In quanto senatore della Repubblica, nella passata legislatura, ho dovuto in diverse occasioni affrontare il tema delle infrastrutture, inserite nel contesto ampio e quanto mai attuale della sostenibilità. Quali che siano l'approccio che si intende seguire e l'angolazione che si sceglie, occorre almeno una premessa.
Infrastrutture, da intendersi come strutture, insediamenti, realizzazioni
'fra' qualcosa, strumenti e mezzi che collegano, in termini e con
riferimenti diversi, realtà sparse sul territorio: o cos'altro?
Di certo, l'accezione più diffusa e ancora valida, non fosse altro
per motivi etimologici, conserva una sua validità gnoseologica,
ma non è in grado di evocare tutta la gamma di possibili e potenziali
significati e ricadute. Per un verso, non spiega le ragioni e le priorità
della loro realizzazione, se non si sceglie prima o contestualmente quali
insediamenti promuovere o privilegiare, in virtù di vocazioni territoriali
individuate e selezionate, che vanno, appunto, infrastrutturate, con il
rischio, altrimenti, di avere monconi eseguiti a metà e non fruibili
e, per converso, desolanti cattedrali nel deserto. E, d'altro canto, richiama
un generico adeguamento di standard, di fronte a gap e ritardi,
e inaggettivate, e quindi vacue, modernizzazioni.
Non c'è dubbio che questa seconda opzione potrebbe, da sola e di
per sé, rispondere a reali e non eludibili domande di promozione
sociale ed economica, oltre che di equilibrio territoriale in termini
di dotazioni almeno minime, per non parlare di virtuosi circuiti keynesiani
derivanti dalle intraprese infrastrutturali. Ma, soprattutto in presenza
di realtà in cui è possibile introdurre, con attendibilità
e accettabile contezza previsionale, ricadute rilevanti ed elementi di
crescita e di programmazione flessibile, risulterebbe molto parziale una
scelta derivante solo dall'opzione 'adeguamento di standard comunque',
mentre le opportunità che a questa si accompagnano, qualora s'introduca
una scelta legata allo sviluppo e alla valorizzazione produttiva di fasce
territoriali vocate, risultano di gran lunga più allettanti e perciò
da privilegiare.
Infrastrutture, quindi, intese come opere non solo di collegamento, di mobilità e di convogliamento di beni economici, materiali e immateriali che siano, ma anche come azioni di intervento attivo in ambiti territoriali che presentano particolari emergenze. Accanto, così, alle reti trasportistiche - su gomma, su ferro, via aria e su acqua - e alle loro intermodalità, acquistano sempre maggiore rilevanza altre reti, più o meno imposte, e comunque rese necessarie nelle società industriali e postindustriali di oggi. Reti acquedottistiche, di approvvigionamento, raccolta, regolazione e distribuzione; impianti di trattamento delle acque reflue e impianti di smaltimento e riutilizzo dei rifiuti solidi; impianti di desalinizzazione delle acque marine; interventi volti alla bonifica di siti inquinati e dismessi, alla messa in sicurezza di aree soggette a rischi idrogeologici, al controllo di movimenti franosi, previsione e prevenzione delle piene; politiche contro la desertificazione; politica delle coste in termini antierosivi e di azioni sia contro l'inquinamento che contro l'inclusione del cuneo salino; tutela delle acque sotterranee e controllo delle falde; ma anche reti energetiche e impianti di coltivazione e distribuzione delle risorse primarie, e anche, e soprattutto, reti telematiche e informatiche: quelle, cioè, che segnano in misura ormai prioritaria il grado di maturità tecnologicamente avanzata di un territorio.
