1. Un'analisi
della relazione esistente tra il controllo delle risorse naturali e
l'insorgere di conflitti, quando si spinge ad indagare quella forma
particolare di conflitto armato che è la "guerra per le
risorse", deve necessariamente tenere in grande considerazione
la dimensione dello "stato di guerra globale", inaugurato,
a livello planetario e in prospettiva temporalmente indefinita, dalla
"guerra al terrorismo internazionale" promossa dalle coalizioni
guidate dal governo statunitense.
Nell'accezione comune, una "guerra per le risorse" è
un conflitto armato nel quale il controllo e la gestione delle risorse
naturali costituiscono le motivazioni principali della mobilitazione
dei belligeranti. Senza voler ridurre ad una singola ragione la complessità
del fenomeno bellico, quello per il controllo delle risorse può
essere spesso individuato come il fattore trainante di una guerra. Tuttavia,
una categoria interpretativa come quella di "guerra per le risorse"
risulta poco efficace per comprendere la natura costituente della
guerra contemporanea, istitutrice della struttura organizzativa della
società e, allo stesso tempo, garanzia del consolidamento dell'ordine
globale1.
La categoria di "guerra per le risorse", infatti, ci porterebbe
a leggere le guerre contemporanee secondo i criteri della guerra dei
Paesi ricchi contro quelli poveri, o dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri
tra loro, ma, come opportunamente osservano Hardt e Negri, la rilevanza
che una tale lettura avrebbe per i protagonisti, si eclisserebbe qualora
la prospettiva di indagine si volgesse, come è opportuno che
sia, al quadro dell'attuale ordine globale1.
Le "guerre per le risorse" continueranno ad esserci, è
ovvio, ma occorre comprendere che la principale risorsa, oggi, è
proprio la guerra.
2. La categoria di "guerra per le risorse" risulta, del resto,
ambigua, già per il fatto che è estremamente complesso
interpretare quel "per" in relazione alla scarsità
o all'abbondanza delle risorse.
Di solito si è portati a ritenere che le guerre siano legate,
soprattutto, alla scarsità di risorse naturali, laddove occorrerebbe
soffermarsi a riflettere sulle maggiori probabilità che un conflitto
esploda dove ve ne sono in abbondanza. Proviamo a seguire per grandi
linee i due ragionamenti2.
Assumendo la scarsità delle risorse come motivazione dei conflitti,
siamo portati ad immaginare le popolazioni come disponibili, in linea
di principio, a combattere ogni qualvolta si tratta di proteggere quanto
necessita alla propria sopravvivenza. In questa prospettiva, i vari
sistemi sociali sembrano essenzialmente incapaci di adattarsi alla scarsità,
ragion per cui l'esaurimento di risorse, congiunto, in molti casi, a
una rilevante crescita demografica non possono non diventare occasione
di conflitto. Implicitamente, questo ragionamento tende a imputare ai
sistemi sociali, dislocati in ambienti caratterizzati da risorse scarse
o in via d'esaurimento, una sostanziale incapacità di innovazione
o di investimento finanziario in settori alternativi, in grado di generare
un livello sufficiente di ricchezza.
I contro-argomenti addotti, rispetto a questa tesi, puntano ad esaltare
gli alti livelli di innovazione socio-economica e di diversificazione
dell'economia molto spesso raggiunti proprio per ovviare alla scarsità
delle risorse e a un correlato incremento demografico; mutamenti che
finiscono col produrre anche una migliore distribuzione del potere nella
società, dal momento che gli apparati statali, privati delle
rendite scaturenti dalla gestione delle risorse naturali, diventano
sempre più dipendenti dalle entrate provenienti dalla
società, e, di conseguenza, sempre più disponibili a rappresentarla
e a sentirsi responsabile nei suoi confronti.
In sintesi, non dovendo impegnarsi nella protezione della rendita elitaria
connessa alla gestione delle risorse, la politica economica dei Paesi
poveri di risorse può concentrarsi sullo sviluppo e sull'utilizzo
di capitale umano. Queste argomentazioni sono suffragate dal fatto che,
in numerosi casi, l'economia di Paesi poveri di risorse cresce più
velocemente di quella dei Paesi ricchi.
