Turisti per caso e per virtù, secondo coscienza
di
Anna Marcianò

D’accordo, ci parliamo attraverso le pagine di una rivista, qui presentiamo le nostre esperienze, le definiamo, le analizziamo, troviamo un terreno comune anche per poter usare i termini con un significato chiaro e condiviso. Da un certo punto di vista “turismo responsabile” è un’espressione su cui possiamo convenire tutti senza troppa riflessione, poiché il primo termine è noto da più di un secolo e da vari decenni declinato secondo il modello della società dei consumi e del concetto di tempo libero; quanto al secondo è più indefinito semanticamente ma riferibile alla propria esperienza, poiché ognuno sperimenta una sua responsabilità particolare, verso gli obblighi lavorativi o la famiglia o l’impegno assunto nei campi più vari. Dunque per non restare nel vago possiamo arrivare ad una definizione “per contrasto”, ovvero deve esistere un turismo IRRESPONSABILE, contrario all’etica, a un qualche “dovere”, agli obblighi di rispetto… Qui comincia dunque l’ambito problematico, ove occorre la presa di coscienza. Eppure dopo lo stress del lavoro, l’influenza del pargolo, la ricerca della badante per il nonno, il nostro livello di analisi non è brillante, abbiamo solo voglia di relax, un bel posto, un bell’albergo, camerieri efficienti, angoli romantici, svago e ozio come banalmente suggerisce l’etimologia della parola “vacanza”. Dunque non ci accorgiamo dell’impatto ambientale che noi villeggianti produciamo in quel luogo fascinoso e solatio, non ci chiediamo dove finisca la nostra spazzatura, quanto siano pagati quei camerieri, da dove viene l’acqua della grande piscina, a chi vanno i soldi che la vostra famigliola spende per le dorate ferie. Si può pensare che se si visita il Marocco quei profitti vadano ai Marocchini, se si sta in Thailandia ai Tailandesi… etc… etc.
In realtà le cose non stanno affatto così, e qualsiasi viaggiatore mi stia leggendo può verificare se i luoghi toccati dal turismo di massa negli anni non siano mutati, perdendo un po’ del loro aspetto primigenio, per diventare un più affollati, un po’ più sporchi, un po’ più globalizzati, un po’ meno autentici, un po’ più cementificati. Se si trattasse solo di questo, delle conseguenze “normali” della pressione demografica e delle spinte al consumo, il danno sarebbe ancora circoscritto. Ma la cosa è ben più grave. Si parla pochissimo di turismo sessuale ma di fatto ha cambiato l’economia e lo stile di vita di intere regioni, con una tragica eredità di mercificazione e sfruttamento di cui tanti Europei e in particolare molti Italiani sono responsabili, proprio il contrario dell’idea astratta per cui arricchirsi equivale ad emanciparsi, secondo il luogo comune beota che accompagna la celebrazione dell’economia. Anche senza il verificarsi di così terribili emergenze, nel migliore dei casi il contatto con un modello culturale proposto come vincente ha prodotto nei paesi poveri processi imitativi che contribuiscono a destrutturare le già precarie economie del luogo e soprattutto scardinano alcune regole vigenti nelle società tradizionali che attraverso tali regole – magari incomprese o invise all’occidente – si autotutelano. La necessità di risorse idriche per i grandi villaggi, alberghi etc. ha fatto sì che esse venissero strappate alle comunità che ne avevano prima beneficiato, in omaggio agli interessi di lobby potentissime contro le quali le organizzazioni per la tutela degli abitanti nulla possono.
