Arafat addio
di Raffaele Porta

"Presso la sede del Medical Relief a Ramallah fummo intervistati da un funzionario della presidenza dell'ANP che, scrupolosamente, annotò i nostri nominativi e le istituzioni che rappresentavamo. Si scusò per le domande che ci faceva e per la richiesta di informazioni avanzata nei giorni precedenti. Si giustificò al riguardo adducendo ovvi motivi di sicurezza nella preparazione dell'incontro. Proprio per queste ragioni non volle concedere ad un giornalista norvegese corrispondente di un giornale di Bergen di unirsi a noi all'ultimo momento. Per Maurizio, reporter bolognese da noi conosciuto solo qualche giorno prima a casa di Bahia, fui io a garantire. In perfetta incoscienza.
Il funzionario ci confidò che Arafat nutre da sempre una speciale simpatia per il nostro paese e per gli italiani e che, generalmente, gradisce rispondere alle domande estemporanee dei suoi ospiti e che, quindi, non avremmo dovuto farci eccessivi problemi al riguardo.
Con tre automobili ci condusse in pochi minuti all'esterno della Muqata. Arrivammo così in un grande spiazzo che si era venuto a creare a seguito della demolizione di una parte del quartier generale dell'ANP distrutto un anno prima dalla milizia israeliana. L'accesso all'edificio avvenne attraverso una piccola porta che dava in una piccola stanza dove ci chiesero di consegnare i cellulari e nella quale fummo fatti passare attraverso un metal detector simile a quelli presenti comunemente negli aeroporti. In questa camera stazionavano sette uomini armati. Troppi in rapporto alle dimensioni di quell'ambiente che non superava certamente i quindici metri quadri e di cui una buona parte era occupata da quell'ingombrante attrezzatura utilizzata a garanzia che nessun tipo di oggetto metallico fosse introdotto all'interno del bunker.
Entrammo poi in un piccolo e stretto corridoio, anch'esso presidiato da uomini armati e reso difficilmente percorribile da sacchi di sabbia depositati sui lati. Salimmo due strette e corte rampe di scale giungendo ad un altro corto e stretto corridoio presidiato da altri uomini armati ed ingombrato da altri sacchi di sabbia. Se non fosse stato per il suo contenuto in uomini armati e sacchi di sabbia la Muqata non mi avrebbe dato l'impressione di un bunker ma di un normale appartamento per civile abitazione.
La nostra emozione era forte e la tensione che avvertivamo molto alta. Questo clima era certamente determinato dalla eccessiva concentrazione di uomini armati in ambienti molto angusti, ma soprattutto la rapidità dei nostri movimenti, condizionati da quelli dei nostri accompagnatori, faceva sì che il nostro stato emozionale crescesse con il trascorrere dei secondi. Respirammo, nei pochi minuti che separarono il nostro ingresso alla Muqata dalla vista di Arafat, un'aria di concitata apprensione e di evidente allerta. Il comportamento delle guardie del corpo all'interno del bunker faceva chiaramente intendere che essi prefigurassero un pericolo incombente dovuto alla presenza di sconosciuti e che, di conseguenza, fossero pronti ad affrontare e contrastare con la forza una qualsiasi eventuale azione inconsulta di uno o più di noi.
Entrammo alla fine in una stanza rettangolare, grande al massimo una trentina di metri quadrati, occupata interamente da un grande tavolo altrettanto rettangolare circondato da sedie. Riconobbi quell'ambiente avendolo in precedenza visto tante volte in televisione in occasione di servizi che mostravano Arafat ricevere ospiti illustri. Tutto mi apparve più piccolo e umano però rispetto a quanto trasmesso dalle riprese televisive che attribuiscono sempre alle immagini vere un carattere di mitica astrattezza che le rendono diverse dalla realtà.
Al fondo della stanza c'era lui, il rais, da solo, in piedi, in attesa. Ci sorrise, ci avvicinammo, ci abbracciò senza stringerci le mani, ci invitò a sedere e ci offrì subito del caffè e del tè. Io, che rifiutai entrambe le bevande, fui obbligato dalla sua insistenza a consumare alla fine, in alternativa, un succo di frutta.
Arafat ci avvolse con quel calore e quella passione che soltanto le grandi personalità, che hanno vissuto intensamente più vite, sono in grado di trasmettere. Il suo sguardo era vivo, lucido e profondo e comunicava da solo, senza bisogno di essere accompagnato da parole. Cercò con noi un contatto fisico. Mi strinse la mano e non la lasciò per molto tempo.