Procedere su base induttiva, sulla scorta magari di paradigmi generici non sufficientemente elaborati e fatti propri, ma importati acriticamente da esperienze di settore e non d'insieme, da altri contesti e da altre realtà, potrebbe risultare riduttivo e perciò inefficace. Muoversi, invece, dopo un'attenta ricognizione di risorse, una vigile, moderna e sofisticata lettura del territorio - penso alle cartografie tematiche computerizzate, ai Gis, ai Sit -, un'articolata e argomentata cornice di opportunità praticabili, può essere il modus attraverso il quale coniugare modernità, sviluppo e rispetto dei patrimoni naturali, dentro una griglia di priorità attentamente selezionata.
In Italia, fino a qualche anno fa non c'era documento in cui ossessivamente
- e qualche volta anche a sproposito - non venisse riportato il termine
'programmazione'. Poi ci si è resi conto che una fin troppo rigida
concezione dello Stato, una visione eccessivamente burocratica e vincolistica
degli apparati pubblici, un voler 'mettere le braghe alla storia', con
cultura dirigistica e deterministica, non funzionava, semplicemente non
dava risposte, ma addirittura risultava d'intralcio: era, insomma, l'antipolitica,
con tutto quello di negativo che ciò comporta. Recentemente è
stata abbracciata la cultura della flessibilità e della deregulation,
della liberalizzazione e del procedere per comparti. Anche in questo caso
l'esito è sotto gli occhi di tutti, almeno di quelli che vogliono
vedere: scempi territoriali, pianificazioni, ancorché agili, inesistenti,
prevalere di lobbies, un senso comune e collettivo fortemente affievolito,
l'oggettiva esaltazione di culture darwinistiche, il mercato eletto
a momento decisionale.
Ultimamente si avvertono segnali consistenti, frutto essenzialmente di
elaborazioni in sede di Unione Europea, indirizzate in pratica alle politiche
di settore: idrico, idrogeologico, agronomico, ambientale, urbanistico,
paesaggistico, energetico e così via. Politiche modulabili attraverso
piani integrati, improntati, com'è giusto, alla flessibilità
e all'aggiornabilità: una sorta di programmazione 'per progetti',
che deve essere comunque, a mio parere, ancora esplorata e verificata
fino in fondo. Che senso e quali risultati producono, infatti, piani di
bacino idrogeologici, piani di utilizzo delle acque, piani di trattamento
dei rifiuti, strumenti urbanistici, piani d'assetto agro-forestale, piani
di sviluppo dei parchi naturali, e così via, se non c'è
una visione di sistema, che li renda uno congruente all'altro, e non,
come spesso si verifica, scollegati fra loro, a volte non compatibili,
spesso sovrapponibili, in taluni casi addirittura contraddittori? Com'è
possibile che un piano d'aria vasta, o solo un piano regolatore, si occupi
prevalentemente, esclusivamente si può dire, di edificabilità
e di aree urbane o urbanizzabili, decontestualizzando i comparti periferici
a vocazioni produttive in termini di settore primario e quasi rimuovendoli,
censurandoli? è possibile, perché la legislazione, la cultura
sottesa direi, era ed è, in materia, figlia dell'urbanizzazione,
della rendita fondiaria, di un modello di società, organizzata
o meno, a livello di comunità o fortemente atomizzata poco importa,
che vedeva e vede l'esodo verso le grandi concentrazioni delle città
e delle metropoli, l'abbandono delle aree interne, il sacrificare non
solo risorse e comparti, ma stili di vita e modelli di società
che avevano fornito l'imprinting delle società europee.