Per quanto attiene agli argomenti che tendono a evidenziare la maggiore
probabilità di conflitto presente nei Paesi con abbondanti, ma
non rinnovabili, risorse, basterebbe ricordare che, nel corso degli
anni Novanta, le guerre si sono combattute, soprattutto, in questi contesti
territoriali [vd. tabella]. L'abbondanza di risorse, infatti, si combina
spesso con alcuni fattori che determinano una maggiore probabilità
di conflitto: il costante deficit di democrazia, la scarsa crescita
economica, il comportamento predatorio delle élites al
potere.
Generalmente associata a prestazioni economiche scarse e a grandi disuguaglianze
socio-economiche, l'abbondanza di risorse naturali può produrre
una serie di perversi effetti economici e istituzionali, che vanno da
una bassa crescita economica, determinata molto spesso dall'abbandono
di settori non immediatamente legati alle risorse disponibili e dal
basso livello di relazioni economiche, a diffuse pratiche di corruzione
nelle istituzioni statali, a una cattiva gestione del bilancio pubblico,
a un alto livello di indebitamento con l'estero, a una alta vulnerabilità
rispetto a interventi esterni, specialmente legati alla quotazione internazionale
delle risorse.
Quando le risorse garantiscono una rendita sufficiente, i governi sono
poco incentivati a sviluppare una diversificazione dell'economia, che
potrebbe far emergere fonti alternative di potere economico, fino a
rafforzare temuti competitori politici. I Paesi in via di sviluppo con
abbondanti risorse, ad esempio, sono spesso caratterizzati da governi
predatori, impegnati unicamente a difendere interessi corporativi, e
da violentissimi conflitti, dal momento che, in assenza di un diffuso
consenso politico, la violenza diventa la principale se non la sola
strada per garantire la ricchezza e il potere delle élites.
In contesti caratterizzati da "abbondanza di risorse" è
possibile, inoltre, registrare guerre di secessione, promosse dalle
regioni più ricche e, naturalmente, ricorrenti interventi stranieri,
promossi da stati, da multinazionali e da mercenari impegnati a sostenere
colpi di stato, frodi elettorali, insurrezioni locali e persino annessioni
manu militari.
Nella prospettiva della "guerra per abbondanza di risorse"
può inscriversi anche l'analisi che Bellofiore sviluppa dell'intervento
anglo-americano in Iraq. L'importanza dell'Iraq, dal punto di vista
energetico, è nota: anche se al momento è al secondo posto
per riserve petrolifere (112 miliardi di barili), rispetto all'Arabia
Saudita (262 miliardi), la scoperta di nuovi giacimenti nel deserto
occidentale (220 miliardi di barili, secondo il Dipartimento dell'Energia
degli USA) gli aprono prospettive egemoniche significative. L'interesse
anglo-americano nell'area non è, quindi, semplicemente dettato
dalla volontà di controllare il prezzo del petrolio, ma è,
soprattutto, determinato dalla necessità di impedire che si radichino
in quel contesto gli interessi delle compagnie russe, francesi e italiane:
"Non interessa solo controllare il prezzo del petrolio, ma soprattutto
tenere in pugno chi più degli USA dipende dal petrolio di quella
zona: Europa e Giappone, per il 30% e l'81%, mentre gli USA ne prelevano
solo il 15%. Sullo sfondo c'è ovviamente la Cina, il temuto gigante
economico del XXI secolo."3. Si tratta,
i fin dei conti, degli stessi obiettivi perseguiti nell'area centro-asiatica
per sottrarre a Russia e Iran il controllo dei "corridoi"
degli oleodotti e dei gasdotti; obiettivi che consentono di spiegare
gli interventi in Kosovo e Afghanistan.
3. Proviamo
ad applicare queste considerazioni generali al Mediterraneo.
Naturalmente non ci avventureremo nella definizione di una "regione
mediterranea". I problemi, a questo proposito, restano ancora quelli
sollevati, quasi sessant'anni fa, dall'opera di Fernand Braudel La
Mediterranèe et le Monde mèditerranèen à
l'èpoque de Philippe II. Tuttavia, pur considerando la scarsa
omogeneità della "grande vita" che pulsa in questo
mondo costellato da comunità unite in modo vario da legami etnici,
culturali, linguistici e religiosi (indo-europei, arabi, ebrei, curdi,
armeni, berberi, sahariani, ecc. ecc.), è opportuno, per gli
obiettivi della nostra analisi, tentare di circoscrivere lo spazio mediterraneo
secondo prospettive geo-strategiche e geo-economiche. In questo caso,
assumendo i bacini marini come riferimento, potremmo delimitare una
regione che si estende dall'accesso di Gibilterra - attraverso
il Mar Mediterraneo e i territori adiacenti, così come dal Mar
Egeo e dal Mar Nero - sino al Caucaso e, attraverso il Canale
di Suez e il Mar Rosso, sino al Medio Oriente. Il Mar Adriatico e i
Balcani costituiscono una componente significativa della regione4.
