La fine delle grandi narrazioni
di Mario Centrone

Thomas Kuhn, il famoso epistemologo americano, ha introdotto nella storia della scienza la dicotomia paradigmatica fra scienza normale e scienza rivoluzionaria.
Gli scienziati normali sono come i tecnici di laboratorio; non mettono mai in discussione i codici epistemici usati dalla comunità scientifica in cui operano.
Si impegnano, scrivono articoli, partecipano a congressi, qualcuno ha imparato perfino l’inglese con un corso intensivo ad Harvard, ma non osano mai problematizzare i codici di comportamento e gli strumenti interpretativi usati in un particolare momento storico.
Lindi e pettinati, ben lustrati, a volte impomatati.
Impomatati anche al lunedì dopo la coda estenuante della domenica precedente ai caselli autostradali per il mesto rientro dalla passeggiata ai laghi.
La maggior parte scrive ormai manuali di software integrato e la loro gestualità è stata ridotta alla assurda, automatica digitazione.
Indubbiamente vi è stata una escalation nella società occidentale dalla parola parlata, alla parola scritta, alla parola digitata. Quanto più la parola si allontanava dalla sua origine, la voce, tanto più si disponeva ad un uso commerciale, diventava più commerciabile. J.J. Rousseau aveva prefigurato la fine, la morte del canto nella spazializzazione della scrittura: il canto come emersione della parola viva o rapporto con l’assoluto si spazializza in ritmia e scrittura.
“In terra meridionale i primi discorsi furono canti d’amore, in terra settentrionale la prima parola non fu amami, ma aiutatemi” (J.J.Rousseau) Al Sud sorsero prima i canti e le lingue d’amore, le lingue della passione, mentre la lingua del Nord nacque dal bisogno. Il luogo originario per la genesi della lingua è stato il mezzogiorno del pianeta dove il rapporto referenziale con gli oggetti è ancora saldamente istituito dal rapporto sentimentale, mentre le lingue settentrionali si articolano sin dall’inizio nella dimensione dello scambio. Parlare per ottenere prestazioni, parlare per asservire, parlare per controllare, parlare per irregimentare, parlare e scrivere per normalizzare. Le varianti morfologiche e noematiche hanno sotteso robusti processi di riorganizzazione politica e sociale sia nel mondo greco che nel decennio della solitudine e della indifferenza, gli anni novanta. Lo sviluppo dell’Occidente è stato caratterizzato dalla sostituzione del canto con la filosofia, della libertà politica con la schiavitù, della voce con la scrittura, della libertà di esprimersi con il controllo sociale, della periferia con il centro, degli emarginati con i potenti. Bisognava introdurre linguaggi rigorosamente referenziali che parlassero del quotidiano delle metropoli, dei fatti delle metropoli, che fossero veicolati nelle metropoli. Le periferie dell’impero venivano sempre più a configurarsi come territori da conquistare, da colonizzare, da ricondurre all’ordine e all’obbedienza.
Il Nord e la metropoli, il Nord è la metropoli.
Ma il linguaggio nasce dalla passione, dalla possibilità di dire ‘ci sono’, ‘esisto’. Quanto più una lingua tende alla articolazione, tanto più si rende disponibile al controllo, alla morte, alla scrittura, alla normalità. “In effetti più una lingua è articolata, più l’articolazione vi estende il suo dominio, vi guadagna in rigore e in vigore, più essa si presta alla normalizzazione “. (J. Derrida)
La storia della scienza, come la storia della tecnica, sono caratterizzate da questi lunghissimi periodi di normalità.
Sul versante dell’alta cultura l’operazione è stata legittimata dagli ostracismi dati da Sir K. Popper alla miseria della cultura continentale condensatasi nello storicismo italiano e tedesco (Miseria dello storicismo) e dalle invettive dei neo-contrattualisti nostrani (quarda caso lavorano tutti a Milano e dintorni!) contro i concetti di strategie di massa, classismo della conoscenza, contro la stessa possibilità di pensare una scienza alternativa. L’epoca delle narrazioni è finita; al suo posto è subentrata una moltitudine di giochi linguistici; il gioco linguistico della politica, il gergo linguistico dei media, il gioco/giogo linguistico dei mercati finanziari. Sul controllo di essi si sta svolgendo la partita fra gli Stati-nazione e le holdings preposte al dominio delle informazioni.
Nelle società opulente la radicalità contestativa dei movimenti viene regolarmente riassorbita nelle fasi di ridefinizione del sistema, mentre nelle società del blocco ex-comunista essa è stata sistematicamente perseguitata.
