno aggiunti, per il periodo 1995-2000, circa 4,6 miliardi di euro in donazioni. Per i Paesi del Sud si tratta di stanziamenti irrilevanti: "È come se - scrive Jean-Pierre Sereni - l'Unione Europea avesse deciso che, nel Sud, il mercato debba essere lo strumento praticamente unico del recupero, e che si debba operare senza un aiuto economico conseguente da parte dell'Unione che ne allevi lo sforzo, mentre per i Dieci Paesi dell'Europa orientale viene stabilito un rapporto più equilibrato tra mercato e sovvenzioni"6.
Cinque anni dopo Barcellona, la Quarta Riunione dei Ministri degli Esteri dell'Unione Europea e dei Dodici Paesi del Sud del Mediterraneo, tenutasi a Marsiglia il 14 novembre del 2000, ha deciso di portare a 5,5 miliardi di euro le donazioni per il periodo 2000-2005. Come dimostra Francis Ghilès si tratta di un aumento irrisorio dal momento che i tempi per incassare si aggirano intorno ai nove anni7. Altrettanto modesta appare, come soluzione, l'adozione nell'ottobre del 2002 della FEMIP (Facilità euromediterranea d'investimento e di partenariato), cioè di una linea di credito di 600 miliardi di euro all'anno che, dal 2003 al 2006, dovrà finanziare la modernizzazione e lo sviluppo delle economie dei Paesi del Sud del Mediterraneo. Si tratta, infatti, come ricorda Sereni, di prestiti che dovranno essere rimborsati caricandone i costi sui prezzi di produzione.
Un indicatore efficace del benessere dell'economia dei Paesi del sud del Mediterraneo dovrebbe essere fornito dagli IDE (Investimenti esteri diretti). Ebbene, quest'area attira appena l'1% dei flussi mondiali di IDE, pari al 5% di quelli versati ai paesi in via di sviluppo. Secondo Ghilès, se entro il 2005 la percentuale di IDE non raggiungerà il 10%, potrebbe verificarsi una rilevante recessione economica, seguita da rivolte sociali, da irrigidimenti identitari di natura etnico/religiosa, da grave crisi finanziaria8.
Prende, quindi, sempre più corpo il sospetto che l'approccio dell'Unione nei confronti del Sud punti a un aumento delle esportazioni europee in quella direzione, senza che però venga accettato un aumento dei flussi in senso inverso9. L'esempio più efficace a questo proposito resta sempre quello del comparto agricolo.
La politica mediterranea dell'Unione, infatti, tende sostanzialmente ad imporre ai paesi del Sud l'abolizione dei dazi doganali per i propri prodotti industriali e, al tempo stesso, a ostacolare un'apertura progressiva dei propri mercati per i prodotti agricoli del sud. L'esempio dell'olio d'oliva tunisino è forse il più abusato, ma anche il più illuminante. Principale prodotto agroalimentare della Tunisia, l'olio d'oliva è stato fino a qualche anno fa importato in Europa, fuori dazio, per una quantità pari a 40 mila tonnellate: pressappoco la stessa quantità che fluiva in Francia, un secolo fa, ai tempi del protettorato. Oltre questa quantità, incrementata da poco tempo del 35%, l'olio tunisino viene venduto al prezzo del mercato mondiale, che è di molto inferiore: salvo poi, come ricorda Sereni, ad essere rivenduto a prezzi europei con etichetta italiana.
Ritenere gli scarsi stanziamenti, l'irrilevante flusso di IDE, il contingentamento dell'entrata nel mercato europeo dei prodotti agricoli più competitivi - per stare ai tre aspetti selezionati - soltanto delle contraddizioni superabili del rapporto dell'Europa con il Mediterraneo, è un pericoloso errore. Siamo in presenza, al contrario, di una strategia in cui quelle contraddizioni tendono sempre più a trasformarsi in limiti insuperabili, affinché il Mediterraneo diventi esclusivamente il luogo di "investimenti in sicurezza".