Se prendiamo in considerazione i conflitti armati esplosi negli anni
Novanta [vd. tabella], ci accorgeremo che nello spazio
mediterraneo, nella ampia definizione geo-strategica e geo-economica
precedentemente offerta, sono presenti tutti i problemi connessi all'abbondanza
di risorse.
I Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, come è evidente,
hanno uno sviluppo economico fortemente condizionato dall'ampia disponibilità
delle risorse energetiche. L'intera regione è, pertanto, influenzata
dall'ascesa o dal ribasso del prezzo del petrolio, e in una fase, come
quella più recente, caratterizzata da un aumento del prezzo,
i benefici della rendita petrolifera, oltre che interessare i paesi
produttori, si spalmano su un territorio più ampio comprendente
Paesi quali la Giordania, la Siria, la Palestina. Non distribuita solo
nella forma dell'aiuto diretto, la rendita petrolifera si diffonde anche
attraverso l'immigrazione.
Gli effetti perversi scaturenti dall'abbondanza di risorse, ovviamente,
non mancano in quest'area. La rendita petrolifera e altri flussi finanziari,
infatti, finiscono con il disincentivare esportazioni non petrolifere,
sostengono spesso irragionevolmente la spesa militare, rafforzano il
ruolo del potere governativo a scapito della società, determinano
l'abnorme espansione delle città costiere e la conseguente devastazione
della costa e dell'habitat marino.
L'ordine regionale, tuttavia, non sembra essere compromesso direttamente
da questioni legate alla disponibilità di risorse, come è
stato nel passato. Del resto, ci si accorge facilmente che la "conflittualità
legata alle risorse" presente nell'area mediterranea è soltanto
una porzione, anche se significativa, di quella diffusa a livello mondiale5.
La posta in gioco appare un'altra.
Nella ridefinizione delle politiche regionali promossa dalla "guerra
al terrorismo internazionale" il Mediterraneo è stato scelto
come il laboratorio nel quale produrre quella grande risorsa rinnovabile
che è la guerra.
In questa prospettiva, guardando alla sponda settentrionale del Mediterraneo,
anche le guerre balcaniche degli anni Novanta, fino all'intervento Nato
contro la Serbia, sono molto di più che "guerre per le risorse":
secessione delle regioni ricche della ex-Jugoslavia, controllo del "corridoio
8", gestione degli straordinari giacimenti di lignite presenti
nel Kosovo.
Ciò non significa, ovviamente, che le risorse non c'entrano più,
ma che il controllo delle risorse e delle popolazioni avviene attraverso
la costruzione di presidi militari che, una volta impegnati nella singola
azione militare, sono pronti a dislocarsi su nuovi scenari bellici allo
scopo di garantire la mondializzazione capitalistica. La "guerra
securitaria permanente" diventa il contenitore e, allo stesso tempo,
l'incubatrice, di quelli che possono sembrare singolari episodi bellici.
4. Un rapporto
col Mediterraneo fondato unicamente sulla sicurezza non poteva, ovviamente,
essere imposto con la forza. C'è stato pertanto bisogno di costruire
le condizioni perché venissero scartate le possibilità
di una partnership equa e solidale. Il momento più evidente
di questa strategia è rappresentato dalla Conferenza di Barcellona
nel 1995.
A Barcellona, l'Unione Europea, fortemente pressata dall'asse Parigi-Roma-Madrid,
ha proposto ai Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo la creazione,
entro il 2010, di una zona di libero scambio, in grado di coinvolgere
i 27 Paesi che si affacciano sulle sponde del bacino mediterraneo. La
Tunisia, la Giordania, il Marocco e l'Algeria sono stati fra i primi
ad accettare la proposta europea. L'accettazione deve essere confortata,
superfluo ricordarlo, da provvedimenti politici volti a ristrutturare
l'economia, a destatalizzare, ad aprire i mercati interni. Insomma,
ciò che si richiede ai paesi della sponda sud è un vero
e proprio aggiustamento strutturale.
