"Presso
la sede del Medical Relief a Ramallah fummo intervistati da un funzionario
della presidenza dell'ANP che, scrupolosamente, annotò i nostri
nominativi e le istituzioni che rappresentavamo. Si scusò per
le domande che ci faceva e per la richiesta di informazioni avanzata
nei giorni precedenti. Si giustificò al riguardo adducendo ovvi
motivi di sicurezza nella preparazione dell'incontro. Proprio per queste
ragioni non volle concedere ad un giornalista norvegese corrispondente
di un giornale di Bergen di unirsi a noi all'ultimo momento. Per Maurizio,
reporter bolognese da noi conosciuto solo qualche giorno prima a casa
di Bahia, fui io a garantire. In perfetta incoscienza.
Il funzionario ci confidò che Arafat nutre da sempre una speciale
simpatia per il nostro paese e per gli italiani e che, generalmente,
gradisce rispondere alle domande estemporanee dei suoi ospiti e che,
quindi, non avremmo dovuto farci eccessivi problemi al riguardo.
Con tre automobili ci condusse in pochi minuti all'esterno della Muqata.
Arrivammo così in un grande spiazzo che si era venuto a creare
a seguito della demolizione di una parte del quartier generale dell'ANP
distrutto un anno prima dalla milizia israeliana. L'accesso all'edificio
avvenne attraverso una piccola porta che dava in una piccola stanza
dove ci chiesero di consegnare i cellulari e nella quale fummo fatti
passare attraverso un metal detector simile a quelli presenti comunemente
negli aeroporti. In questa camera stazionavano sette uomini armati.
Troppi in rapporto alle dimensioni di quell'ambiente che non superava
certamente i quindici metri quadri e di cui una buona parte era occupata
da quell'ingombrante attrezzatura utilizzata a garanzia che nessun tipo
di oggetto metallico fosse introdotto all'interno del bunker.
Entrammo poi in un piccolo e stretto corridoio, anch'esso presidiato
da uomini armati e reso difficilmente percorribile da sacchi di sabbia
depositati sui lati. Salimmo due strette e corte rampe di scale giungendo
ad un altro corto e stretto corridoio presidiato da altri uomini armati
ed ingombrato da altri sacchi di sabbia. Se non fosse stato per il suo
contenuto in uomini armati e sacchi di sabbia la Muqata non mi avrebbe
dato l'impressione di un bunker ma di un normale appartamento per civile
abitazione.
La nostra emozione era forte e la tensione che avvertivamo molto alta.
Questo clima era certamente determinato dalla eccessiva concentrazione
di uomini armati in ambienti molto angusti, ma soprattutto la rapidità
dei nostri movimenti, condizionati da quelli dei nostri accompagnatori,
faceva sì che il nostro stato emozionale crescesse con il trascorrere
dei secondi. Respirammo, nei pochi minuti che separarono il nostro ingresso
alla Muqata dalla vista di Arafat, un'aria di concitata apprensione
e di evidente allerta. Il comportamento delle guardie del corpo all'interno
del bunker faceva chiaramente intendere che essi prefigurassero un pericolo
incombente dovuto alla presenza di sconosciuti e che, di conseguenza,
fossero pronti ad affrontare e contrastare con la forza una qualsiasi
eventuale azione inconsulta di uno o più di noi.
Entrammo alla fine in una stanza rettangolare, grande al massimo una
trentina di metri quadrati, occupata interamente da un grande tavolo
altrettanto rettangolare circondato da sedie. Riconobbi quell'ambiente
avendolo in precedenza visto tante volte in televisione in occasione
di servizi che mostravano Arafat ricevere ospiti illustri. Tutto mi
apparve più piccolo e umano però rispetto a quanto trasmesso
dalle riprese televisive che attribuiscono sempre alle immagini vere
un carattere di mitica astrattezza che le rendono diverse dalla realtà.
Al fondo della stanza c'era lui, il rais, da solo, in piedi, in attesa.
Ci sorrise, ci avvicinammo, ci abbracciò senza stringerci le
mani, ci invitò a sedere e ci offrì subito del caffè
e del tè. Io, che rifiutai entrambe le bevande, fui obbligato
dalla sua insistenza a consumare alla fine, in alternativa, un succo
di frutta.
Arafat ci avvolse con quel calore e quella passione che soltanto le
grandi personalità, che hanno vissuto intensamente più
vite, sono in grado di trasmettere. Il suo sguardo era vivo, lucido
e profondo e comunicava da solo, senza bisogno di essere accompagnato
da parole. Cercò con noi un contatto fisico. Mi strinse la mano
e non la lasciò per molto tempo.
Arafat è sicuramente malato ed il suo corpo è ormai vecchio.