Queste lobby sono tutte statunitensi ed europee (i Francesi sono al 2° posto come fatturato e quantità di strutture), in minor misura anche australiane, a conferma del fatto che piove sempre sul bagnato e che, per esemplificare, ben poco si avvantaggiano i Senegalesi dei magnifici club balneari delle loro coste, anzi vicino a Dakar c’era un lago che diventò negli anni ’90 discarica a cielo aperto dove confluirono rifiuti di provenienza tedesca, e quanto al personale di servizio affaccendato intorno ai bungalow dei villaggi per vacanze, percepisce paghe da fame, basta chiedere per verificare. Nonostante la ricchezza paesaggistica che, sfruttata in modo razionale ed ecocompatibile, fornirebbe prospettive di lavoro in ambito turistico, com’è noto il Senegal vive grazie ad altro e soprattutto per le rimesse dei migranti. Se vogliamo riprendere altri esempi, visto che la rivista ospita spesso articoli relativi al tema dell’acqua, è bene sapere che in Birmania campi da golf e hotel sopravvivono a discapito dei locali, costretti a rinunciare alle proprie risorse idriche e addirittura – secondo molte fonti – a vere e proprie corvèes per la costruzione di strutture turistiche, fatto che ha fornito motivo per la campagna di boicottaggio contro il turismo in Birmania sulla quale in internet vi è ampia informazione. Comunque l’irresponsabilità, l’offesa all’ambiente, lo sfruttamento irrazionale delle risorse, la scarsa ricaduta sulle economie locali non sono conseguenze del turismo solo in luoghi lontani dove governi autoritari e complici si prestano alle “grandi manovre” di chi detiene i maggiori profitti: se là è realtà ben duttile, come sostiene l’economista W. Andreff, che documenta l’azzeramento delle nazionalizzazioni delle multinazionali da parte dei P.V.S. e il moltiplicarsi dei processi di privatizzazione dal periodo degli anni ’70 fino ai ’90 (cfr.: “Le multinazionali globali” ASTERIOS edizioni, Trieste, 2000), anche più vicino a noi, in ogni senso, è verificabile qualche fenomeno analogo.
Quest’estate a Lanzarote, percorsa ormai da milioni di turisti come tutte le Canarie, dotata di un aeroporto che ha aumentato a dismisura la quantità di voli negli ultimi anni, ho provato a osservare con attenzione e sono nate spontanee alcune domande.
Dove vanno a finire queste montagne di spazzatura? Che non è differenziata perché il turista porcello butta tutto ovunque, in spiaggia, sugli scogli, sui marciapiedi, nei giardini, nei solchi di scolo dell’acqua piovana, in mare, … . Anche sub e pescatori sembrano qui non guardare molto alla pulizia del loro amato mare in omaggio al concetto che tanto l’Atlantico lava via tutto.
La seconda domanda è: esistono abitanti dell’isola che siano riusciti a mantenere un’integrità di comunità con un proprio profilo socio-culturale? Hanno un peso nella gestione delle attività legate al turismo, o tutto è in mano ai tour operator, alle grandi lobby che detengono villaggi, alberghi, affitti periodici e altre attività di sicuro profitto? Certo è che le suddette lobby in questo luogo dove ogni anno si avvicendano tanti turisti con un immaginabile impatto ambientale, contribuiscono per nulla allo smaltimento dei rifiuti, alla tutela ecologica, e piuttosto sembra che usino e riusino senza pensare a quando l’ecosistema dell’isola comincerà a portare i segni dello sfruttamento. Tutte le mie domande sono ad ora senza risposta. Quando ho provato a chiedere all’assistente in loco del tour operator se Lanzarote avesse una discarica, e se non pensasse che -visti i profitti ottenuti- le aziende del settore dovessero far qualcosa per l’ambiente mi ha guardato come un marziano, dicendo che queste cose le deve fare lo Stato. Dunque anche in territorio spagnolo l’azienda fa profitti e inquina e lo Stato deve trovare altrove i soldi per disinquinare, sempre sperando nella sensibilità di chi amministra….!