Nella società post-moderna il sapere ha perduto il carattere di formazione dello spirito (Bildung) per acquisire la forma di accumulazione operativa di conoscenze da inserire nelle banche dati1. Nella forma di merce-informazione esso è destinato a diventare sempre più uno dei principali territori di competizione a livello mondiale attraverso una decisiva subordinazione alla logica del potere e del comando sociale. Linguaggi e società sono attraversati dagli stessi movimenti performativi lasciando ai soggetti la cura di sè. “Ognuno è rinviato a sè. Ma ognuno sa che questo sè è ben poco.”2 Nella crisi delle narrazioni la performatività si traduce in codice di comportamento e aderenza alle regole del gioco; si parla per ottenere delle variabili controllate o soggetti affidabili da inserire nei ranghi, nelle gerarchie.
La narrazione, la meta-narrazione dell’Occidente è stato il pensiero metafisico; ad esso corrispondevano blocchi sociali coesi anche se contrapposti. La grande epoca dello storicismo si è espressa in un robusto protagonismo delle classi sociali; in essa si condensavano istanze di rinnovamento e di trasformazione, linee di fuga, strategie di liberazione.
La performatività del discorso narrativo si traduceva in richiesta di egemonia, la possibilità del passaggio del potere da una classe all’altra.
Le rivoluzioni sono state l’insediamento violento di un nuovo potere egemonico rispetto a quello precedente. La Rivoluzione francese, la Rivoluzione sovietica, la Rivoluzione culturale cinese furono la manifestazione dell’onda lunga delle meta-narrazioni, l’imporsi di nuove visioni del mondo. Nello stesso periodo accanto al discorso narrativo si collocava il discorso scientifico; nella sua grafica diventava prioritario il rapporto con l’oggetto, con il referente nonchè la dimensione veritativa. Se il potere politico si affidava ancora alla narrazione, il nuovo potere scientifico e tecnologico aveva come principale scopo l’aderenza ai fatti, la conoscenza della realtà. Nell’epoca post-moderna l’assorbimento infra-linguistico degli oggetti e delle polarità tematiche; la perdita dei referenti sta progressivamente introducendo elementi di perfomatività anche nel discorso scientifico, rendendo sempre più urgente la necessità di un suo controllo politico e la formazione di una nuova classe egemone; la scienza sta diventando controllo sulla scienza e sui suoi profili paradigmatici. “La classe dirigente è e sarà quella dei decisori. Già adesso essa non è più costituita dalla classe politica tradizionale, bensì da uno strato eterogeneo formato da capi di impresa, da dirigenti di grandi organizzazioni professionali, sindacali, politiche, confessionali.”3
Sul piano sociale si presentano masse composte di atomi individuali, i loro volti smarriti, le folle solitarie; l’individuo è diventato il punto di incrocio di una molteplicità di giochi linguistici in cui svolge secondo le circostanze il ruolo di referente, proponente ed interlocutore. Il sapere narrativo ha dominato il pensiero del Novecento; nel suo contesto erano contemplati non solo enunciati denotativi di solito affidati al sapere scientifico, ma anche enunciati prescrittivi, estetici, comportamentali; in questo senso il sapere narrativo si è identificato con la cultura di un popolo, con il suo costume, la sua visione del mondo. La maggior parte dei teorici concorda sul fatto che il sapere narrativo è alla base del sapere tradizionale e che gli stessi meccanismi di trasmissione di questo sapere erano concentrati sulla figura del maestro, del pedagogo, dell’uomo di cultura, dei grandi intellettuali.
In questa forma di sapere venivano ad intrecciarsi una molteplicità di giochi linguistici che aprivano la possibilità di spiazzamenti, comportamenti polimorfi che venivano poi unificati in un progetto, in una politica. Contrariamente al sapere narrativo il sapere scientifico ha sempre privilegiato asserti referenziali, in cui i valori denotativi svolgevano un ruolo determinante. Si è esperti o sapienti se si proferisce un enunciato vero rispetto ad un referente.
“Questo sapere viene così a trovarsi isolato dagli altri giochi linguistici che concorrono a formare il legame sociale; diviene una professione e dà origine a delle istituzioni.”4 All’interno di queste istituzioni si pone il problema della trasmissione di questo sapere per formare nuove competenze. Gli scienziati istruiscono i nuovi reclutati sulla base del patrimonio di conoscenze acquisito durante i secoli.