Probabilmente è affetto da una forma di morbo di Parkinson, controllato
da farmaci, che in certi momenti della discussione gli impediva di trovare
le parole che cercava e che un collaboratore, sempre al suo fianco,
puntualmente gli suggeriva. Ciononostante ci apparve del tutto vigile,
consapevole e combattivo.
Io ero seduto al suo fianco, alla sua sinistra. Mi chiese di avvicinarmi
un po' di più a lui. Il tavolo lo consentiva perché dove
lui era seduto il tavolo non era squadrato ma ovale. Fu in quel momento
che notai dietro alla sua sedia, per terra sotto il muro alle sue spalle,
una mitraglietta nascosta per metà da un classificatore. Il mio
pensiero volò istantaneamente a Salvador Allende, al palazzo
della Moneda in cui il presidente cileno si barricò nel 1973
per resistere al golpe di Pinochet, ed a quella mitraglietta, regalatagli
da Fidel Castro, che il presidente cileno utilizzò contro i golpisti
che entrarono nel suo studio per arrestarlo o ucciderlo. Pensai che
Arafat la tenesse lì pronta per farne lo stesso uso, per sparare
contro chi, prima o poi, entrerà nella Muqata per arrestarlo
o ucciderlo.
L'incontro iniziò con un discorso prolisso di Nicola che pazientemente
Maura, una giornalista dell'Unità che era venuta con noi in Palestina,
tagliò abbondantemente traducendolo in inglese. Io, brevemente,
espressi la solidarietà della nostra città a lui ed al
suo popolo augurandogli una lunga vita in buona salute. Cercai di instaurare
in quella stanza un clima più disteso e meno formale parlando
direttamente in inglese, lingua che Arafat naturalmente capisce e parla
correntemente. Avvertivo che era quello che lui desiderava, un colloquio
tra amici. Ne ebbi conferma dai suoi sorrisi e dalle sottolineature
di alcuni concetti da me espressi che lui riprese più volte interrompendomi.
E me lo confermò soprattutto quella sua mano sinistra stretta
alla mia mano destra che Arafat non lasciò neppure per un attimo
da quando abbandonammo la stanza della riunione, e che tenne stretta
lungo le scale fino al momento dell'incontro, all'esterno della Muqata,
con le decine di telecamere e microfoni che erano in attesa.
Un incontro, di circa due ore, fatto di emozionate domande e di appassionate
risposte. Ci disse di temere fortemente la eventualità di una
invasione dell'Iraq, in quanto era convinto che Sharon avrebbe colto
l'occasione per intensificare le azioni militari in Cisgiordania e a
Gaza. Ci parlò dei pericoli insiti nel disegno strategico di
espulsione di migliaia di palestinesi dai Territori verso l'Iraq che,
una volta cacciato Saddam Hussein, l'amministrazione Bush avrebbe avuto
intenzione di dividere in tre Stati. E del pericolo di realizzazione
di una forma di vero e proprio apartheid nelle città palestinesi
recintate da quelle mura che Sharon stava edificando. Ci disse che la
guerra poteva essere ancora evitata e che, in ogni caso, non sarebbe
scoppiata prima della fine del pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca.
Espresse fiducia nell'Europa, unico soggetto in grado, a suo avviso,
di poterla ancora fermare. Arafat esternò forte preoccupazione
non solo per il suo popolo, ma anche per la pace mondiale. A me apparve
comunque pessimista e rassegnato per l'immediato futuro. Le sue parole
mi sembrarono andare "oltre" e prefigurare, in caso di attacco
americano all'Iraq, un lungo periodo di forte instabilità - non
solo per l'area mediorientale – e gravido di imprevedibili tragici
accadimenti.
Rispose a quattro o cinque domande poste in modo concitato dai giornalisti
radiotelevisivi che ci avevano atteso all'esterno della Muqata. Poi,
sottovoce e quasi scusandosi, mi comunicò che, purtroppo, doveva
rientrare all'interno del bunker per problemi di sicurezza. Ci abbracciammo
e baciammo ancora una volta, e solo allora lasciò libera la mia
mano." (Da "Un Cuore Nuovo", ed. L'Ancora
del Mediterraneo, aprile 2004)
Questo
è il racconto del mio primo incontro con Yasser Arafat, avvenuto
nel gennaio 2003 e riportato in un libro-diario al quale ho affidato
la descrizione di un'intensa esperienza vissuta in Palestina alla
vigilia dell'invasione angloamericana dell'Iraq.