Per tornare allora alla definizione di turismo responsabile, chiariti questi aspetti, occorre dire che esso è ancora uno stile di consumo, come tale ha una sua genesi, una storia che si rifà al consumo critico, al valore attribuito da un intero movimento alle conseguenze dei propri gesti, al “che cosa c’è dietro” quel che acquisto, mangio, bevo,indosso, e infine anche dietro al mio viaggiare. Se alla fine degli anni ’60 nasce l’esigenza di un commercio equo e solidale va da sé che l’input nuovo, il mutamento di prospettive legato al consumo critico, pian piano dilaga fino a toccare altri terreni; e vero è che diventiamo più sensibili man mano che la globalizzazione procede nel male e nel bene, mentre la mobilità contribuisce ad evidenziare certi danni, mentre il bombardamento mediatico su determinati fenomeni induce fastidio e desiderio di altre risposte meno facili e meno collaudate. Allo stato attuale non sono pochi in Italia coloro che animano gruppi di vario tipo e organizzano viaggi responsabili: le associazioni sono quasi una cinquantina, con un incremento rilevante nell’ultimo biennio e per lo più riunite nel consorzio di A.I.T.R. (Associazioni italiane di turismo resp.). Sono basate sul volontariato, mai lucrative, legate talora ad esperienze di base o politiche, talora ad O.N.G. o a cooperanti nel 3° mondo, talora operanti nel nostro Sud per recuperare un patrimonio minacciato da varie emergenze sociali, però riescono a mobilitare circa 500 viaggiatori annualmente, cifra ben lontana dalle centinaia di migliaia che quotidianamente si affidano alle agenzie e al circuito tradizionale, capaci dunque di direzionare milioni di clienti secondo quote variabili di anno in anno. Dunque qualcuno definisce la nostra modalità come un fenomeno di nicchia, e tuttavia non va taciuto che sempre di più sono gli utenti che si collegano ai siti di queste associazioni, sempre di più sono coloro che chiedono ragguagli e momenti di incontro su tale tematica, non pochi quelli che si mostrano stanchi di una tipologia di viaggio preconfezionata e inadatta a chi guarda con senso critico il mondo circostante. E’ importante considerare che chi sceglie questo approccio non si limita a visitare luoghi, fare bagni, scattare foto, vedere meraviglie della natura e dell’architettura: incontra e parla, osserva da vicino la relazione tra Sud e Nord del mondo, conosce da vicino produttori, cooperative locali, insegnanti, medici, protagonisti piccoli e grandi di realtà associative e antagoniste, promotori di esperienze di autogestione in campo rurale ecc. ecc.
Il rifiuto di avvalersi delle grandi catene del turismo di massa promuove l’autoorganizzazione delle comunità per offrire servizi di accoglienza su piccola scala, permettendo il sostentamento di molte famiglie escluse dal circuito economico che fa capo ai grandi tour operator. Il rifiuto del “viaggio organizzato” incentiva la conoscenza reciproca, l’empatia, la solidarietà entro i piccoli gruppi che normalmente partono per questo tipo di turismo, e si ha l’occasione di vedersi una prima volta nella riunione preparatoria, utile a definire l’organizzazione, e a fornire informazioni secondo le esigenze emerse nel gruppo. Il rifiuto di muoversi entro il dualismo “struttura-escursione”, “dentro-fuori”, permette un’osservazione privilegiata del modus vivendi locale, per comprendere cultura e tradizione. Il rifiuto di aderire alla proposta dell’agenzia viaggi, firmando moduli e assegni senza entrare nel merito della distribuzione delle uscite, permette al viaggiatore di interagire con l’organizzazione e di avere totale trasparenza poiché la composizione del prezzo è descritta e una parte delle quote versate va a beneficio di un progetto di emancipazione o solidarietà sociale visionato durante la vacanza stessa.
Sulla base di tutto ciò, movendoci dunque in un ambito di idealità e possibilità, ma sperimentando una proposta attiva e mutevole, capace di evolvere e aggiungere, di controllare i progetti, di studiare nuove mete, coinvolgere nuovi soggetti, le associazioni italiane di turismo responsabile hanno partecipato al Forum Sociale Mondiale dalla seconda edizione e al Forum Sociale Europeo dalla prima; hanno collaborato sempre con il commercio equo e con le esperienze di consumo critico di altri paesi, hanno ricercato forme di finanza alternativa e partecipato a progetti di microcredito importanti, hanno fatto pressioni su varie associazioni non direttamente coinvolte per promuovere informazione e radicarsi sul territorio. Nonostante questi motivi di soddisfazione è ovvio che il cammino è ancora lungo, che 500 persone non sono una quota su cui