Sembrerebbe, tutto sommato, una situazione molto simile a quella proposta/imposta
ai dieci Paesi dell'est europeo da poco entrati nell'Unione. Pur volendo
trascurare, e non è facile, il fatto che ai Paesi del Sud del
Mediterraneo si chiede di traghettare alla liberalizzazione sistemi
economici che, fino a pochi anni fa, erano nazionalizzati e, prima ancora,
colonizzati; ciò che balza immediatamente agli occhi è
il diverso sostegno offerto dall'Unione Europea ai Paesi dell'Est rispetto
a quelli del Sud. Infatti, mentre per i dieci Paesi dell'Est sono stati
stanziati, nel triennio 2004-2006, 40,4 miliardi di euro di sovvenzioni
comunitarie, risorse in ogni caso ritenute insufficienti dai governi
interessati; per i Paesi del sud e dell'est del Mediterraneo l'Unione
Europea ha stanziato, fra il 1992 e il 1998, solo 753 milioni di euro
a titolo di "sostegno all'aggiustamento strutturale", a cui
vanno aggiunti, per il periodo 1995-2000, circa 4,6 miliardi di euro
in donazioni. Per i Paesi del Sud si tratta di stanziamenti irrilevanti:
"È come se - scrive Jean-Pierre Sereni - l'Unione Europea
avesse deciso che, nel Sud, il mercato debba essere lo strumento praticamente
unico del recupero, e che si debba operare senza un aiuto economico
conseguente da parte dell'Unione che ne allevi lo sforzo, mentre per
i Dieci Paesi dell'Europa orientale viene stabilito un rapporto più
equilibrato tra mercato e sovvenzioni"6.
Cinque anni dopo Barcellona, la Quarta Riunione dei Ministri degli
Esteri dell'Unione Europea e dei Dodici Paesi del Sud del Mediterraneo,
tenutasi a Marsiglia il 14 novembre del 2000, ha deciso di portare a
5,5 miliardi di euro le donazioni per il periodo 2000-2005. Come dimostra
Francis Ghilès si tratta di un aumento irrisorio dal momento
che i tempi per incassare si aggirano intorno ai nove anni7.
Altrettanto modesta appare, come soluzione, l'adozione nell'ottobre
del 2002 della FEMIP (Facilità euromediterranea d'investimento
e di partenariato), cioè di una linea di credito di 600 miliardi
di euro all'anno che, dal 2003 al 2006, dovrà finanziare la modernizzazione
e lo sviluppo delle economie dei Paesi del Sud del Mediterraneo. Si
tratta, infatti, come ricorda Sereni, di prestiti che dovranno essere
rimborsati caricandone i costi sui prezzi di produzione.
Un indicatore efficace del benessere dell'economia dei Paesi del sud
del Mediterraneo dovrebbe essere fornito dagli IDE (Investimenti esteri
diretti). Ebbene, quest'area attira appena l'1% dei flussi mondiali
di IDE, pari al 5% di quelli versati ai paesi in via di sviluppo. Secondo
Ghilès, se entro il 2005 la percentuale di IDE non raggiungerà
il 10%, potrebbe verificarsi una rilevante recessione economica, seguita
da rivolte sociali, da irrigidimenti identitari di natura etnico/religiosa,
da grave crisi finanziaria8.
Prende, quindi, sempre più corpo il sospetto che l'approccio
dell'Unione nei confronti del Sud punti a un aumento delle esportazioni
europee in quella direzione, senza che però venga accettato un
aumento dei flussi in senso inverso9. L'esempio
più efficace a questo proposito resta sempre quello del comparto
agricolo.
La politica mediterranea dell'Unione, infatti, tende sostanzialmente
ad imporre ai paesi del Sud l'abolizione dei dazi doganali per i propri
prodotti industriali e, al tempo stesso, a ostacolare un'apertura progressiva
dei propri mercati per i prodotti agricoli del sud. L'esempio dell'olio
d'oliva tunisino è forse il più abusato, ma anche il più
illuminante. Principale prodotto agroalimentare della Tunisia, l'olio
d'oliva è stato fino a qualche anno fa importato in Europa, fuori
dazio, per una quantità pari a 40 mila tonnellate: pressappoco
la stessa quantità che fluiva in Francia, un secolo fa, ai tempi
del protettorato. Oltre questa quantità, incrementata da poco
tempo del 35%, l'olio tunisino viene venduto al prezzo del mercato mondiale,
che è di molto inferiore: salvo poi, come ricorda Sereni, ad
essere rivenduto a prezzi europei con etichetta italiana.