Arafat è sicuramente malato ed il suo corpo è ormai vecchio. Probabilmente è affetto da una forma di morbo di Parkinson, controllato da farmaci, che in certi momenti della discussione gli impediva di trovare le parole che cercava e che un collaboratore, sempre al suo fianco, puntualmente gli suggeriva. Ciononostante ci apparve del tutto vigile, consapevole e combattivo.
Io ero seduto al suo fianco, alla sua sinistra. Mi chiese di avvicinarmi un po' di più a lui. Il tavolo lo consentiva perché dove lui era seduto il tavolo non era squadrato ma ovale. Fu in quel momento che notai dietro alla sua sedia, per terra sotto il muro alle sue spalle, una mitraglietta nascosta per metà da un classificatore. Il mio pensiero volò istantaneamente a Salvador Allende, al palazzo della Moneda in cui il presidente cileno si barricò nel 1973 per resistere al golpe di Pinochet, ed a quella mitraglietta, regalatagli da Fidel Castro, che il presidente cileno utilizzò contro i golpisti che entrarono nel suo studio per arrestarlo o ucciderlo. Pensai che Arafat la tenesse lì pronta per farne lo stesso uso, per sparare contro chi, prima o poi, entrerà nella Muqata per arrestarlo o ucciderlo.
L'incontro iniziò con un discorso prolisso di Nicola che pazientemente Maura, una giornalista dell'Unità che era venuta con noi in Palestina, tagliò abbondantemente traducendolo in inglese. Io, brevemente, espressi la solidarietà della nostra città a lui ed al suo popolo augurandogli una lunga vita in buona salute. Cercai di instaurare in quella stanza un clima più disteso e meno formale parlando direttamente in inglese, lingua che Arafat naturalmente capisce e parla correntemente. Avvertivo che era quello che lui desiderava, un colloquio tra amici. Ne ebbi conferma dai suoi sorrisi e dalle sottolineature di alcuni concetti da me espressi che lui riprese più volte interrompendomi. E me lo confermò soprattutto quella sua mano sinistra stretta alla mia mano destra che Arafat non lasciò neppure per un attimo da quando abbandonammo la stanza della riunione, e che tenne stretta lungo le scale fino al momento dell'incontro, all'esterno della Muqata, con le decine di telecamere e microfoni che erano in attesa.
Un incontro, di circa due ore, fatto di emozionate domande e di appassionate risposte. Ci disse di temere fortemente la eventualità di una invasione dell'Iraq, in quanto era convinto che Sharon avrebbe colto l'occasione per intensificare le azioni militari in Cisgiordania e a Gaza. Ci parlò dei pericoli insiti nel disegno strategico di espulsione di migliaia di palestinesi dai Territori verso l'Iraq che, una volta cacciato Saddam Hussein, l'amministrazione Bush avrebbe avuto intenzione di dividere in tre Stati. E del pericolo di realizzazione di una forma di vero e proprio apartheid nelle città palestinesi recintate da quelle mura che Sharon stava edificando. Ci disse che la guerra poteva essere ancora evitata e che, in ogni caso, non sarebbe scoppiata prima della fine del pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca. Espresse fiducia nell'Europa, unico soggetto in grado, a suo avviso, di poterla ancora fermare. Arafat esternò forte preoccupazione non solo per il suo popolo, ma anche per la pace mondiale. A me apparve comunque pessimista e rassegnato per l'immediato futuro. Le sue parole mi sembrarono andare "oltre" e prefigurare, in caso di attacco americano all'Iraq, un lungo periodo di forte instabilità - non solo per l'area mediorientale – e gravido di imprevedibili tragici accadimenti.
Rispose a quattro o cinque domande poste in modo concitato dai giornalisti radiotelevisivi che ci avevano atteso all'esterno della Muqata. Poi, sottovoce e quasi scusandosi, mi comunicò che, purtroppo, doveva rientrare all'interno del bunker per problemi di sicurezza. Ci abbracciammo e baciammo ancora una volta, e solo allora lasciò libera la mia mano."
(Da "Un Cuore Nuovo", ed. L'Ancora del Mediterraneo, aprile 2004)

Questo è il racconto del mio primo incontro con Yasser Arafat, avvenuto nel gennaio 2003 e riportato in un libro-diario al quale ho affidato la descrizione di un'intensa esperienza vissuta in Palestina alla vigilia dell'invasione angloamericana dell'Iraq.