"Il Mediterraneo è un'area di particolare interesse per l'Alleanza. La sicurezza in Europa è strettamente legata alla sicurezza e stabilità nel Mediterraneo", queste affermazioni campeggiano nel Nuovo Concetto Strategico adottato dai Paesi NATO nel Vertice di Washington del 1999.

5. Fra i tanti documenti utilizzabili per comprendere il nuovo ruolo del Mediterraneo, ci soffermeremo sulla relazione di Roberto Aliboni Rafforzare le relazioni tra la NATO e il Mediterraneo: una transizione verso il partenariato, tenuta il 30 settembre del 2002 al Seminario internazionale "Dal dialogo al partenariato. La sicurezza nel Mediterraneo e nella NATO: prospettive future".
La scelta di questo testo non è casuale, ma è determinata dall'alto valore istituzionale del Seminario in cui esso è stato proposto, dal momento che si è svolto "sotto l'egida del Parlamento italiano, in collaborazione con l'Ufficio stampa e informazioni della NATO e l'Istituto italiano per gli affari internazionali (IAI)"10.
L'apertura dell'intervento di Aliboni è significativa perché individua nelle sponde meridionali dell'Europa "la fonte più importante di instabilità per il continente europeo e per l'Occidente in generale" e nel terrorismo, nelle sue varie manifestazioni, la ragione profonda di questa instabilità: "Nella regione del Mediterraneo - afferma Aliboni - oltre al terrorismo nazionale e religioso, esiste ora una tendenza verso il terrorismo globale". Si tratta, del resto, delle tesi sostenute nell'aprile del 2002 dal Segretario generale della Nato e dirette ad individuare le cinque ragioni che fanno del Mediterraneo un'area di importanza strategica rilevante: l'instabilità, il terrorismo, il conflitto israelo-palestinese, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, la questione energetica11. Per quanto attiene all'ultimo punto, è sempre bene ricordare che il Mediterraneo, pur rappresentando soltanto lo 0,67% delle acque del pianeta, è il luogo di transito di 1/3 del traffico mondiale di prodotti petroliferi.
Instabilità e terrorismo diventano, però, anche il fondamento del rapporto di cooperazione: "La NATO e i governi occidentali - scrive Aliboni - ritengono che gli Stati della sponda meridionale del Mediterraneo siano esposti agli stessi rischi e alle stesse minacce che essi stessi sono chiamati ad affrontare. Pertanto sono dell'avviso che il margine per la cooperazione nel settore politico e della sicurezza sia ancora più ampio che nel passato e stanno esaminando le opportunità per un rafforzamento dei quadri di cooperazione già esistenti, tra i quali il Dialogo Mediterraneo della NATO (NMD)"12.
Ad Aliboni non sfuggono, ovviamente, le difficoltà che si frappongono al raggiungimento di un "quadro cooperativo" di questo tipo. Esse sono raccolte in tre grandi questioni. La prima riguarda naturalmente il conflitto arabo-israeliano, che impedisce ogni possibilità di collaborazione nel settore sicurezza fra Israele e i paesi arabi. La seconda viene fatta risalire a una eredità coloniale difficile da rimuovere, e che porta ad interpretare la volontà di collaborazione dell'Occidente come una interferenza. A questo proposito, Aliboni sostiene che si tratta di "percezioni dell'opinione pubblica" e "percezioni dei governi". La seconda difficoltà, quindi, più che un ostacolo reale sarebbe una "deformazione dell'immaginario", che ha pur sempre il suo peso, come le allucinazioni hanno il loro peso nella vita dello psicotico. La terza questione riguarda la scarsa inclusività dei progetti di "cooperazione per la sicurezza" proposti dai paesi occidentali.