Ritenere gli scarsi stanziamenti, l'irrilevante flusso di IDE, il contingentamento
dell'entrata nel mercato europeo dei prodotti agricoli più competitivi
- per stare ai tre aspetti selezionati - soltanto delle contraddizioni
superabili del rapporto dell'Europa con il Mediterraneo, è
un pericoloso errore. Siamo in presenza, al contrario, di una strategia
in cui quelle contraddizioni tendono sempre più a trasformarsi
in limiti insuperabili, affinché il Mediterraneo diventi esclusivamente
il luogo di "investimenti in sicurezza".
"Il Mediterraneo è un'area di particolare interesse per
l'Alleanza. La sicurezza in Europa è strettamente legata alla
sicurezza e stabilità nel Mediterraneo", queste affermazioni
campeggiano nel Nuovo Concetto Strategico adottato dai Paesi
NATO nel Vertice di Washington del 1999.
5. Fra i tanti documenti utilizzabili per comprendere il nuovo ruolo
del Mediterraneo, ci soffermeremo sulla relazione di Roberto Aliboni
Rafforzare le relazioni tra la NATO e il Mediterraneo: una transizione
verso il partenariato, tenuta il 30 settembre del 2002 al Seminario
internazionale "Dal dialogo al partenariato. La sicurezza nel Mediterraneo
e nella NATO: prospettive future".
La scelta di questo testo non è casuale, ma è determinata
dall'alto valore istituzionale del Seminario in cui esso è stato
proposto, dal momento che si è svolto "sotto l'egida del
Parlamento italiano, in collaborazione con l'Ufficio stampa e informazioni
della NATO e l'Istituto italiano per gli affari internazionali (IAI)"10.
L'apertura dell'intervento di Aliboni è significativa perché
individua nelle sponde meridionali dell'Europa "la fonte più
importante di instabilità per il continente europeo e per l'Occidente
in generale" e nel terrorismo, nelle sue varie manifestazioni,
la ragione profonda di questa instabilità: "Nella regione
del Mediterraneo - afferma Aliboni - oltre al terrorismo nazionale e
religioso, esiste ora una tendenza verso il terrorismo globale".
Si tratta, del resto, delle tesi sostenute nell'aprile del 2002 dal
Segretario generale della Nato e dirette ad individuare le cinque ragioni
che fanno del Mediterraneo un'area di importanza strategica rilevante:
l'instabilità, il terrorismo, il conflitto israelo-palestinese,
la proliferazione delle armi di distruzione di massa, la questione energetica11.
Per quanto attiene all'ultimo punto, è sempre bene ricordare
che il Mediterraneo, pur rappresentando soltanto lo 0,67% delle acque
del pianeta, è il luogo di transito di 1/3 del traffico mondiale
di prodotti petroliferi.
Instabilità e terrorismo diventano, però, anche il fondamento
del rapporto di cooperazione: "La NATO e i governi occidentali
- scrive Aliboni - ritengono che gli Stati della sponda meridionale
del Mediterraneo siano esposti agli stessi rischi e alle stesse minacce
che essi stessi sono chiamati ad affrontare. Pertanto sono dell'avviso
che il margine per la cooperazione nel settore politico e della sicurezza
sia ancora più ampio che nel passato e stanno esaminando le opportunità
per un rafforzamento dei quadri di cooperazione già esistenti,
tra i quali il Dialogo Mediterraneo della NATO (NMD)"12.
Ad Aliboni non sfuggono, ovviamente, le difficoltà che si frappongono
al raggiungimento di un "quadro cooperativo" di questo tipo.
Esse sono raccolte in tre grandi questioni. La prima riguarda naturalmente
il conflitto arabo-israeliano, che impedisce ogni possibilità
di collaborazione nel settore sicurezza fra Israele e i paesi arabi.
La seconda viene fatta risalire a una eredità coloniale difficile
da rimuovere, e che porta ad interpretare la volontà di collaborazione
dell'Occidente come una interferenza. A questo proposito, Aliboni sostiene
che si tratta di "percezioni dell'opinione pubblica" e "percezioni
dei governi". La seconda difficoltà, quindi, più
che un ostacolo reale sarebbe una "deformazione dell'immaginario",
che ha pur sempre il suo peso, come le allucinazioni hanno il loro peso
nella vita dello psicotico. La terza questione riguarda la scarsa inclusività
dei progetti di "cooperazione per la sicurezza" proposti dai
paesi occidentali.