Ma i nodi, come si dice, vengono al pettine, così che - accanto ai mostruosi, invivibili e ingestibili contenitori di cemento delle megalopoli, scarsamente, inadeguatamente infrastrutturate e servite, di fronte ad una domanda energetica crescente in misura esponenziale - si affacciano dinamiche che sia l'Unione Europea sia l'ONU stanno da un po' di tempo sottoponendo criticamente all'esame dei decisori politici ed economici degli stati nazionali. Non parlo qui esplicitamente della Conferenza di Rio de Janeiro, del Protocollo di Kyoto, della Sessione sullo sviluppo sostenibile dell'ONU a New York, delle numerose conferenze internazionali sui cambiamenti climatici, sugli insediamenti umani, sullo sviluppo sostenibile, sulle risorse idriche, tenutesi negli ultimi anni a Recife, a Manila, a Buenos Aires, a Parigi, a Torino, a Marrackesch, a l'Aja. Né farò riferimento alle fortissime resistenze che i paesi più industrializzati oppongono in direzione di una revisione delle politiche energetiche per fronteggiare cambiamenti climatici, effetto serra, malattie e avanzamento dei deserti, o, per converso, alla crescente e del tutto legittima domanda dei 'paesi in via di sviluppo' di far parte a pieno titolo del 'club dei potenti'. Sarà sufficiente ricordare due conclusioni contenute in atti inoppugnabili. La prima, di fonte Croce Rossa Internazionale, riporta il dato agghiacciante secondo il quale negli ultimi dieci anni le vittime dovute a catastrofi 'naturali' (si dice, impropriamente, ancora così!) sono in numero di gran lunga superiore a quello causato da conflitti bellici. La seconda, di fonte ufficiale UE, è che nei prossimi dieci anni la superficie agraria utilizzabile (SAU) nei paesi membri sarà di oltre il quaranta per cento inferiore rispetto a quella attuale, con conseguenze economiche e produttive, ma anche e soprattutto di assetto e di difesa del suolo, di conservazione di ecosistemi e di biodiversità, di opposizione alla desertificazione, di diminuzione dei 'polmoni verdi', di manutenzione minuta e capillare di poderi, valli, pendici, montagne e corsi d'acqua, assolutamente, drammaticamente pesanti.
Il fatto è che con l'ambiente, finora, si è scherzato - mi si passi il termine - fin troppo, e da più parti. Da chi, da santone integralista pensava - pensa ancora? - di fermare le lancette del tempo, proponendo - è difficile dire quanto in buona fede - di bloccare pauperisticamente sviluppo e crescita. Ma soprattutto da chi voleva e vuole imporre modelli imperialistici di sfruttamento indiscriminato di risorse, con nessuna cautela, se pur minima, nei confronti della irriproducibilità dei beni, dell'inquinamento, delle malattie, dello sconvolgimento di equilibri sensibilissimi e millenari, dell'esclusione crescente di oltre la metà della popolazione del pianeta da un assetto minimo di sopravvivenza.
Jared Diamond, 'Premio Pulitzer' per la saggistica, dimostra con uno studio
multidisciplinare, in "Armi, Acciaio e Malattie", come
la storia del mondo e dei popoli sia nient'altro che il frutto di condizioni
e di condizionamenti ambientali, e quanto l'uomo possa vincere o cavalcare,
esasperandole, situazioni date, assunte come strutturali.
Ora siamo, però, come dice Reneè Thom nella sua "Teoria
delle catastrofi", in corrispondenza di una cuspide, un punto
cioè di svolta, di discontinuità, al quale ci rimanda dall'alto
del suo magistero anche Papa Giovanni Paolo II: il sistema, così
com'è andato configurandosi, non regge più, né bastano
gli ultimi, ennesimi allarmi. Occorre passare al fare, non lasciandosi
irretire da un malinteso e distorto concetto di modernità, di opulenza
e di ricchezza espansiva senza limiti. Molto semplicemente così
non è, e qualsiasi sistema, in prossimità di uno stato di
crisi, trova sempre un nuovo equilibrio; in tempi più o meno ravvicinati,
ma lo trova. Solo che, ce lo ricorda Paul Buchanan in "Ubiquità",
questo equilibrio non è indifferente alle azioni che nel frattempo
si pongono in essere. Dipende dai tempi, dalle modalità, dall'ammontare
di queste azioni, altrimenti rischiamo di consegnare a noi stessi, prima
ancora che ai nostri figli, un pianeta sconvolto e più povero.
