Se si
cercasse di raffigurarsi la città emblematicamente più
rappresentativa della globalizzazione neoliberista probabilmente la
scelta ricadrebbe su Londra. La capitale del Regno Unito era il cuore
dell'Impero fino agli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra
mondiale. Tuttavia, il passo ceduto agli Stati Uniti e quindi a New
York non ha offuscato l'essenza di Londra in quanto città "globale",
totalizzante nei suoi tempi di vita e di lavoro, vissuta in tutte le
ore del giorno, con il suo centro, la City, attraversato e circondato
da mille periferie. Rispetto alla New York ferita a Ground Zero, Londra
conserva l'eleganza dell'Europa e può rappresentare, anche urbanisticamente,
il ponte di comando dell'Impero, sebbene di altri tempi. Londra non
è più il centro dell'Impero ma ne è una ambasciata
in Europa, è la prima trincea nel Vecchio Continente della guerra
permanente teorizzata e praticata dai neocons americani.
La scelta di svolgere dal 15 al 17 ottobre 2004, il terzo Forum Sociale
Europeo a Londra muove proprio da queste riflessioni collettive del
movimento europeo ma anche dalla necessità di dare forza al movimento
inglese che è stato capace di notevole vitalità, opponendosi
alla guerra e formando un blocco sociale di opposizione, la Stop
the War coalition, che è riuscita a tenere unite contro la
dottrina Blair del New Labour inglese, forze sociali estremamente eterogenee
e partiti della sinistra più variegata, per lo più minimali
nei numeri e nel radicamento sul territorio inglese. Il Regno Unito
attuale è il prodotto della liberalizzazione totale della Thatcher
negli anni '80: ogni cosa ha il suo prezzo, ogni servizio è concesso
in maniera censocratrica e discriminante rispetto a chi ne fa richiesta.
In questo contesto politico e geografico maturano coscienze contro la
globalizzazione neoliberista che si traducono anche in fiaschi elettorali
clamorosi per Tony Blair, come è accaduto nelle ultime elezioni
europee.
Londra dunque, e il Regno Unito nel suo complesso, si cimentano con
un incontro europeo del movimento e ne sono travolti, superando aspetti
che vedevano nell'idea di Europa un'eccessiva contaminazione dell'isola
britannica con il continente europeo. Il luogo comune che delinea l'abitante
del Regno Unito come "isolano" in senso regressivo, ovvero
custode della propria lingua, della propria tradizione e della propria
sterlina non è così marcato ma sicuramente è un
elemento presente nella discussione che affronta il Forum Sociale Europeo
(FSE). Londra vive, una vita europea, probabilmente per la prima volta,
grazie al movimento. Come sostiene Hilary Wainwright: "c'è
un background culturale di isolamento dal resto dell'Europa. Molti cittadini
britannici parlano di 'andare in Europa' come se fosse un altro continente,
e anche nei dibattiti sul FSE nel Regno Unito, si parla di 'europei'
come 'collaboratori' nell'organizzazione del Forum [...] Con
Il FSE, gli 'insulari' cominciano a sviluppare un'amicizia transnazionale,
a imparare le lingue e a ridefinire così la loro identità
in senso internazionale" (Rivista del Manifesto, ottobre
2004).
Il FSE dà, inoltre, una terza versione dei fatti rispetto allo
stato del movimento in Europa: non vive la partecipazione di Firenze
e non subisce l'eccessiva formalizzazione e istituzionalizzazione come
era accaduto a Parigi. Rimangono le ombre di un'organizzazione lacunosa
che ha dovuto fare i conti con l'assenza totale di strutture pubbliche
di ricezione e una gestione politica forse tarpata dai nodi tuttora
irrisolti della sinistra nel Regno Unito e in Inghilterra particolarmente.
In un paese contraddittorio e visibilmente neoliberista, si tiene un
Forum senza dubbio interessante, con luci e ombre, che risulterebbe
sminuito se non si considerassero alcuni filoni di riflessione emersi
che non possono non interrogare il movimento e il suo agire.