Ciò che sorprende in questo ragionamento è la totale assenza
di una riflessione sulle disuguaglianze economiche, sulla logica predatoria
del mercato occidentale, che di certo sono anche a fondamento delle
prime due difficoltà segnalate. Non si tratta, tuttavia, di una
dimenticanza, ma di una omissione, a nostro parere, voluta. Infatti,
è proprio sulla terza difficoltà che il ragionamento di
Aliboni si concentra, per prospettare una soluzione in cui l'inclusione
dei paesi del Mediterraneo meridionale avvenga non sul campo di pari
opportunità economiche, ma su quello della sicurezza: "L'interesse
dell'Occidente - sostiene Aliboni - a un rafforzamento dei legami con
i paesi del Mediterraneo meridionale, nel campo della sicurezza è
chiaramente motivato in termini di stabilità, governance
internazionale, sicurezza interna e internazionale".
La partnership fra paesi del Mediterraneo meridionale e l'Occidente
non si inscriverà nei progetti dell'Unione Europea, ma in quelli
della NATO.
La soluzione del Segretario generale della NATO, nel discorso già
citato, è chiarissima: "la NATO deve coinvolgere più
da vicino i paesi interessati del Dialogo Mediterraneo in talune attività
del Consiglio per il partenariato euroatlantico". Altrettanto chiare
sono le articolazioni che di questa soluzione prospetta Aliboni: i paesi
mediterranei devono essere sempre più coinvolti nella valutazione
delle tendenze internazionali nel settore della sicurezza, cioè
devono poter discutere, con pari dignità, non solo quanto accade
nel Mediterraneo, ma anche "le tendenze internazionali che interessano
nel senso più ampio la loro sicurezza nazionale e quella della
regione". Una espressione di questo coinvolgimento, ad esempio,
è la partecipazione di militari egiziani, giordani e marocchini
alle operazioni IFOR e SFOR svoltesi in Bosnia.
La cooperazione, più che il pane, riguarderà le armi.
Aliboni, infatti, individua gli ambiti della cooperazione nell'intelligence,
nella gestione delle crisi, nell'istruzione nonché, e questo
merita di essere sottolineato, "in una serie di attività
militari volte in generale a migliorare la fiducia e l'interoperabilità".
Se è legittimo nutrire sospetti sul circolo virtuoso che legherebbe
le attività militari al miglioramento della fiducia, è
fuor di dubbio che esse risultano utili, o meglio, producono utili.
6. Per avere una idea concreta degli utili della "guerra al terrorismo
internazionale" basta semplicemente leggere i resoconti trimestrali
presentati, nell'ultima settimana di ottobre, dai maggiori produttori
americani di armamenti.
La Lockheed Martin (velivoli, veicoli spaziali, sistemi di lancio di
missili, sistemi informatici e gestione dell'energia), al 30 settembre
2004, ha visto crescere i propri utili del 41% rispetto allo stesso
periodo dell'anno precedente; quadruplicando dall'11 settembre 2001
il valore delle proprie azioni.
La Northrop Grumman (sistemi e apparati hi-tech, sistemi e navi a propulsione
nucleare e non nucleare) ha dichiarato una crescita degli utili del
46% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
La General Electric ha evidenziato incrementi del 15% rispetto all'anno
precedente e insieme ad essa sono in forte attivo Pratt e Whitney (motori
aeronautici e sistemi di propulsione per veicoli spaziali) e Raytheon
(sistemi elettronici per la difesa, missili, radar, sensori e apparati
elettrottici, sistemi di intelligence, sorveglianza e riconoscimento).
Il contesto in cui questi dati vanno letti è, ovviamente, quello
degli stanziamenti per la difesa erogati dall'amministrazione Bush;
stanziamenti che vanno dai 307 miliardi di dollari del dopo-11 settembre,
ai 420 miliardi preventivati per il 2005, fino ai 451 miliardi prospettati
per il 2007, per un ammontare totale di 2.144 miliardi di dollari nel
periodo 2002-2007.
Sebbene in un panorama più frazionato rispetto a quello statunitense
anche l'imperialismo europeo si sta attrezzando per gestire al meglio
la risorsa guerra.
Il settore bellico navale offre, a questo proposito, indicazioni significative.