Ciò che sorprende in questo ragionamento è la totale assenza di una riflessione sulle disuguaglianze economiche, sulla logica predatoria del mercato occidentale, che di certo sono anche a fondamento delle prime due difficoltà segnalate. Non si tratta, tuttavia, di una dimenticanza, ma di una omissione, a nostro parere, voluta. Infatti, è proprio sulla terza difficoltà che il ragionamento di Aliboni si concentra, per prospettare una soluzione in cui l'inclusione dei paesi del Mediterraneo meridionale avvenga non sul campo di pari opportunità economiche, ma su quello della sicurezza: "L'interesse dell'Occidente - sostiene Aliboni - a un rafforzamento dei legami con i paesi del Mediterraneo meridionale, nel campo della sicurezza è chiaramente motivato in termini di stabilità, governance internazionale, sicurezza interna e internazionale".
La partnership fra paesi del Mediterraneo meridionale e l'Occidente non si inscriverà nei progetti dell'Unione Europea, ma in quelli della NATO.
La soluzione del Segretario generale della NATO, nel discorso già citato, è chiarissima: "la NATO deve coinvolgere più da vicino i paesi interessati del Dialogo Mediterraneo in talune attività del Consiglio per il partenariato euroatlantico". Altrettanto chiare sono le articolazioni che di questa soluzione prospetta Aliboni: i paesi mediterranei devono essere sempre più coinvolti nella valutazione delle tendenze internazionali nel settore della sicurezza, cioè devono poter discutere, con pari dignità, non solo quanto accade nel Mediterraneo, ma anche "le tendenze internazionali che interessano nel senso più ampio la loro sicurezza nazionale e quella della regione". Una espressione di questo coinvolgimento, ad esempio, è la partecipazione di militari egiziani, giordani e marocchini alle operazioni IFOR e SFOR svoltesi in Bosnia.
La cooperazione, più che il pane, riguarderà le armi. Aliboni, infatti, individua gli ambiti della cooperazione nell'intelligence, nella gestione delle crisi, nell'istruzione nonché, e questo merita di essere sottolineato, "in una serie di attività militari volte in generale a migliorare la fiducia e l'interoperabilità".
Se è legittimo nutrire sospetti sul circolo virtuoso che legherebbe le attività militari al miglioramento della fiducia, è fuor di dubbio che esse risultano utili, o meglio, producono utili.

6. Per avere una idea concreta degli utili della "guerra al terrorismo internazionale" basta semplicemente leggere i resoconti trimestrali presentati, nell'ultima settimana di ottobre, dai maggiori produttori americani di armamenti.
La Lockheed Martin (velivoli, veicoli spaziali, sistemi di lancio di missili, sistemi informatici e gestione dell'energia), al 30 settembre 2004, ha visto crescere i propri utili del 41% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente; quadruplicando dall'11 settembre 2001 il valore delle proprie azioni.
La Northrop Grumman (sistemi e apparati hi-tech, sistemi e navi a propulsione nucleare e non nucleare) ha dichiarato una crescita degli utili del 46% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
La General Electric ha evidenziato incrementi del 15% rispetto all'anno precedente e insieme ad essa sono in forte attivo Pratt e Whitney (motori aeronautici e sistemi di propulsione per veicoli spaziali) e Raytheon (sistemi elettronici per la difesa, missili, radar, sensori e apparati elettrottici, sistemi di intelligence, sorveglianza e riconoscimento).
Il contesto in cui questi dati vanno letti è, ovviamente, quello degli stanziamenti per la difesa erogati dall'amministrazione Bush; stanziamenti che vanno dai 307 miliardi di dollari del dopo-11 settembre, ai 420 miliardi preventivati per il 2005, fino ai 451 miliardi prospettati per il 2007, per un ammontare totale di 2.144 miliardi di dollari nel periodo 2002-2007.
Sebbene in un panorama più frazionato rispetto a quello statunitense anche l'imperialismo europeo si sta attrezzando per gestire al meglio la risorsa guerra.
Il settore bellico navale offre, a questo proposito, indicazioni significative.
La concentrazione della produzione bellico navale statunitense vede i principali cantieri navali americani (Steel & Shipbuilding, Advondale, Bath Iron Works e Newport News) dipendenti per quanto riguarda la sistemistica da tre grandi aziende: General Dynamics, Northrop Grumman e Lockheed Martin.