Occorre perciò rischiare, con misure coraggiose, e in qualche misura
controcorrente rispetto alla domanda di benessere effimero che avanza
da parte delle popolazioni delle società opulente, per porre un
argine e un freno. Ma d'altronde - ce lo dice così bene Max Weber
- se la politica non rischia, non è, e se la politica non è,
vince la corporazione, la legge del più forte, l'assenza di una
prospettiva comune. E se Serge Latouche afferma che la cifra più
evidente delle moderne società occidentali è la convivenza
con il rischio, derivante da una molteplicità di fattori, e in
più campi, tornano alla mente le parole di Hölderlin: "Quando
è in prossimità del pericolo l'uomo scopre la sua possibilità
di rinascere".
S'era fatto molto in campo ambientale, nelle due ultime legislature in Italia, con iniziative d'origine sia governativa che parlamentare, in ambito nazionale, europeo e mondiale. Grandi opere, sì, ma corredate da valutazioni d'impatto ambientale e criteri di sostenibilità economico-funzionale, oltre che ambientale; un interesse particolare verso la bonifica e la dismissione dei siti inquinati e contaminati; grande attenzione legislativa e finanziaria per la difesa del suolo; normativa d'avanguardia sui rifiuti e sulla qualità delle acque; lotta all'inquinamento elettromagnetico e all'effetto serra; riduzione delle perdite nelle condotte d'adduzione dell'acqua e piani per l'approvvigionamento, lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse idriche; drastica semplificazione nelle procedure e passaggio da un impianto dirigistico di controllo, a uno di spesa compatibile; estensione delle aree naturali protette viste come agenzie per lo sviluppo e non come simulacri intangibili; individuazione e messa in evidenza di incongruenze, sovrapponibilità e insufficienze dei numerosissimi piani di settore, di cui dicevo prima, e avvio di una fase di rivisitazione e soluzione. In quest'ultimo caso, per esempio, solo due anni fa, nel cosiddetto 'decreto Soverato', emanato dal Governo a seguito dell'alluvione in Calabria, è stata finalmente introdotta la norma che contempla il carattere prevalente e sovraordinato dei piani di assetto idrogeologico nei confronti degli altri tipi di piano.
Ora, pare che quella stagione si stia esaurendo, con interventi governativi nelle politiche ambientali di molto penalizzanti, se non addirittura inauditi.
Una visione, un'impostazione, di respiro europeo, vedono una matura, adulta
e consapevole politica ambientale o, politica tout court, fortemente
intrecciata allo sviluppo e alla sostenibilità. Una concezione
della crescita, finora assunta come assiomatica, e perciò indiscutibile,
sembra infatti essere posta da più parti in discussione. Non più,
cioè, o comunque non solo, crescita-uguale-sviluppo, aumento del
prodotto interno lordo, della ricchezza, dell'accumulazione. Si stanno
facendo avanti con forza e da più parti approcci nuovi e diversi
che guardano alla qualità della produzione, alla distribuzione
di beni e sevizi, alla libertà e alla centralità dell'uomo.
Cosicché, quando il premio Nobel Sen pone al centro del suo pensiero
proprio la libertà come paradigma inalienabile e focus essenziale
dell'agire umano, centra un obiettivo ben preciso, disegna un percorso
per il nostro futuro: quello dello stop a qualsiasi ipotesi di crescita
e di sfruttamento senza frontiere; quello, invece, della promozione di
una nuova società, nella globalizzazione, nel mercato mondiale
e nell'era della comunicazione e dei servizi.
Molto c'è da lavorare, ampio e variegato è il fronte d'impegno lungo le direzioni tratteggiate: pensare ai consueti (o desueti?) meccanismi di delega ai decisori nazionali o regionali sarebbe riduttivo e sbagliato. Una forte coscienza di sé, una cultura e una prassi basate sulla partecipazione e sullo sviluppo dal basso possono essere le leve decisive non solo per formare e scegliere le prossime classi dirigenti, ma soprattutto per imprimere una svolta al nostro futuro. |
gennaio - aprile 2005 |