Quale
Europa?
Il 29 ottobre a Roma i 25 Paesi dell'Unione Europea hanno firmato il
Trattato e l'Atto Finale della Costituzione Europea. Si è detto
da più parti quanto questo Trattato abbia in sé pochi
elementi tipici di una Costituzione, a partire dalla modalità
prescelta per la sua stesura attraverso un organismo di secondo livello,
espressione dei Governi nazionali (ciò che si è definita
come Convenzione Europea) per finire al mancato riferimento ad alcuni
principi generali presenti in tutte le costituzioni nazionali. La discussione
sul Trattato Costituzionale si è spesso concentrata su elementi
essenziali solo all'apparenza (si pensi all'annosa questione delle "radici
cristiane") ma non ha mosso un passo in una direzione diversa dal
sistema economico dominante, ovvero dal neoliberismo. Ad ulteriore riprova
di questa affermazione è sufficiente notare come la questione
della guerra e del suo ripudio non sia volutamente trattata.
La Costituzione è nata per formalizzare l'aspetto privatistico
e capitalistico dell'Unione, per sancire, come è accaduto con
il Trattato di Maastricht, che l'unico limite per le azioni intraprese
a livello europee è il mantenimento della libertà del
mercato e della sua unità. E' "incostituzionale" (anche
se questo termine è improprio data la natura peculiare del Trattato)
per l'Europa ciò che lede questo principio e non, come per le
costituzioni dei paesi europei a partire dalla nostra, ciò che
viola i diritti fondamentali.
Con questa realtà appena sintetizzata, il movimento nelle sue
varie articolazioni nazionali ha deciso di aprire una riflessione ormai
ineludibile. Ed è questa realtà che induce a pensare alla
necessità di un "europeismo di sinistra", così
lo definisce Franco Russo in un suo scritto sulla rivista Alternative
(n° 6, anno 2004), come "parte fondamentale della risposta
del vecchio movimento operaio, che prima si disinteressò della
costruzione comunitaria, e quando ne capì la carica di rinnovamneto,
pur sempre nel quadro capitalistico, si appiattì sulle scelte
delle élite europee". Questa carica di rinnovamento
ha parzialmente attraversato le discussioni londinesi dove probabilmente
l'unica vera novità, più dinamica rispetto alle precedenti
"novità" perché tuttora in formazione, è
la soggettività della Sinistra Europea, nata a maggio scorso
a Roma, non come coacervo europeo di partiti di sinistra, comunisti
e radicali, ma come luogo aperto, contaminato e contaminante, che trae
spunto e vigore dal movimento sviluppatosi in Europa.
In particolare un affollatissimo seminario tenutosi durante la seconda
giornata del FSE ha visto confrontarsi Fausto Bertinotti (presidente
del Partito della Sinistra Europea), Hilary Wainwright (redazione di
Red Pepper - consigliere comunale di Londra), Daniel Bensaid (Critique
Communiste) e John Holloway (autore del libro "Cambiare il mondo
senza prendere il potere", Ed. Intra Moenia, Roma 2002). I
contenuti che hanno messo in campo questi relatori hanno sicuramente
individuato "il" problema essenziale per la costruzione di
un'unità di intenti e di idee politiche per la trasformazione
sociale dell'attuale società capitalistica. In particolare l'opzione
di Holloway ha sfidato l'idea attualizzata di un'avanguardia di classe
guida delle masse sfruttate (Bensaid) e l'idea che i cambiamenti sociali
devono e possono prodursi attraversando il potere per trasformare l'attuale
(posizione espressa da Wainwright). Il "duello" si è,
quindi, svolto tra chi riteneva che l'attuale ruolo dei partiti è
"congelare" il potenziale dei movimenti in attesa di un momento
non meglio definito per procedere alla trasformazione, posizione provocatoriamente
espressa da Halloway, ma raccolta e contrastata da Bertinotti che ha
negato tale ruolo ascritto ai partiti politici. Piuttosto è la
definizione del potere a determinare nuove strategie e a indicare come
la costruzione di un altro potere, basato sulla nonviolenza e sull'uguaglianza,
possa rappresentare una possibile via d'uscita ed è l'attuale
banco di prova teorico e pratico delle sinistre e dei movimenti. Un
dibattito intenso e vitale che si è intrecciato con altri momenti
di seminario e di plenaria sulla partecipazione e sulla nuova cittadinanza.