In Europa, nel passato, era prevalsa la tendenza delle marine nazionali ad affidarsi ai piccoli cantieri di casa e quasi mai a tentare dei programmi multinazionali.
Ancora alla fine del 2002, ad esempio, si registravano molte perplessità sull'intesa di massima raggiunta dai vertici dell'italiana Finmeccanica e della inglese BAE Systems per la costituzione di Euro-Systems, cioè di un sistema elettronico di difesa specializzato in C4ISR (Command, Control, Computer, Communications, Intelligence, Surveillance, Reconaissance). Le perplessità erano motivate dal legame della BAE con l'americana Lockheed, legame che avrebbe condotto l'Italia nell'orbita anglo-americana, laddove sarebbe stato preferibile, a parere di alcuni, un accordo con la francese Thales, anch'essa esperta in elettronica per la difesa.
Lo scontro fra poli europei e atlantici è complicato incessantemente da accordi e rivalità trasversali. Ad esempio le fregate spagnole, costruite dai cantieri spagnoli Izar, usano sistemi di combattimento Aegis prodotto dall'americana Lockheed e lo installano anche sulle navi norvegesi loro appaltate. La francese Thales, dal canto suo, deve rivaleggiare con la Lockheed per fornire il suo sistema di combattimento alle fregate sudcoreane.
Senza voler entrare nel merito degli accordi industriali che connotano il settore bellico navale, appare evidente che siamo di fronte ad un decisivo potenziamento e ad una trasformazione delle flotte. Le priorità sono cambiate e al primo posto sono collocate le missioni a lunga distanza e di supporto alle operazione di peacekeeping.
Le flotte hanno bisogno di portaerei, di navi di proiezione, di fregate multiruolo e di bastimenti per la logistica.
Anche l'Italia, che per tutto il periodo della guerra fredda aveva dispiegato un "atlantismo mediterraneo" gestito da una borghesia di frontiera che, protetta dalla sua fedeltà all'Occidente, trafficava copiosamente con l'Oriente, è costretta a rispolverare la sua vocazione imperialistica e per il 2007 attende da Fincantieri la "Cavour", la sua portaerei di 27 mila tonnellate.
Nel frattempo, Taranto, sede di comando NATO (Comitmarfor) già dal 2002, è in predicato per diventare, nei prossimi anni, la sede di una High Readiness Force (Forza navale ad alta prontezza), necessaria alla flotta americana, che dal 2005 si dovrebbe trasferire da Gaeta per dislocarsi in una posizione più avanzata a sud-est da cui poter controllare il Mediterraneo13.

7. Un fossato mediterraneo sta prendendo il posto dell'ormai dissolta cortina di ferro, ed è un fossato che si va riempiendo di mostruose tecnologie belliche e di altrettanto mostruose scorie radioattive. Un vero Mare Monstrum.


1 Cfr. la prima parte, intitolata Guerra, del volume di M. HARDT - A NEGRI, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004.
2 Nella nostra ricognizione ci avvarremo diffusamente dell'articolato intervento di Ph. LE BILLON, The political economy of resource wars, contenuto nel volume collettivo Angola's war economy.The role of oil and diamonds, a cura di J. Cilliers e C. Dietrich, pubblicato dall' Institute for Security Studies, Pretoria, South Africa 2000 (disponibile in rete sul sito www.iss.co.za/Pubs/Books/Angola.html).
3 R. BELLOFIORE, Economia di guerra. Necessità imperiali, in "Guerra & Pace", n. 98, aprile 2003.
4 cfr. A. FANUELE, La NATO e la sicurezza del Mediterraneo, Studi del Comitato Atlantico, disponibile in rete sul sito www.comitatoatlantico.it/files/files/studi.html.
5 Per avere una prospettiva più ampia sui conflitti diffusi a livello mondiale per lo sfruttamento delle risorse è opportuno visitare il sito della ONG Globalwitness, che da tempo indaga e denuncia i legami esistenti tra lo sfruttamento delle risorse naturali e la violazione dei diritti umani (www.globalwitness.org). Altri siti di notevole interesse documentario sono www.peacelink.it, www.antiwar.com, www.transnational.org.