La cooptazione nel nuovo segmento sociale, nella comunità scientifica, avviene aderendo ai paradigmi dominanti. Nel rapporto dialettico fra sapere narrativo e sapere scientifico un ruolo importante è rappresentato dal problema della legittimazione. Nell’epoca moderna la legittimità del sapere narrativo si iscrive nel protagonismo del Terzo Stato e nel suo processo di affrancamento dai poteri tradizionali (Chiesa e Impero). Tutto quello che si è manifestato nel cultura rinascimentale ed umanistica, le istanze umanistiche ancora presenti nel secolo dei Lumi si sono condensate nella Grande Narrazione dell’Occidente. In nome del popolo e della umanità venivano affossati vincoli ed istituzioni feudali, rimosse e perseguitate le vecchie forme dello schiavismo e del vassallaggio, si definivano nuove istituzioni, l’inizio dei regimi costituzionali.
Lyotard propone due grandi versioni di narrazione legittimante; la prima è quella che ha per soggetto l’umanità rappresentata come eroe della libertà. “Tutti i popoli hanno diritto alla scienza. Se il soggetto sociale non è anche soggetto del sapere scientifico, ciò avviene perchè preti e tiranni lo hanno impedito. Il diritto alla scienza deve essere riconquistato.”5
La seconda narrazione legittimante del mondo moderno è rappresentata dal dibattito relativo all’insediamento della Università tedesca negli anni fra il 1807 e il 1810. Si trattava di definire il rapporto del Sapere rispetto allo Stato e di rivendicarne l’autonomia. In questo caso l’elemento di legittimazione non è il popolo o umanità, ma lo Spirito che si presenta come principio originario in grado di unificare dimensione teoretica e dimensione pratica. La grande funzione a cui in questa fase le Università devono adempiere consiste nell’esporre l’insieme delle conoscenze ed esplicitare contemporaneamente i principi e i fondamenti di ogni sapere perchè non esiste capacità scientifica creatrice senza spirito speculativo.6 Le università devono tendere a unificare il sapere frammentato impartito nelle scuole superiori per conseguire la totalità. L’Enciclopedia dello Spirito di Hegel fu questo poderoso tentativo di unificazione dei saperi, già fra l’altro annunciato nei sistemi filosofici di Fichte e Schelling.
“In questa prospettiva, il sapere trova la sua legittimità prima di tutto in se stesso, è lui che può dire cosa sia lo Stato e cosa sia la società. Ma può interpretare questo ruolo solo mutando, per dir così, di grado, abbandonando la sua natura di conoscenza positiva del proprio referente (la natura, la società, lo Stato, ecc.) per diventare il sapere dei saperi, sapere speculativo. Col nome di Vita, di Spirito, è se stesso che nomina.”7
Vi è stato un altro grande esempio di narrazione legittimante nel corso dell’Ottocento e per tutto il Novecento rappresentato dal marxismo e dal capovolgimento in esso operato della dialettica hegeliana. Lo Spirito speculativo viene sostituito dal proletariato e la dimensione emancipativa del Sapere viene affidata al Materialismo dialettico. Non è il caso di considerare le degenerazioni in cui possono inserirsi lo stalinismo o il discorso heideggeriano sul primato del popolo tedesco, resta tuttavia il fatto che queste due meta-narrazioni, l’emancipazione o totalizzazione dello Spirito-Soggetto e quella della Classe operaia hanno costituito i due poderosi punti di riferimento della cultura occidentale e ad essi si ispiravano processi di riforma delle istituzioni scolastiche, strutture degli stati e del contesto sociale. Nell’ultima fase del secolo, nell’epoca post-moderna, il sapere narrativo ha perso la sua importanza; questo declino è in parte dovuto alla pervasiva diffusione di una civiltà dei mezzi rispetto a quella dei fini, all’imporsi del capitalismo liberale dopo la battuta d’arresto del ‘29 e l’avvio delle politiche keynesiane, all’avvento della società dei consumi, alla proliferazione dei saperi positivi che non richiedono più come base di legittimazione il sapere speculativo. “La gerarchia speculativa delle conoscenze lascia il campo ad una rete immanente e per così dire piatta di investigazioni le cui rispettive frontiere sono in continuo movimento.”8
I saperi pratico-operativi non hanno bisogno di legittimazione; esistono, servono a qualcosa, in questa è la loro legittimazione; legittimazione pratica, legittimazione operativa. Nell’Occidente capitalistico si viene così a creare una forma di dualismo fra le università ancora organizzate nella trasmissione del sapere tradizionale e i nuovi centri di ricerca, i nuovi dipartimenti strettamente connessi al mondo dell’industria e della produzione in cui il nuovo positivismo diventa la prospettiva dominante. Del resto questa duttilità operativa dei linguaggi era stata già avvertita da pensatori come Carnap e Wittgenstein. Il primo con il principio di tolleranza ( in logica non esiste morale, ognuno può usare il linguaggio che crede purchè ne esibisca le regole ), il secondo con il finitismo delle ultime proposizioni del Tractatus . “Lo stesso soggetto sociale sembra dissolversi in questa disseminazione di giochi linguistici. Il legame sociale è linguistico, ma non è fatto di un’unica fibra.”9 Si assiste ad una frammentazione dei linguaggi e alla impossibilità di inquadrarli in un meta-linguaggio universale.