La concentrazione della produzione bellico navale statunitense vede
i principali cantieri navali americani (Steel & Shipbuilding, Advondale,
Bath Iron Works e Newport News) dipendenti per quanto riguarda la sistemistica
da tre grandi aziende: General Dynamics, Northrop Grumman e Lockheed
Martin.
In Europa, nel passato, era prevalsa la tendenza delle marine nazionali
ad affidarsi ai piccoli cantieri di casa e quasi mai a tentare dei programmi
multinazionali.
Ancora alla fine del 2002, ad esempio, si registravano molte perplessità
sull'intesa di massima raggiunta dai vertici dell'italiana Finmeccanica
e della inglese BAE Systems per la costituzione di Euro-Systems, cioè
di un sistema elettronico di difesa specializzato in C4ISR (Command,
Control, Computer, Communications, Intelligence, Surveillance, Reconaissance).
Le perplessità erano motivate dal legame della BAE con l'americana
Lockheed, legame che avrebbe condotto l'Italia nell'orbita anglo-americana,
laddove sarebbe stato preferibile, a parere di alcuni, un accordo con
la francese Thales, anch'essa esperta in elettronica per la difesa.
Lo scontro fra poli europei e atlantici è complicato incessantemente
da accordi e rivalità trasversali. Ad esempio le fregate spagnole,
costruite dai cantieri spagnoli Izar, usano sistemi di combattimento
Aegis prodotto dall'americana Lockheed e lo installano anche sulle navi
norvegesi loro appaltate. La francese Thales, dal canto suo, deve rivaleggiare
con la Lockheed per fornire il suo sistema di combattimento alle fregate
sudcoreane.
Senza voler entrare nel merito degli accordi industriali che connotano
il settore bellico navale, appare evidente che siamo di fronte ad un
decisivo potenziamento e ad una trasformazione delle flotte. Le priorità
sono cambiate e al primo posto sono collocate le missioni a lunga distanza
e di supporto alle operazione di peacekeeping.
Le flotte hanno bisogno di portaerei, di navi di proiezione, di fregate
multiruolo e di bastimenti per la logistica.
Anche l'Italia, che per tutto il periodo della guerra fredda aveva dispiegato
un "atlantismo mediterraneo" gestito da una borghesia di frontiera
che, protetta dalla sua fedeltà all'Occidente, trafficava copiosamente
con l'Oriente, è costretta a rispolverare la sua vocazione imperialistica
e per il 2007 attende da Fincantieri la "Cavour", la sua portaerei
di 27 mila tonnellate.
Nel frattempo, Taranto, sede di comando NATO (Comitmarfor) già
dal 2002, è in predicato per diventare, nei prossimi anni, la
sede di una High Readiness Force (Forza navale ad alta prontezza), necessaria
alla flotta americana, che dal 2005 si dovrebbe trasferire da Gaeta
per dislocarsi in una posizione più avanzata a sud-est da cui
poter controllare il Mediterraneo13.
7. Un fossato
mediterraneo sta prendendo il posto dell'ormai dissolta cortina
di ferro, ed è un fossato che si va riempiendo di mostruose
tecnologie belliche e di altrettanto mostruose scorie radioattive. Un
vero Mare Monstrum.
1
Cfr. la prima parte, intitolata Guerra, del volume di M. HARDT
- A NEGRI, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale,
Rizzoli, Milano 2004.
2 Nella nostra ricognizione ci avvarremo diffusamente
dell'articolato intervento di Ph. LE BILLON, The political economy
of resource wars, contenuto nel volume collettivo Angola's war
economy.The role of oil and diamonds, a cura di J. Cilliers e C. Dietrich,
pubblicato dall' Institute for Security Studies, Pretoria, South Africa
2000 (disponibile in rete sul sito www.iss.co.za/Pubs/Books/Angola.html).
3 R. BELLOFIORE, Economia di guerra. Necessità
imperiali, in "Guerra & Pace", n. 98, aprile 2003.
4 cfr. A. FANUELE, La NATO e la sicurezza del Mediterraneo,
Studi del Comitato Atlantico, disponibile in rete sul sito www.comitatoatlantico.it/files/files/studi.html.
5 Per avere una prospettiva più ampia sui conflitti
diffusi a livello mondiale per lo sfruttamento delle risorse è
opportuno visitare il sito della ONG Globalwitness, che da tempo
indaga e denuncia i legami esistenti tra lo sfruttamento delle risorse
naturali e la violazione dei diritti umani (www.globalwitness.org). Altri
siti di notevole interesse documentario sono www.peacelink.it, www.antiwar.com,
www.transnational.org.
