Infrastrutture e sviluppo sostenibile
di Massimo Veltri

In quanto senatore della Repubblica, nella passata legislatura, ho dovuto in diverse occasioni affrontare il tema delle infrastrutture, inserite nel contesto ampio e quanto mai attuale della sostenibilità. Quali che siano l'approccio che si intende seguire e l'angolazione che si sceglie, occorre almeno una premessa.
Infrastrutture, da intendersi come strutture, insediamenti, realizzazioni 'fra' qualcosa, strumenti e mezzi che collegano, in termini e con riferimenti diversi, realtà sparse sul territorio: o cos'altro? Di certo, l'accezione più diffusa e ancora valida, non fosse altro per motivi etimologici, conserva una sua validità gnoseologica, ma non è in grado di evocare tutta la gamma di possibili e potenziali significati e ricadute. Per un verso, non spiega le ragioni e le priorità della loro realizzazione, se non si sceglie prima o contestualmente quali insediamenti promuovere o privilegiare, in virtù di vocazioni territoriali individuate e selezionate, che vanno, appunto, infrastrutturate, con il rischio, altrimenti, di avere monconi eseguiti a metà e non fruibili e, per converso, desolanti cattedrali nel deserto. E, d'altro canto, richiama un generico adeguamento di standard, di fronte a gap e ritardi, e inaggettivate, e quindi vacue, modernizzazioni.
Non c'è dubbio che questa seconda opzione potrebbe, da sola e di per sé, rispondere a reali e non eludibili domande di promozione sociale ed economica, oltre che di equilibrio territoriale in termini di dotazioni almeno minime, per non parlare di virtuosi circuiti keynesiani derivanti dalle intraprese infrastrutturali. Ma, soprattutto in presenza di realtà in cui è possibile introdurre, con attendibilità e accettabile contezza previsionale, ricadute rilevanti ed elementi di crescita e di programmazione flessibile, risulterebbe molto parziale una scelta derivante solo dall'opzione 'adeguamento di standard comunque', mentre le opportunità che a questa si accompagnano, qualora s'introduca una scelta legata allo sviluppo e alla valorizzazione produttiva di fasce territoriali vocate, risultano di gran lunga più allettanti e perciò da privilegiare.
Infrastrutture, quindi, intese come opere non solo di collegamento, di mobilità e di convogliamento di beni economici, materiali e immateriali che siano, ma anche come azioni di intervento attivo in ambiti territoriali che presentano particolari emergenze. Accanto, così, alle reti trasportistiche - su gomma, su ferro, via aria e su acqua - e alle loro intermodalità, acquistano sempre maggiore rilevanza altre reti, più o meno imposte, e comunque rese necessarie nelle società industriali e postindustriali di oggi. Reti acquedottistiche, di approvvigionamento, raccolta, regolazione e distribuzione; impianti di trattamento delle acque reflue e impianti di smaltimento e riutilizzo dei rifiuti solidi; impianti di desalinizzazione delle acque marine; interventi volti alla bonifica di siti inquinati e dismessi, alla messa in sicurezza di aree soggette a rischi idrogeologici, al controllo di movimenti franosi, previsione e prevenzione delle piene; politiche contro la desertificazione; politica delle coste in termini antierosivi e di azioni sia contro l'inquinamento che contro l'inclusione del cuneo salino; tutela delle acque sotterranee e controllo delle falde; ma anche reti energetiche e impianti di coltivazione e distribuzione delle risorse primarie, e anche, e soprattutto, reti telematiche e informatiche: quelle, cioè, che segnano in misura ormai prioritaria il grado di maturità tecnologicamente avanzata di un territorio.