Ho incontrato in seguito il rais una seconda ed ultima volta nel luglio 2004, quattro mesi prima della sua morte. Pranzammo insieme a molti sindaci delle città dei Territori occupati in una sala della Muqata allestita allo scopo. Lo attendemmo per oltre un'ora perchè impegnato in un summit più lungo del previsto con il primo ministro Abu Ala. Summit che ebbe per oggetto le minacciate dimissioni di quest'ultimo per il solito motivo. Quello, cioè, che aveva determinato alcuni mesi prima la rinuncia del suo predecessore Abu Mazen: il trasferimento del reale potere sulle forze di polizia che Arafat continuava ad esercitare in prima persona.
Le accuse dei suoi nemici – e quelle di una parte dei suoi avversari interni - si fondavano infatti su un presunta tolleranza di Arafat nei confronti dei gruppi palestinesi più estremisti. Accuse che i fedelissimi del rais hanno sempre respinto accusando a loro volta gli israeliani di bombardare gli edifici che ospitano le forze di polizia palestinese deputate a mantenere l'ordine nei territori ed a prevenire le azioni dei kamikaze. In proposito, ho potuto di persona constatare le rovine a Gaza di una sede della polizia palestinese andata distrutta a seguito dei bombardamenti dell'esercito israeliano. Rovine che pongono seri dubbi sulle intenzioni del governo israeliano di non voler ostacolare le attività delle forze dell'ordine dell'autorità palestinese.
Ho la convinzione, comunque, che in più occasioni le accuse ad Arafat di aver tollerato, ed in alcuni casi di aver addirittura coperto, azioni violente di gruppi estremistici abbiano un reale fondamento. Quanto tale tolleranza abbia trovato giustificazione nell'esigenza prioritaria di preservare sempre e comunque "l'unità nazionale" è e resterà argomento controverso di indagine storica.
Lui ci apparve all'improvviso, senza essere annunziato, come al solito sorridente. Le sue condizioni di salute non mi parvero peggiorate rispetto al precedente incontro. Solo le mani mi colpirono subito per il loro colore assolutamente anomalo. Erano infatti tra il bianco ed il giallo. Sembravano di cera. Un particolare inquietante che non si intonava però con le sue capacità di movimento e di argomentazione che mi apparvero immutate.
Alla luce di quanto accaduto in seguito, quel colore innaturale ha assunto per me un significato correlato alle ragioni della sua morte. La carenza di piastrine nel sangue, rivelata dai referti medici, hanno lasciato indefinite le cause della sua malattia. Leucemia o altro tumore delle cellule del sangue, intossicazione cronica, avvelenamento, cirrosi epatica, o addirittura AIDS, restano ipotesi oramai difficilmente verificabili. E qualora fosse stato avvelenato, Arafat è rimasto vittima dei servizi segreti israeliani o di faide interne tra fazioni palestinesi?
La causa e gli eventuali artefici della sua morte resteranno probabilmente a questo punto sconosciuti, e la morte di Arafat resterà, ne sono certo, avvolta per sempre nel mistero. Come resteranno controversi, e quindi oggetto di futuri studi e ricerche, i suoi ipotizzati errori politici e diplomatici nel corso delle varie fasi della guerra con Israele e dei periodici negoziati ed accordi, ultimo quello mancato di Taba. Guerra, negoziati ed accordi che furono condotti sempre e solo da Arafat con i molteplici governi israeliani, di destra e di sinistra, succedutisi nel tempo. Non può essere considerato infatti né un'ipotesi né un oggetto di controversie, ma semplicemente un dato storico, il fatto che il tempo non modificò mai l'interlocutore palestinese. Arafat, sempre lui e solo lui. Arafat, sempre e solo Arafat, al confronto di Rabin, Peres, Netanyahu, Barak, Sharon.
Con quelle mani – mani che mi apparvero prive di sangue - senza l'aiuto di posate mangiò, e con evidente appetito, una coscia di pollo. Sorseggiò una cocacola in lattina tra i sorrisetti malevoli di alcuni commensali europei che, a bassa voce, commentarono sarcasticamente le campagne dei noglobal di casa nostra a favore della meccacola.
Terminato il pranzo, il rais si lasciò andare ad un monologo, durato circa un quarto d'ora, contro i massacri delle truppe americane in Iraq. Poi mi raccomandò di portare a termine il gemellaggio tra le città di Napoli e Nablus, ricordando a tutti, ancora una volta, che i loro nomi hanno l'identico significato di "nuova città".
Prima di allontanarsi Arafat mi regalò l'ultimo sorriso e l'ultimo abbraccio con i quali mi ringraziò di avergli regalato un piccolo pulcinella di terracotta bianco e rosso, opera del noto artista napoletano Lello Esposito. Mi chiesi mentre si allontanava se l'avessi rivisto ancora.