Ho incontrato in seguito il rais una seconda ed ultima volta nel luglio
2004, quattro mesi prima della sua morte. Pranzammo insieme a molti
sindaci delle città dei Territori occupati in una sala della
Muqata allestita allo scopo. Lo attendemmo per oltre un'ora perchè
impegnato in un summit più lungo del previsto con il primo ministro
Abu Ala. Summit che ebbe per oggetto le minacciate dimissioni di quest'ultimo
per il solito motivo. Quello, cioè, che aveva determinato alcuni
mesi prima la rinuncia del suo predecessore Abu Mazen: il trasferimento
del reale potere sulle forze di polizia che Arafat continuava ad esercitare
in prima persona.
Le accuse dei suoi nemici – e quelle di una parte dei suoi avversari
interni - si fondavano infatti su un presunta tolleranza di Arafat nei
confronti dei gruppi palestinesi più estremisti. Accuse che i
fedelissimi del rais hanno sempre respinto accusando a loro volta gli
israeliani di bombardare gli edifici che ospitano le forze di polizia
palestinese deputate a mantenere l'ordine nei territori ed a prevenire
le azioni dei kamikaze. In proposito, ho potuto di persona constatare
le rovine a Gaza di una sede della polizia palestinese andata distrutta
a seguito dei bombardamenti dell'esercito israeliano. Rovine che
pongono seri dubbi sulle intenzioni del governo israeliano di non voler
ostacolare le attività delle forze dell'ordine dell'autorità
palestinese.
Ho la convinzione, comunque, che in più occasioni le accuse ad
Arafat di aver tollerato, ed in alcuni casi di aver addirittura coperto,
azioni violente di gruppi estremistici abbiano un reale fondamento.
Quanto tale tolleranza abbia trovato giustificazione nell'esigenza
prioritaria di preservare sempre e comunque "l'unità
nazionale" è e resterà argomento controverso di
indagine storica.
Lui ci apparve all'improvviso, senza essere annunziato, come al
solito sorridente. Le sue condizioni di salute non mi parvero peggiorate
rispetto al precedente incontro. Solo le mani mi colpirono subito per
il loro colore assolutamente anomalo. Erano infatti tra il bianco ed
il giallo. Sembravano di cera. Un particolare inquietante che non si
intonava però con le sue capacità di movimento e di argomentazione
che mi apparvero immutate.
Alla luce di quanto accaduto in seguito, quel colore innaturale ha assunto
per me un significato correlato alle ragioni della sua morte. La carenza
di piastrine nel sangue, rivelata dai referti medici, hanno lasciato
indefinite le cause della sua malattia. Leucemia o altro tumore delle
cellule del sangue, intossicazione cronica, avvelenamento, cirrosi epatica,
o addirittura AIDS, restano ipotesi oramai difficilmente verificabili.
E qualora fosse stato avvelenato, Arafat è rimasto vittima dei
servizi segreti israeliani o di faide interne tra fazioni palestinesi?
La causa e gli eventuali artefici della sua morte resteranno probabilmente
a questo punto sconosciuti, e la morte di Arafat resterà, ne
sono certo, avvolta per sempre nel mistero. Come resteranno controversi,
e quindi oggetto di futuri studi e ricerche, i suoi ipotizzati errori
politici e diplomatici nel corso delle varie fasi della guerra con Israele
e dei periodici negoziati ed accordi, ultimo quello mancato di Taba.
Guerra, negoziati ed accordi che furono condotti sempre e solo da Arafat
con i molteplici governi israeliani, di destra e di sinistra, succedutisi
nel tempo. Non può essere considerato infatti né un'ipotesi
né un oggetto di controversie, ma semplicemente un dato storico,
il fatto che il tempo non modificò mai l'interlocutore
palestinese. Arafat, sempre lui e solo lui. Arafat, sempre e solo Arafat,
al confronto di Rabin, Peres, Netanyahu, Barak, Sharon.
Con quelle mani – mani che mi apparvero prive di sangue - senza
l'aiuto di posate mangiò, e con evidente appetito, una
coscia di pollo. Sorseggiò una cocacola in lattina tra i sorrisetti
malevoli di alcuni commensali europei che, a bassa voce, commentarono
sarcasticamente le campagne dei noglobal di casa nostra a favore della
meccacola.
Terminato il pranzo, il rais si lasciò andare ad un monologo,
durato circa un quarto d'ora, contro i massacri delle truppe americane
in Iraq. Poi mi raccomandò di portare a termine il gemellaggio
tra le città di Napoli e Nablus, ricordando a tutti, ancora una
volta, che i loro nomi hanno l'identico significato di "nuova
città".
Prima di allontanarsi Arafat mi regalò l'ultimo sorriso
e l'ultimo abbraccio con i quali mi ringraziò di avergli
regalato un piccolo pulcinella di terracotta bianco e rosso, opera del
noto artista napoletano Lello Esposito. Mi chiesi mentre si allontanava
se l'avessi rivisto ancora.