Procedere su base induttiva, sulla scorta magari di paradigmi generici non sufficientemente elaborati e fatti propri, ma importati acriticamente da esperienze di settore e non d'insieme, da altri contesti e da altre realtà, potrebbe risultare riduttivo e perciò inefficace. Muoversi, invece, dopo un'attenta ricognizione di risorse, una vigile, moderna e sofisticata lettura del territorio - penso alle cartografie tematiche computerizzate, ai Gis, ai Sit -, un'articolata e argomentata cornice di opportunità praticabili, può essere il modus attraverso il quale coniugare modernità, sviluppo e rispetto dei patrimoni naturali, dentro una griglia di priorità attentamente selezionata.
In Italia, fino a qualche anno fa non c'era documento in cui ossessivamente - e qualche volta anche a sproposito - non venisse riportato il termine 'programmazione'. Poi ci si è resi conto che una fin troppo rigida concezione dello Stato, una visione eccessivamente burocratica e vincolistica degli apparati pubblici, un voler 'mettere le braghe alla storia', con cultura dirigistica e deterministica, non funzionava, semplicemente non dava risposte, ma addirittura risultava d'intralcio: era, insomma, l'antipolitica, con tutto quello di negativo che ciò comporta. Recentemente è stata abbracciata la cultura della flessibilità e della deregulation, della liberalizzazione e del procedere per comparti. Anche in questo caso l'esito è sotto gli occhi di tutti, almeno di quelli che vogliono vedere: scempi territoriali, pianificazioni, ancorché agili, inesistenti, prevalere di lobbies, un senso comune e collettivo fortemente affievolito, l'oggettiva esaltazione di culture darwinistiche, il mercato eletto a momento decisionale.
Ultimamente si avvertono segnali consistenti, frutto essenzialmente di elaborazioni in sede di Unione Europea, indirizzate in pratica alle politiche di settore: idrico, idrogeologico, agronomico, ambientale, urbanistico, paesaggistico, energetico e così via. Politiche modulabili attraverso piani integrati, improntati, com'è giusto, alla flessibilità e all'aggiornabilità: una sorta di programmazione 'per progetti', che deve essere comunque, a mio parere, ancora esplorata e verificata fino in fondo. Che senso e quali risultati producono, infatti, piani di bacino idrogeologici, piani di utilizzo delle acque, piani di trattamento dei rifiuti, strumenti urbanistici, piani d'assetto agro-forestale, piani di sviluppo dei parchi naturali, e così via, se non c'è una visione di sistema, che li renda uno congruente all'altro, e non, come spesso si verifica, scollegati fra loro, a volte non compatibili, spesso sovrapponibili, in taluni casi addirittura contraddittori? Com'è possibile che un piano d'aria vasta, o solo un piano regolatore, si occupi prevalentemente, esclusivamente si può dire, di edificabilità e di aree urbane o urbanizzabili, decontestualizzando i comparti periferici a vocazioni produttive in termini di settore primario e quasi rimuovendoli, censurandoli? è possibile, perché la legislazione, la cultura sottesa direi, era ed è, in materia, figlia dell'urbanizzazione, della rendita fondiaria, di un modello di società, organizzata o meno, a livello di comunità o fortemente atomizzata poco importa, che vedeva e vede l'esodo verso le grandi concentrazioni delle città e delle metropoli, l'abbandono delle aree interne, il sacrificare non solo risorse e comparti, ma stili di vita e modelli di società che avevano fornito l'imprinting delle società europee.