Sono contento di essere riuscito nell'impresa. Il 2 ottobre 2004, infatti, il sindaco di Nablus Hussein Alaraj e il sindaco di Napoli Rosa Iervolino firmarono nella Sala Giunta del Municipio di Napoli un protocollo di collaborazione tra le due città con il coinvolgimento dei Rettori delle rispettive Università.
Il 4 novembre 2004 un improvviso aggravamento delle sue condizioni di salute fece precipitare Yasser Arafat in uno stato di coma con la conseguente dichiarazione di morte cerebrale fatta dai medici di un ospedale militare situato alla periferia di Parigi dove Arafat era stato ricoverato alcuni giorni prima. Il 4 novembre di nove anni prima Yitzhak Rabin, che con Arafat aveva ricevuto il premio Nobel per la pace, era stato assassinato da un esponente della destra oltranzista israeliana. Raccapricciante coincidenza.
Con la scomparsa di Arafat muore un altro pezzo della nostra vita. Di quella vissuta, cioè, da chi ha creduto nei valori della sinistra internazionalista. Un altro pezzo che viene consegnato, ancora una volta, al giudizio della storia.
Qualsiasi sia il giudizio che la storia gli assegnerà, Yasser Arafat continuerà comunque, per molto tempo, a simboleggiare la lotta del popolo palestinese e la sua aspirazione ad avere un proprio Stato sovrano ed indipendente. In quanto simbolo, ad Arafat sarà comunque riservato lo stesso giudizio che è stato sempre attribuito ai leader che hanno immolato la propria esistenza sull'altare della propria patria. La sua vita si è identificata con la sua missione, il suo volto con l'immagine della Palestina.
Ciò che in queste ore risulta invece controversa, e da me assolutamente non condivisa, è l'idea che la morte di Arafat possa rappresentare una nuova opportunità per riaprire quel percorso di pace tra israeliani e palestinesi da tempo interrotto. Una nuova e felice opportunità, cioè, per riavviare una politica di negoziati tra le due parti. Idea che trovo non solo sbagliata, ma che personalmente giudico ingiusta e malevola. Idea che presuppone la convinzione che Yasser Arafat rappresentasse da tempo (da quando?) un ostacolo sulla via di una pace possibile, un ostacolo per la creazione di due Stati per i due popoli. Arafat, a volte ferocemente criticato dall'ala moderata di eccessiva tolleranza nei confronti degli estremisti di Hamas e della Jiad islamica, è stato a sua volta da questi ultimi spesso accusato di essersi attorniato di corrotti e di coprire gli scandali in cui questi ultimi erano stati coinvolti. La scomparsa di Arafat dovrebbe quindi consentire ora, secondo questa linea di pensiero, l'inizio di un processo virtuoso sia tra i palestinesi sia tra i palestinesi e gli israeliani.
Io ritengo che non sarà così, che quest'analisi è sbagliata perché Arafat è stato fino alla sua morte, al contrario, un punto di equilibrio determinante per il popolo palestinese, di cui sentiranno in molti la mancanza, e per lungo tempo. La massiccia presenza della comunità internazionale al Cairo per i suoi funerali, e la straordinaria partecipazione di popolo a Ramallah per la sua sepoltura, ne sono una prima chiara dimostrazione. Non un tappo, quindi, o un ostacolo sulla strada difficile, lunga e tortuosa della pace e della creazione di uno Stato palestinese, ma un padre della patria riconosciuto, in grado di mantenere l'unità del suo popolo malgrado le oggettive inferiorità militare, politica e diplomatica.
Ritengo, pertanto, che il pericolo che i palestinesi vadano incontro ad un periodo conflittuale - e dagli esiti difficilmente prevedibili - nella ricerca di una nuova e condivisa leadership, sia purtroppo molto più che una delle ipotesi in campo. E resto convinto che questa eventualità sia talmente all'attenzione di una parte della dirigenza israeliana, e non da oggi, che possa rappresentare essa stessa parte della strategia messa in atto dal governo Sharon negli ultimi anni. Quella cioè di puntare ad una esasperazione della lotta interna tra le diverse fazioni palestinesi, se non ad una vera e propria "guerra civile". La scelta "unilaterale" che caratterizza il ritiro israeliano da Gaza e la costruzione del muro in senso di apartheid e di segregazione di città e villaggi palestinesi con la creazione di veri e propri "inferni sigillati", più che a scopo preventivo di eventuali attacchi terroristici, potrebbero essere interpretati come tasselli di un mosaico avente proprio questo disegno strategico.

gennaio - aprile 2005