Sono contento di essere riuscito nell'impresa. Il 2 ottobre 2004,
infatti, il sindaco di Nablus Hussein Alaraj e il sindaco di Napoli
Rosa Iervolino firmarono nella Sala Giunta del Municipio di Napoli un
protocollo di collaborazione tra le due città con il coinvolgimento
dei Rettori delle rispettive Università.
Il 4 novembre 2004 un improvviso aggravamento delle sue condizioni di
salute fece precipitare Yasser Arafat in uno stato di coma con la conseguente
dichiarazione di morte cerebrale fatta dai medici di un ospedale militare
situato alla periferia di Parigi dove Arafat era stato ricoverato alcuni
giorni prima. Il 4 novembre di nove anni prima Yitzhak Rabin, che con
Arafat aveva ricevuto il premio Nobel per la pace, era stato assassinato
da un esponente della destra oltranzista israeliana. Raccapricciante
coincidenza.
Con la scomparsa di Arafat muore un altro pezzo della nostra vita. Di
quella vissuta, cioè, da chi ha creduto nei valori della sinistra
internazionalista. Un altro pezzo che viene consegnato, ancora una volta,
al giudizio della storia.
Qualsiasi sia il giudizio che la storia gli assegnerà, Yasser
Arafat continuerà comunque, per molto tempo, a simboleggiare
la lotta del popolo palestinese e la sua aspirazione ad avere un proprio
Stato sovrano ed indipendente. In quanto simbolo, ad Arafat sarà
comunque riservato lo stesso giudizio che è stato sempre attribuito
ai leader che hanno immolato la propria esistenza sull'altare
della propria patria. La sua vita si è identificata con la sua
missione, il suo volto con l'immagine della Palestina.
Ciò che in queste ore risulta invece controversa, e da me assolutamente
non condivisa, è l'idea che la morte di Arafat possa rappresentare
una nuova opportunità per riaprire quel percorso di pace tra
israeliani e palestinesi da tempo interrotto. Una nuova e felice opportunità,
cioè, per riavviare una politica di negoziati tra le due parti.
Idea che trovo non solo sbagliata, ma che personalmente giudico ingiusta
e malevola. Idea che presuppone la convinzione che Yasser Arafat rappresentasse
da tempo (da quando?) un ostacolo sulla via di una pace possibile, un
ostacolo per la creazione di due Stati per i due popoli. Arafat, a volte
ferocemente criticato dall'ala moderata di eccessiva tolleranza
nei confronti degli estremisti di Hamas e della Jiad islamica, è
stato a sua volta da questi ultimi spesso accusato di essersi attorniato
di corrotti e di coprire gli scandali in cui questi ultimi erano stati
coinvolti. La scomparsa di Arafat dovrebbe quindi consentire ora, secondo
questa linea di pensiero, l'inizio di un processo virtuoso sia
tra i palestinesi sia tra i palestinesi e gli israeliani.
Io ritengo che non sarà così, che quest'analisi
è sbagliata perché Arafat è stato fino alla sua
morte, al contrario, un punto di equilibrio determinante per il popolo
palestinese, di cui sentiranno in molti la mancanza, e per lungo tempo.
La massiccia presenza della comunità internazionale al Cairo
per i suoi funerali, e la straordinaria partecipazione di popolo a Ramallah
per la sua sepoltura, ne sono una prima chiara dimostrazione. Non un
tappo, quindi, o un ostacolo sulla strada difficile, lunga e tortuosa
della pace e della creazione di uno Stato palestinese, ma un padre della
patria riconosciuto, in grado di mantenere l'unità del
suo popolo malgrado le oggettive inferiorità militare, politica
e diplomatica.
Ritengo, pertanto, che il pericolo che i palestinesi vadano incontro
ad un periodo conflittuale - e dagli esiti difficilmente prevedibili
- nella ricerca di una nuova e condivisa leadership, sia purtroppo molto
più che una delle ipotesi in campo. E resto convinto che questa
eventualità sia talmente all'attenzione di una parte della
dirigenza israeliana, e non da oggi, che possa rappresentare essa stessa
parte della strategia messa in atto dal governo Sharon negli ultimi
anni. Quella cioè di puntare ad una esasperazione della lotta
interna tra le diverse fazioni palestinesi, se non ad una vera e propria
"guerra civile". La scelta "unilaterale" che caratterizza
il ritiro israeliano da Gaza e la costruzione del muro in senso di apartheid
e di segregazione di città e villaggi palestinesi con la creazione
di veri e propri "inferni sigillati", più che a scopo
preventivo di eventuali attacchi terroristici, potrebbero essere interpretati
come tasselli di un mosaico avente proprio questo disegno strategico.