6 J-P. SERENI, Il Sud dimenticato del Mediterraneo,
in "Le Monde diplomatique", marzo 2003.
7 F. GHILÈS, Il Sud del Mediterraneo interroga
l'Europa, in "Le Monde diplomatique", novembre 2000.
8 L'insistenza sulle analisi di Francis Ghilès,
responsabile della rubrica Maghreb del Financial Times dal 1981
al 1995, è motivata dall'osservatorio privilegiato da cui esse
sono sviluppate, cioè il prestigioso Institut de la Méditerranée
di Marsiglia, del cui comitato scientifico Ghilès è autorevole
membro.
9 Cfr. A. TOVIAS, The Euro-Mediterranean Partnership:
a View from the South, EU-LDC News, vol. IV, n.1, aprile 1997.
10 R. ALIBONI, Rafforzare le relazioni tra la NATO
e il Mediterraneo: una transizione verso il partenariato, Seminario
internazionale "Dal dialogo al partenariato. La sicurezza nel Mediterraneo
e nella NATO: prospettive future" (Roma, Parlamento - 30 settembre
2002);
disponibile in rete sul sito www.iai.it/pdf/mediterraneo/NATO/Rapporto_Settembre_italiano.PDF
11 NATO and the Mediterranean - Moving from Dialogue
to Partnership, intervento del Segretario generale della NATO al "Royal
United Service Institute" (RUSI), Londra, 29 aprile 2002.
12 R. ALIBONI, cit., corsivo nostro. Il Dialogo Mediterraneo
della Nato (NMD) è stato promosso dalla NATO nel vertice di Bruxelles
del gennaio del 1994. Ad esso hanno aderito Egitto, Giordania, Israele,
Marocco, Mauritania, Tunisia, Algeria. Nel vertice NATO tenutosi a Madrid
nel 1997 è stato costituito anche uno specifico Gruppo di Cooperazione.
13 Cfr. B.F., Finmeccanica tra le linee del riarmo
continentale, in "lotta Comunista", gennaio 2003; Cfr. B.F.,
Industria bellica e difesa europea. Rincorsa sui mari, in "lotta
Comunista", novembre 2004.
Examples
of key resources involved in wars during the 1990s*
[Riferimenti alle risorse strategiche che hanno motivato le guerre degli
anni Novanta]
Country |
Integrated resources |
Prospective resources |
Afghanistan |
Opium/heroin, emeralds |
Natural gas and oil route |
Algeria |
Oil |
|
Angola |
Oil, diamonds, timber, ivory |
Oil, uranium |
Burma/Myanmar |
Rubies, timber, heroin |
Oil |
Cambodia |
Timber, rubies, sculptures |
Oil |
Chad |
Oil |
Oil, uranium |
Chechnya |
|
Oil route |
Colombia |
Oil, heroin, cocaine, gold, coal, emeralds |
Oil |
Rep of Congo |
Oil |
|
DR Congo |
Copper, cobalt, diamonds, gold
|
Uranium, Oil, minerals |
East Timor |
|
Oil |
Indonesia/Aceh |
Oil |
|
Iraq/Kuwait |
Oil |
Oil |
Lebanon |
Hashish, heroin |
|
Liberia |
Iron, diamonds, timber, rubber, drugs |
|
Mozambique |
Hydropower, shrimps, ivory, timber |
Gas |
Papua New Guinea |
Copper |
|
Peru |
Cocaine |
|
Philippines |
Timber, marijuana |
|
Senegal (Casamance) |
Marijuana |
|
Sierra Leone |
Diamonds, rutile, bauxite |
Diamonds |
Somalia |
Bananas, camels |
|
Sudan |
Oil, cattle, timber |
Oil, gold |
Turkey/Kurdistan |
Heroin |
|
Western Sahara |
Phosphates |
|
West Papua/Irian Jaya
(Indonesia) |
Copper, timber |
Oil, hydropower |
*
La tabella è tratta dal saggio di Ph. LE BILLON, The political
economy of resource wars, contenuto nel volume collettivo Angola's war
economy.
The role of oil and diamonds, a cura di J. Cilliers e C. Dietrich, pubblicato
dall' Institute for Security Studies, Pretoria, South Africa 2000.
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gennaio - aprile 2005 |