Ma i nodi, come si dice, vengono al pettine, così che - accanto ai mostruosi, invivibili e ingestibili contenitori di cemento delle megalopoli, scarsamente, inadeguatamente infrastrutturate e servite, di fronte ad una domanda energetica crescente in misura esponenziale - si affacciano dinamiche che sia l'Unione Europea sia l'ONU stanno da un po' di tempo sottoponendo criticamente all'esame dei decisori politici ed economici degli stati nazionali. Non parlo qui esplicitamente della Conferenza di Rio de Janeiro, del Protocollo di Kyoto, della Sessione sullo sviluppo sostenibile dell'ONU a New York, delle numerose conferenze internazionali sui cambiamenti climatici, sugli insediamenti umani, sullo sviluppo sostenibile, sulle risorse idriche, tenutesi negli ultimi anni a Recife, a Manila, a Buenos Aires, a Parigi, a Torino, a Marrackesch, a l'Aja. Né farò riferimento alle fortissime resistenze che i paesi più industrializzati oppongono in direzione di una revisione delle politiche energetiche per fronteggiare cambiamenti climatici, effetto serra, malattie e avanzamento dei deserti, o, per converso, alla crescente e del tutto legittima domanda dei 'paesi in via di sviluppo' di far parte a pieno titolo del 'club dei potenti'. Sarà sufficiente ricordare due conclusioni contenute in atti inoppugnabili. La prima, di fonte Croce Rossa Internazionale, riporta il dato agghiacciante secondo il quale negli ultimi dieci anni le vittime dovute a catastrofi 'naturali' (si dice, impropriamente, ancora così!) sono in numero di gran lunga superiore a quello causato da conflitti bellici. La seconda, di fonte ufficiale UE, è che nei prossimi dieci anni la superficie agraria utilizzabile (SAU) nei paesi membri sarà di oltre il quaranta per cento inferiore rispetto a quella attuale, con conseguenze economiche e produttive, ma anche e soprattutto di assetto e di difesa del suolo, di conservazione di ecosistemi e di biodiversità, di opposizione alla desertificazione, di diminuzione dei 'polmoni verdi', di manutenzione minuta e capillare di poderi, valli, pendici, montagne e corsi d'acqua, assolutamente, drammaticamente pesanti.
Il fatto è che con l'ambiente, finora, si è scherzato - mi si passi il termine - fin troppo, e da più parti. Da chi, da santone integralista pensava - pensa ancora? - di fermare le lancette del tempo, proponendo - è difficile dire quanto in buona fede - di bloccare pauperisticamente sviluppo e crescita. Ma soprattutto da chi voleva e vuole imporre modelli imperialistici di sfruttamento indiscriminato di risorse, con nessuna cautela, se pur minima, nei confronti della irriproducibilità dei beni, dell'inquinamento, delle malattie, dello sconvolgimento di equilibri sensibilissimi e millenari, dell'esclusione crescente di oltre la metà della popolazione del pianeta da un assetto minimo di sopravvivenza.
Jared Diamond, 'Premio Pulitzer' per la saggistica, dimostra con uno studio multidisciplinare, in "Armi, Acciaio e Malattie", come la storia del mondo e dei popoli sia nient'altro che il frutto di condizioni e di condizionamenti ambientali, e quanto l'uomo possa vincere o cavalcare, esasperandole, situazioni date, assunte come strutturali.
Ora siamo, però, come dice Reneè Thom nella sua "Teoria delle catastrofi", in corrispondenza di una cuspide, un punto cioè di svolta, di discontinuità, al quale ci rimanda dall'alto del suo magistero anche Papa Giovanni Paolo II: il sistema, così com'è andato configurandosi, non regge più, né bastano gli ultimi, ennesimi allarmi. Occorre passare al fare, non lasciandosi irretire da un malinteso e distorto concetto di modernità, di opulenza e di ricchezza espansiva senza limiti. Molto semplicemente così non è, e qualsiasi sistema, in prossimità di uno stato di crisi, trova sempre un nuovo equilibrio; in tempi più o meno ravvicinati, ma lo trova. Solo che, ce lo ricorda Paul Buchanan in "Ubiquità", questo equilibrio non è indifferente alle azioni che nel frattempo si pongono in essere. Dipende dai tempi, dalle modalità, dall'ammontare di queste azioni, altrimenti rischiamo di consegnare a noi stessi, prima ancora che ai nostri figli, un pianeta sconvolto e più povero.