assestarsi, che esistono limiti alla proposta insiti nel fatto che le associazioni si affidano al lavoro volontario, non fruiscono di grandi canali di promozione, non coinvolgono grandi firme del giornalismo, non possono permettersi pubblicità in grande stile. Promozionare un viaggio senza manifesti, annunci, modalità consuete e differenziate in uso per le aziende è faticoso : occorre cercare sedi opportune per gli incontri, volantinare, fare il passa-parola per la serata di presentazione, poi una non basta, e allora devi ritrovare modi, tempi, spazi per altre serate. A volte poi è difficile sintonizzarsi in anticipo su quanto richiesto dai viaggiatori. La mia associazione è stata assediata dalle richieste per il Perù mentre altre mete sono meno gettonate, nonostante la cura e le energie profuse in ugual misura per la riuscita di tutti i percorsi. Abbiamo ad esempio la proposta di un viaggio in Senegal particolarmente interessante, studiato con l’ausilio di una comunità di assistenza ai migranti della nostra città: il viaggio tocca luoghi suggestivi ma affronta anche la periferia della capitale, qui si incontrano realtà di base tese a ridurre il danno in un quartiere povero, inondato nell’89, con problemi legati alla scolarizzazione e alla malnutrizione e dunque sede di progetti diversificati. Anche in ambito rurale si vanno a visitare comunità contadine organizzate per contrastare il depauperamento in atto. Non mancheranno le spiagge famose, il Sine-Saloum con il suo delta, la bellissima Saint Louis e persino 2 giorni in Gambia. Eppure, dopo il tempo speso per definire questo lungo e poliedrico percorso, per i contatti con le O.N.G. e gli accordi con le comunità, la stesura di una guida cartacea con la storia del paese, la descrizione dei luoghi etc., ebbene la proposta non ha avuto ad oggi alcun successo. Ci sono talora fattori imponderabili che giocano nel determinare tutto ciò, noi non facciamo “indagini di mercato” secondo le pratiche di marketing. Talvolta anche i viaggiatori più coscienziosi hanno, pur senza saperlo, una loro idea astratta fatta di esotico e “curioso” , per la quale Machu Pichu è più seduttivo del Golfo di Guinea, i resti precolombiani più spettacolari di una foresta di baobab.
Per quanto tutti noi cerchiamo di essere rispettosi, di non produrre rifiuti, di ascoltare, di informarci, di capire, resta il fatto che andremo in Perù e faremo subito 50 foto a raffica per l’esaltazione di ciò che vediamo, dimenticando che in quel luogo “ un paio di rullini fotografici costa quanto un mese di stipendio” (“Andare a quel paese” di D.Canestrini )
Non sarà dunque il turismo responsabile a salvare il mondo, non fornirà molte risposte se siete tra coloro che cercano. Il divario tra Nord e Sud, in casa nostra o nel pianeta, non sarà colmato; la nostra azione non sarà benemerita. Però CONOSCEREMO, e torneremo con varie pagine in più nel libro delle nostre esperienze. Anche la vita dell’associazione può essere coinvolgente, perché organizzare viaggi, parlare con chi vive altrove, sapere cose che nessun giornale ti dice, vedere la soddisfazione di chi torna, sapere che qualcuno conta su di te e sul progetto intessuto insieme, ebbene non è cosa di poco conto. La nostra associazione è nata ad esempio per l’iniziativa di una donna che aveva sempre dato molto nell’impegno politico e sociale e ha trovato in questa attività una dimensione non sempre coerente con le dinamiche già vissute negli altri ambiti, uno stimolo rispetto al quale non ha voluto esimersi, anche quando la novità sorprendeva e spiazzava. Quest’esperienza può aiutarci a capire e a tirare le somme: dunque questo aspetto, cognitivo ed esperienziale insieme, al tempo stesso dotato di concretezza e di forza ideale, circoscritto ai piccoli numeri ma capace di incrementarsi, solido per alcuni effetti ottenuti e nebuloso per la brevità dell’esperienza, questa poliedricità che coinvolge l’aspetto etico e la sostenibilità economica, i criteri ben definiti secondo cui operare e la fantasia scaturita dalle singole occasioni, questo “polimorfismo” del turismo che è responsabile, sociale, ecologico, politico, solidale, rende percorribile la strada che abbiamo scelto, certo non esente da errori ma capace di un futuro. A conferma di ciò invito i lettori che vogliamo più notizie a verificare quanto vario sia il mondo del turismo responsabile, quante tipologie di associazioni e quanti diversi metodi di lavoro siano agibili, pur all’interno di un protocollo definito che garantisca i criteri di eticità validi per noi tutti.

Per una bibliografia sull’argomento cfr. il sito nazionale dell’A.I.T.R.

settembre - dicembre 2004