Cooperazione
e partecipazione
L'idea dei municipi come argine non alla disgregazione dello stato nazione
ma come alternativa al dominio transnazionale del neoliberismo ha irrobustito
le riflessioni sull'Europa e sull'alternativa. Le esperienze di nuovo
governo dal Brasile di Porto Alegre ai municipi chiapanechi fino alle
esperienze partecipative nel nostro paese sono l'altro aspetto dell'"altra
Europa", quell'Europa che, liberatasi dal suo attuale governo tecnocratico,
dovrebbe intrecciare il "buon governo" con la partecipazione.
L'idea del locale può fare molto anche a livello globale, rafforzando
così le azioni di diplomazia dal basso di cui necessitano le
zone di conflitto. Mustaspha Barghouti (direttore del Health Development
e Information Project a Ramallah in Palestina) ha sottolineato come
il nuovo internazionalismo passa attraverso progetti di cooperazione
che portano nelle zone di guerra non un generico aiuto umanitario, ma
un aiuto teso alla formazione di coscienze politiche che possano sfuggire
alla logica suicida degli attentati e alla propaganda fondamentalista.
Questi progetti (costruzione di radio e media nelle città assediate
dai tank israeliani, depurazione delle acque per i Municipi Ribelli
del Chiapas, ecc.) sono la risposta dal basso all'inefficacia delle
mediazioni internazionali o alla risposta cieca e disperata delle armi.
Che
ne è del movimento?
Nel FSE di Londra aleggiava una domanda sul presente e sul futuro del
movimento, purtroppo rimasta inevasa nonostante tre giornate di intensi
dibattiti e plenarie. Non è possibile stabilire dal FSE di Londra
cosa sia ancora in piedi dello straordinario movimento che si è
opposto alla guerra decisa da Bush e supportata dai "volenterosi"
alleati, ma non si può sottacere la volontà di riscatto
di questo movimento sul neoliberismo e sulle sue conseguenze. Per mesi
moltissime manifestazioni hanno invaso le capitali così come
piccoli borghi in tutta Europa, ma nulla, pare, sia cambiato, la scelta
bellica si è trascinata fino in fondo. In più il Vecchio
Continente non solo non è riuscito in alcun modo come blocco
politico a arginare la scelta statunitense, ma si è diviso irreparabilmente,
segnando lo scontro tra due linee sulle questioni internazionali, incapaci
di comunicare tra loro agevolando chi aveva deciso già la guerra,
con o senza l'Europa. La guerra come elemento permanente nella vita
quotidiana è il frutto del neoliberismo e in quanto tale assolutamente
completata dalle scelte di sfaldamento dello stato sociale e dei diritti
prodotto in Europa dalle destre come anche dalle socialdemocrazie.
A questa evidenza il movimento vuole reagire e ci prova in molti modi,
annettendo strati nuovi della società, rimodulandosi, a tratti
anche disfacendosi. Ma per ogni volta che si dichiara la fine del movimento,
esso rivive, non solo in forma di imponenti mobilitazioni di massa,
ma anche attraverso inaspettate nuove strategie, nuove forme e strumenti
della politica complementari alla mobilitazione di piazza come la disobbedienza,
il boicottaggio, la partecipazione, il nuovo municipalismo, l'altroconsumo.
Non è possibile definire e racchiudere in un'unica cornice il
movimento. Tale operazione si complica maggiormente se si sposta a livello
europeo ma è inconcludente sentenziare, come troppo spesso si
fa, anche a sinistra, la morte del movimento. Il movimento esiste, muta
pelle e corpo, ma rimane salda la sostanza: cambiare il modo, sconfiggere
la barbarie neoliberista, affermare all'uguaglianza.