“Nessuno parla tutte queste lingue, esse non ammettono un metalinguaggio universale, il progetto del sistema-soggetto è fallito, quello emancipativo non ha nulla da spartire con la scienza, siamo immersi nel positivismo delle singole conoscenze particolari, i sapienti sono divenuti scienziati, le mansioni del lavoro di ricerca si sono moltiplicate in mansioni parcellizzate che nessuno è in grado di padroneggiare.”10
In questo contesto bisogna collocare la taylorizzazione del lavoro intellettuale con il congiunto problema del dualismo fra settori ad alta produttività e specializzazione e settori addetti all’addestramento di lavoratori intellettuali con una generica formazione di base. Se il criterio della ricerca è diventato la produttività, risultano vincenti i dipartimenti in cui viene elaborato il maggior numero di linguaggi; linguaggi pratici, operativi, linguaggi-macchina che riescono ad assorbire nell’hard system mansioni precedentemente affidate agli utenti.
“I giochi linguistici della scienza diventano giochi dei ricchi, in cui il più ricco ha più probabilità di aver ragione. Si delinea una equazione fra ricchezza, efficienza, verità.”11
Un prodotto-linguaggio è utile se è commerciabile, se viene venduto sul mercato, se diventa competitivo. Allo stesso modo un istituto di ricerca diventa egemone se riesce ad elaborare un numero sempre più consistente di linguaggi.
I rapporti di forza diventano in tal modo l’elemento dominante all’interno delle comunità scientifiche. Gli enunciati acquistano un maggior valore di performatività quanto più alto è il livello di informazioni che riescono a produrre. I riflessi di questo stato di cose sui processi formativi tendono a garantire una crescente performatività dell’intero sistema; da questo punto di vista le richieste del mercato saranno orientate ad assorbire tecnici addestrati alla elaborazione e all’uso dei linguaggi informatici (cibernetici, linguisti, matematici, logici). Anche il tipo di utenza a cui gli istituti universitari si rivolgono è destinato a cambiare; non si tratta più di addestrare studenti liberal e farne portatori di istanze di liberazione universale, ma tecnici da inserire in mansioni altamente produttive. Anche il sapere non verrà trasmesso in blocco e una volta per tutte, ma distribuito durante il processo lavorativo con possibilità di avanzamento nelle gerarchie. La funzione del docente in questo nuovo contesto va indubbiamente ridefinita: se il sapere può essere ottenuto collegandosi ad una banca dati, la lezione classica condotta a viva voce dal docente è destinata a scomparire.
“La pedagogia non ne dovrà necessariamente soffrire, chè in ogni caso bisognerà insegnare qualcosa agli studenti; non i contenuti, ma l’uso dei terminali, cioè dei nuovi linguaggi da una parte e un uso più raffinato del gioco linguistico interrogativo; dove indirizzare la domanda, vale a dire qual’è la memoria pertinente per ciò che si vuole sapere.”12
La delegittimazione e il prevalere della performatività suonano a morte per l’era del professore : costui non è più competente delle reti di memoria per la trasmissione del sapere stabilito, nè è più competente delle èquipes interdisciplinari per inventare nuove mosse o nuovi giochi.13
Bisogna inventare nuovi giochi; in politica, nella scuola, nelle università, nella vita quotidiana. La stabilità del sistema, la sua performatività come la chiama Lyotard, sta producendo numerose vittime; morti non registrate, sguardi spenti, i mille volti smarriti, le folle solitarie.

1 “L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione (Bildung) dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso.” F. Lyotard, La condizione postmoderna , Feltrinelli, Milano 1981, p.12
2 F .Lyotard, op. cit., p. 31
3 F. Lyotard, op. cit., p. 31
4 F. Lyotard, op. cit., p. 49
5 F. Lyotard, op. cit., p. 59
6 F. Lyotard, op. cit., p. 62
7 F. Lyotard, op. cit., p. 64
8 F. Lyotard, op. cit., p. 72
9 F. Lyotard, op. cit., p. 74
10 F. Lyotard, op. cit., p. 75
11 F. Lyotard, op. cit., p. 82
12 F. Lyotard, op. cit., p. 93
13 F. Lyotard, op. cit., p. 98

gennaio - aprile 2005