6 J-P. SERENI, Il Sud dimenticato del Mediterraneo, in "Le Monde diplomatique", marzo 2003.
7 F. GHILÈS, Il Sud del Mediterraneo interroga l'Europa, in "Le Monde diplomatique", novembre 2000.
8 L'insistenza sulle analisi di Francis Ghilès, responsabile della rubrica Maghreb del Financial Times dal 1981 al 1995, è motivata dall'osservatorio privilegiato da cui esse sono sviluppate, cioè il prestigioso Institut de la Méditerranée di Marsiglia, del cui comitato scientifico Ghilès è autorevole membro.
9 Cfr. A. TOVIAS, The Euro-Mediterranean Partnership: a View from the South, EU-LDC News, vol. IV, n.1, aprile 1997.
10 R. ALIBONI, Rafforzare le relazioni tra la NATO e il Mediterraneo: una transizione verso il partenariato, Seminario internazionale "Dal dialogo al partenariato. La sicurezza nel Mediterraneo e nella NATO: prospettive future" (Roma, Parlamento - 30 settembre 2002);
disponibile in rete sul sito www.iai.it/pdf/mediterraneo/NATO/Rapporto_Settembre_italiano.PDF
11 NATO and the Mediterranean - Moving from Dialogue to Partnership, intervento del Segretario generale della NATO al "Royal United Service Institute" (RUSI), Londra, 29 aprile 2002.
12 R. ALIBONI, cit., corsivo nostro. Il Dialogo Mediterraneo della Nato (NMD) è stato promosso dalla NATO nel vertice di Bruxelles del gennaio del 1994. Ad esso hanno aderito Egitto, Giordania, Israele, Marocco, Mauritania, Tunisia, Algeria. Nel vertice NATO tenutosi a Madrid nel 1997 è stato costituito anche uno specifico Gruppo di Cooperazione.
13 Cfr. B.F., Finmeccanica tra le linee del riarmo continentale, in "lotta Comunista", gennaio 2003; Cfr. B.F., Industria bellica e difesa europea. Rincorsa sui mari, in "lotta Comunista", novembre 2004.

Examples of key resources involved in wars during the 1990s*
[Riferimenti alle risorse strategiche che hanno motivato le guerre degli anni Novanta]
Country
Integrated resources
Prospective resources
Afghanistan Opium/heroin, emeralds Natural gas and oil route
Algeria Oil  
Angola Oil, diamonds, timber, ivory Oil, uranium
Burma/Myanmar Rubies, timber, heroin Oil
Cambodia Timber, rubies, sculptures Oil
Chad Oil Oil, uranium
Chechnya
Oil route
Colombia Oil, heroin, cocaine, gold, coal, emeralds Oil
Rep of Congo Oil  
DR Congo Copper, cobalt, diamonds, gold
Uranium, Oil, minerals
East Timor   Oil
Indonesia/Aceh Oil  
Iraq/Kuwait Oil Oil
Lebanon Hashish, heroin  
Liberia Iron, diamonds, timber, rubber, drugs  
Mozambique Hydropower, shrimps, ivory, timber Gas
Papua New Guinea Copper  
Peru Cocaine  
Philippines Timber, marijuana  
Senegal (Casamance) Marijuana  
Sierra Leone Diamonds, rutile, bauxite Diamonds
Somalia Bananas, camels  
Sudan Oil, cattle, timber Oil, gold
Turkey/Kurdistan Heroin  
Western Sahara Phosphates  
West Papua/Irian Jaya
(Indonesia)
Copper, timber Oil, hydropower

* La tabella è tratta dal saggio di Ph. LE BILLON, The political economy of resource wars, contenuto nel volume collettivo Angola's war economy.
The role of oil and diamonds, a cura di J. Cilliers e C. Dietrich, pubblicato dall' Institute for Security Studies, Pretoria, South Africa 2000.

gennaio - aprile 2005