Occorre perciò rischiare, con misure coraggiose, e in qualche misura controcorrente rispetto alla domanda di benessere effimero che avanza da parte delle popolazioni delle società opulente, per porre un argine e un freno. Ma d'altronde - ce lo dice così bene Max Weber - se la politica non rischia, non è, e se la politica non è, vince la corporazione, la legge del più forte, l'assenza di una prospettiva comune. E se Serge Latouche afferma che la cifra più evidente delle moderne società occidentali è la convivenza con il rischio, derivante da una molteplicità di fattori, e in più campi, tornano alla mente le parole di Hölderlin: "Quando è in prossimità del pericolo l'uomo scopre la sua possibilità di rinascere".
S'era fatto molto in campo ambientale, nelle due ultime legislature in Italia, con iniziative d'origine sia governativa che parlamentare, in ambito nazionale, europeo e mondiale. Grandi opere, sì, ma corredate da valutazioni d'impatto ambientale e criteri di sostenibilità economico-funzionale, oltre che ambientale; un interesse particolare verso la bonifica e la dismissione dei siti inquinati e contaminati; grande attenzione legislativa e finanziaria per la difesa del suolo; normativa d'avanguardia sui rifiuti e sulla qualità delle acque; lotta all'inquinamento elettromagnetico e all'effetto serra; riduzione delle perdite nelle condotte d'adduzione dell'acqua e piani per l'approvvigionamento, lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse idriche; drastica semplificazione nelle procedure e passaggio da un impianto dirigistico di controllo, a uno di spesa compatibile; estensione delle aree naturali protette viste come agenzie per lo sviluppo e non come simulacri intangibili; individuazione e messa in evidenza di incongruenze, sovrapponibilità e insufficienze dei numerosissimi piani di settore, di cui dicevo prima, e avvio di una fase di rivisitazione e soluzione. In quest'ultimo caso, per esempio, solo due anni fa, nel cosiddetto 'decreto Soverato', emanato dal Governo a seguito dell'alluvione in Calabria, è stata finalmente introdotta la norma che contempla il carattere prevalente e sovraordinato dei piani di assetto idrogeologico nei confronti degli altri tipi di piano.
Ora, pare che quella stagione si stia esaurendo, con interventi governativi nelle politiche ambientali di molto penalizzanti, se non addirittura inauditi.
Una visione, un'impostazione, di respiro europeo, vedono una matura, adulta e consapevole politica ambientale o, politica tout court, fortemente intrecciata allo sviluppo e alla sostenibilità. Una concezione della crescita, finora assunta come assiomatica, e perciò indiscutibile, sembra infatti essere posta da più parti in discussione. Non più, cioè, o comunque non solo, crescita-uguale-sviluppo, aumento del prodotto interno lordo, della ricchezza, dell'accumulazione. Si stanno facendo avanti con forza e da più parti approcci nuovi e diversi che guardano alla qualità della produzione, alla distribuzione di beni e sevizi, alla libertà e alla centralità dell'uomo. Cosicché, quando il premio Nobel Sen pone al centro del suo pensiero proprio la libertà come paradigma inalienabile e focus essenziale dell'agire umano, centra un obiettivo ben preciso, disegna un percorso per il nostro futuro: quello dello stop a qualsiasi ipotesi di crescita e di sfruttamento senza frontiere; quello, invece, della promozione di una nuova società, nella globalizzazione, nel mercato mondiale e nell'era della comunicazione e dei servizi.
Molto c'è da lavorare, ampio e variegato è il fronte d'impegno lungo le direzioni tratteggiate: pensare ai consueti (o desueti?) meccanismi di delega ai decisori nazionali o regionali sarebbe riduttivo e sbagliato. Una forte coscienza di sé, una cultura e una prassi basate sulla partecipazione e sullo sviluppo dal basso possono essere le leve decisive non solo per formare e scegliere le prossime classi dirigenti, ma soprattutto per imprimere una svolta al nostro futuro.

gennaio - aprile 2005